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Conglomerandocene: dove vanno a finire i palloncini?

Nella nuova puntata della rubrica dello Sgargabonzi su Rolling Stone, una storia di palloncini, spazio profondo e Autogrill

Conglomerandocene: dove vanno a finire i palloncini?

Foto via Unsplash

Spazio.

Elemento di difficile comprensione fatto di vuoto quantistico e allo stesso tempo di pieno quantico. Dove finisce lo spazio? È un interrogativo che ha percorso immutabile la storia del mondo, dagli uomini primitivi che guardavano il cielo cercando di scorgerne il confine, all’astronauta Buzz Aldrin che provava a scorgerlo dalla luna. Ed è la stessa domanda che si fa un bimbo al luna park, quando il suo palloncino gli sfugge di mano e vedendolo volare in cielo si chiede: dove finirà? Andrà nel paradiso dei palloncini? Sarà un messaggio d’amore e pace inviato ad altri pianeti lontani? No bimbo, perché quel palloncino scoppia come raggiunge una pressione barica di 32,7 gradi Stoccolma (inutile spiegartelo) e diventa un palloncino scoppiato, che ricade sulla terra, magari nei pressi del buio parcheggio di un Autogrill, dove un camionista cattivo ha appena finito di strangolare tua mamma col filo di ferro, dopo aver abusato di lei con dei cantucci alle mandorle presi nell’angolo rustico del suddetto Autogrill. Quel camionista poi, uscendo dal suo autoarticolato, espleterà un bisogno corporale in un cespuglio lì vicino, e le sue feci finiranno proprio sui brandelli di quel palloncino rosso, lo stesso che la mamma ti comprò sorridendoti e dicendoti: “tieni Mimmo, la mamma ti vuole tanto bene”.

Ma tornando a questioni più scientifiche: quanto è sconfinato lo spazio? Avrà una fine? Tutto ha una fine, anche Bruno Gambarotta, quindi non vedo perché lo spazio dovrebbe fare eccezione. Mettiamo che tutto lo spazio sia contenuto in un’immensa scatola. Una scatola più grande di quanto possiamo immaginare, dal volume pari a quello di decine e decine di scatole da scarpe. Uno lì per lì si sentirebbe rassicurato: “ho capito dove finisce lo spazio!” E invece no, perché oltre quella scatola potrebbe esserci qualsiasi cosa, anche una seconda scatola un pochino più grande. O anche novecentottantamila miliardi di bilioni più grande, siamo nello spazio, non stiamo lì a guardare il millimetro! Oppure quello spazio che a noi sembra infinito potrebbe essere contenuto in una di quelle bocce di vetro, che si capovolgono e viene la neve, usata come trastullo da una civiltà lontana di alieni giganteschi. E in quel caso si spiegherebbe come mai ogni tanto nevica anche nella nostra realtà. Oppure il nostro spazio è in un granello di quella neve finta. E in quel caso si spiegherebbe come mai ogni tanto ci sentiamo come se nevicassimo. O, ancora, oltre quella scatola potrebbe esserci il contrario dello spazio: il tempo. E lì ragazzi sarebbe veramente dura.

Ma intanto è la notte di Natale, e il piccolo Mimmo soffoca il suo pianto nel cuscino, ripensando a sua mamma e alle favole che gli raccontava per farlo addormentare. E quando il babbo va a dargli la buonanotte, Mimmo non è felice, perché le sere in cui il babbo beve poi gli racconta la favola della pecorella docile e del torrone insinuante dell’angolo rustico dell’Autogrill. Così quel bimbo, per estraniarsi dall’orrore di quella realtà, pensa allo spazio, allo sconfinato spazio, allo sconsiderato spazio e fino a dove si estenderà. Ma un giorno di primavera si sente bussare alla porta di casa, corre ad aprire ed è allora che vede lui, il suo palloncino rosso che gli vola incontro. È così che quel bimbo per un momento torna a sorridere. Pochi attimi più tardi scoprirà che quello non era il suo palloncino, ma solo un gavettone di piscio.

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