Ci incontriamo sul vialetto sbiadito dal sole estivo, una strada senza uscita scandita dal tempo dei giardini: pallonate, tagliaerba, urla di madri che richiamano i piccoli a cena. L’occasionale macchina che procede a passo d’uomo per evitare gatti spaventati e bambini assatanati stavolta è quella dei miei genitori, mia madre biologica e mio padre acquisito, che ha appena quindici anni più di me. Sono venuti a prendermi alla fine di un campo scout che segnerà la fine della mia infanzia, mi hanno fatto salire in macchina con le gambe stanche e la pelle scottata e sudata, e mi hanno comunicato che da oggi la mia traiettoria verso casa cambierà per sempre.
Mentre guardo fuori dal finestrino sono terrorizzato all’idea di dovermi integrare in mezzo a tutti quei nuovi bambini: corpi goffi e nervosi profumati di latte e Autan, occhi curiosi e voraci che si posano su di me mentre scendo dall’auto. State facendo ambarabacicìcocò per decidere chi farà la conta a nascondino, vi fermate. Io ho dodici anni, vengo da un condominio popolare rosso mattone dove abitavo con i miei nonni. Ho già imparato ad avere paura delle persone e infatti voglio iniziare subito a nascondermi. Tu hai sempre vissuto qui e di anni ne hai sei. Allora come ora per te nessuno è emarginato, nessuno deve restare solo.
Non c’è nessuna musica e nessun ralenti la prima volta che ci salutiamo: l’amore ancora non esiste. Arriva dopo, con le scelte di una vita intera.
Mi chiedo quali siano state le svolte che abbiamo preso e che ci hanno portato qui, mentre ciondolo in mezzo a un strada che attraversa tutto il deserto del Sud della California, davanti a noi un tramonto rosso immenso, tutto intorno nessuno per miglia, solo scorpioni. Stringo forte gli occhi mentre tu scatti una foto e provo a tornare indietro, a correre a ritroso lungo il dedalo di ramificazioni, i vari noi che siamo stati: svegli troppo a lungo in una tenda stretta, tra te e le tue sorelle; io che interpretavo il demone Cole e tu eri Phoebe nei giochi di ruolo a tema Streghe, e la naturalezza in cui quei sogni a occhi aperti parlavano della costruzione delle nostre identità senza giudizi; la kefiah che indossavi a quattordici anni e i miei stati di Facebook in terza persona (XD); il giorno che la mia fidanzata dell’epoca ti aiutò a organizzare la tua mostra fotografica e passammo il pomeriggio a installarla assieme al tuo fidanzato dell’epoca; i tuoi messaggi il giorno in cui ero in ospedale con il petto fasciato e il sorriso sciolto dalla morfina; i miei vestiti sbagliati e le campane sotto le quali ci siamo osservati sanguinare; il buio blu dolce e profumato di fiori il giorno che mi hai baciato sullo stesso vialetto che ci ha visto salutarci in mille ciao e mille addio.

Samuele Galli. Foto: Silvia Clo Di Gregorio
Torniamo indietro al punto della storia in cui siamo stati più lontani.
Io nascosto nel costume che mi ero fabbricato, per anni, la mia tuta da astronauta uomo; cuciti tutti i punti con una meravigliosa elegante precisione, testate tutte le valvole, collegati tutti i cavi. Alta ingegneria che mi è costata anni di dimenticanze in cui non ho saputo nutrirmi di altro che del pensiero di poter assomigliare a me stesso. Nessuno sapeva più ritrovarmi, nemmeno io. E nel tempo sono rimpicciolito e scivolato sul fondo di quel magistrale costume perfetto. Tu nel frattempo dove sei stata? Stavi cavalcando eterea un’onda infinita in quel intervallo dorato in cui il sole è sempre sul punto di tramontare. Un astro che non riposa mai, che non si ferma mai, il cui cuore trabocca a ogni pulsazione. Ma la cosa più divertente, nel lasso di tempo che ci siamo persi, è che pensavo fossi diventata un po’ una menosa con la tua vita a Roma e le tue felpe a stampa limitata. E tu forse pensavi che io fossi diventato un po’ uno sfigato, ancora a vivere nella piccola provincia che ci ha visti crescere a suon di delusioni, uscito da un cassetto per rientrare in un altro fatto su misura per me.
E forse avevamo tutti e due un po’ ragione, dall’angolo lontanissimo da cui guardavamo le cose, con quella lente distorta con cui si vede tutto quello che ci è così estraneo. Ma quanto torto avevamo stava tutto nello spazio del possibile, dell’immaginabile, dell’inventabile.
Cala la notte come una tovaglia su un tavolo imbandito e ci rincontriamo nei sogni l’unə dell’altrə: io e te nascosti tra i piedi degli adulti. Ci facciamo shhh tra i risolini, allacciamo le scarpe dello zio con quelle del nonno, rubiamo i grissini per usarli come denti di coniglio. Ma gli adulti seduti al tavolo siamo sempre noi: noi che ceniamo assieme vent’anni dopo e sappiamo tutto di quello che ci è successo, ma non sappiamo niente di quello che saremo. Si apre un nuovo modo di considerare il tempo, mentre noi fondiamo il passato e il presente si perde la linearità, le versioni di noi collassano sul futuro. Dai due poli opposti del dolore cadiamo l’uno verso l’altro e disegniamo delle nuove facce alle nostre cicatrici: facce buffe, facce mostruose, facce libere. Tu mi insegni a darmi il permesso di sognare, io costruisco la barca su cui cullarti nell’oceano tempestoso. Facciamo un rito magico e troviamo un modo tutto nostro per scrivere la nostra geografia queer.

