Alberto Piccinini: Sono andato a votare domenica di buon’ora, ovvio. Almeno per dare una speranza al calcio italiano. Tutti che se la sono presa con Spalletti, il sistema, i club che non fanno giocare i giovani, gli stranieri eccetera. La solita solfa. Per la nostra legislazione sulla cittadinanza, razzista è dire poco, bloccata da decenni col ricatto della paura cavalcato da quasi tutta la politica (da Bossi-Fini in avanti) ci siamo persi generazioni intere di funamboli serbi e albanesi, motorini di centrocampo ghanesi, ali e punte nigeriane che hanno frequentato le scuole coi nostri figli e giocato agli stessi parchetti e campetti. Il risultato è che l’altra sera in campo contro la Norvegia c’erano l’italo-nigeriano Udogie, che gioca nel Tottenham, e il norvegese-nigeriano Antonio Nusa, che gioca nel RB Leipzig. Purtroppo il nigeriano migliore ce l’avevano loro, perché le leggi si possono cambiare ma il verdetto del campo si accetta sempre. Parlo come Adani, lo so. E ci resterà a lungo l’immagine di Spalletti fradicio di piogga infagottato in un piumino nero stile Voldemort, credo di Armani: è la seconda volta che lo stilista lo uccide così, la prima fu con la giacca grigiofascio del mondiale, questa è definitiva. «Come se lo spiega, Spalletti?», le prime parole della sua intervista. «Bisogna vedere lo scorrimento». Lo scorrimento. Mi ha fatto ribaltare sul divano, anch’io che delle interviste di Spalletti sono un cultore da quando allenava la Roma. Aggiungo, e concludo, che sabato sul divano ero solo, mio figlio manco c’aveva pensato alla partita. Questo per rispondere a Francesco Piccolo che su Repubblica di domenica si lamenta di non potere vedere da dieci anni i mondiali di calcio alla tv con l’Italia e con suo figlio accanto. Piccolo dice ai maschi italiani le cose che i maschi italiani vogliono sentirsi dire. Ma secondo me non tutte le cose da maschi vanno tramandate, conservate, ereditate. Per esempio, del rock indipendente tanto rimpianto in questi giorni da Manuel Agnelli mi terrei il ricordo, anche l’imbarazzo generazionale al limite, ma francamente non so se mi piacerebbe riascoltarlo con mio figlio. Non trovi?
Giovanni Robertini: Altro che imbarazzo! Ti ricordi quella copertina del mensile musicale di Repubblica, XL, con la formazione dell’indie al completo (32 titolari), modello TV Sorrisi e Canzoni per Sanremo? Era il 2009, e c’erano tutti: Afterhours, Subsonica, Baustelle, Marlene Kuntz, Emidio Clementi, Linea 77, Pierpaolo Capovilla… Donne pochissime – ricordo Roberta Sammarelli dei Verdena, Cristina Donà, Rachele Bastreghi – oggi sarebbe successo un casino, e meno male! Era, come da strillo di copertina, “l’altra Italia della musica, giovane, bella e oscurata”. Ecco, non mi manca, non ho nessuna malinconia generazionale o pessimismo da retroguardia, mi tengo stretto l’algoritmo di Spotify tifando per Bandcamp. Tenetevi l’indie, i jeans neri e il rancore. Per questo un po’ mi storto quando leggo le sparate di Manuel Agnelli che se la prende con «urban minchioni e influencer», con la musica in classifica che «è sterco» e dice addio a X Factor anche se «mi ha offerto una cifra incredibile per restare». La spocchia, proprio. Certo prendere/rifiutare i milioni dai talent è uno storytelling collaudato, Salmo ci ha fatto un pezzo (Neurologia), Fabri Fibra un video (Che gusto c’è). È il bacio col diavolo, quello che veste Prada e Balenciaga, il circo di stylist, share, audition, bootcamp, e chi più ne ha più ne metta. Eppure mi tengo stretto il ricordo di quei due minuti di X Factor dell’ultima edizione in cui, proprio durante i bootcamp, Manuel Agnelli in un giardino di campagna, all’ombra di un albero, discute con il giovane provinato Danielle sull’importanza della cura dei capelli per un musicista rock. L’indie può ripartire da lì.
A.P.: Anche i cappelli hanno la loro importanza. È stato un fine settimana di piena estate, sole a picco, alto tasso di partecipazione. Sono andato alla manifestazione per Gaza a Roma, a San Giovanni, vicino casa. Salvo tutti i buoni propositi, ma non si può essere davvero contenti per una manifestazione convocata con due anni di ritardo, dove la preoccupazione più evidente tra i leader politici che hanno fatto il comizio finale era assicurare ancora che «non siamo per Hamas» e «non siamo antisemiti». Assicurare chi? David Parenzo? Paolo Mieli? Rete 4? Gli altri pupazzi del dibattito tv? Che tristezza. Ti dirò, tra il comizio di Elly Schlein tutto gridato, con un sacco di virgole e distinguo, e il Vasco Rossi a Firenze con la bandiera della Palestina e quella della pace in mano, con una sola cosa da dire, manco cosi bene, non ho dubbi su chi è il più efficace. “Palestina libera” gridava la gente in piazza. Mi è venuto in mente che in altri tempi lo slogan avrebbe avuto una risposta: “Palestina rossa”. Sono passate due settimane, e il nostro appello per una canzone per Gaza non ha sortito effetti, allora – perché non si dica che sono un cinico, odio le tradizioni, le partite viste coi figli – mi è venuto in