Foto: cortesia
Hai iniziato a fare foto che per me eri una bimba, mentre io ero in transizione chiuso dentro me stesso e una panciera stretta al petto perché ancora i binder non esistevano. E vent’anni dopo mi ritrovo nudo con i piedi nella neve in cima a una montagna e tu mi guardi dal mirino di una macchina fotografica. Mi urli: Urla! e mi si spezza la voce e non riesco, non sono pronto, tu mi ripeti: Urla! Sei libero! Sei bellissimo! E io rido, mi stringo, mi nascondo, mi è stato insegnato solo questo dal primo giorno della mia vita, mi urli: Urla! E scatti una, due, tre foto, respiro l’aria freddissima ma mi sento infuocato, mi sento che è possibile, e allora urlo, urlo che esisto, anche se non so ancora chi sono.
Il mio corpo mi ha insegnato la diversità, strappandomi in due, costringendomi a lacerarmi per non morire; mentre tu l’hai imparato nel tuo cuore che potevi essere anche qualcosa di inventato: tu crei, io esisto – tu leviti, io scavo – tu orchestri, io sanguino sui tamburi – tu scatti, io performo – tu cambi, io resisto. Scriviamo questa storia assieme e tracciamo i nostri ruoli su questa mappa inesplorata, nuovi territori dell’intimità, dove il significato di amore e di famiglia assume nuove paradigmi. Sì, sono solo un ragazzo e tu solo una ragazza (per giunta della porta accanto). Eccetto che io non sono un ragazzo e tu non sei una ragazza, ma siamo due individualità QUEER.
Il termine inglese, che significa “strambo” o “eccentrico”, deriva dalla parola tedesca quer: “obliquo” o “di traverso”. La maggior parte del traffico auspica di schiacciarci mentre attraversiamo timidi le loro autostrade di normalità, dritte, veloci, che non ammettono deviazioni. E noi continuiamo, imperterriti, a inventarci nuove strade contorte e diagonali, ci buttiamo indomiti ad attraversare dogmi che travolgono il pericolo di ogni dubbio: moltə sorellə e fratellə sono morti nel tentativo, e gli altri, come noi, cercano di sopravvivere al dolore, alla solitudine, al lutto; resistendo ai clacson, agli insulti, al feticismo contorto e all’ossessione per le nostre vite. Ci uniamo nell’amore in un’unica famiglia. Almeno questo è quello in cui voglio credere e questo, credo, è quello in cui credi anche tu: trovare una nuova strada che ci porti finalmente a quella Tana Libera Tutti, senza ributtarci nell’oblio di doverci nascondere.
Un Fantastico Altrove parla di questo. Parla di liberazione, parla dell’amore come forma di riscoperta dell’identità, di superamento della convenzione, di ricerca di una verità nella complessità dell’esistenza, di una lealtà nella forma di una famiglia che non prevede controllo. Forse quest’Altrove è un’utopia, un Fantastico che si afferra solo nel luccichio casuale del mondo: il lampo di un occhio di gatto che ti osserva, un flash nel buio, una scintilla di luce nell’acqua in movimento. Forse non lo troveremo mai. Ma so che non smetteremo mai di cercarlo.

Silvia Clo Di Gregorio. Foto: Samuele Galli

Foto: cortesia
Un Fantastico Altrove è un viaggio nell’archivio analogico scattato nell’arco di venticinque anni di relazione fatti di cartoline con deadname, foto a volto coperto, distanze, ritrovamenti, avventure ed epifanie: è un intimo, emotivo ritratto di un amore queer pronto a sfidare le norme. È stato incubato nel calore e nella vicendevole fiducia, prima di incontrare occhi delicati che hanno creduto nella narrazione di questa famiglia e ci hanno aiutato a espanderla: Giuliano Jacobelli di Lyricalmyrical Book, editore italo-canadese, la curatrice e autrice dei testi Micaela Flenda, lo studio grafico di Cecilia Bianchini e Giovanni Cavalleri Paperpaper Studio, la traduttrice Gabriella Pallone.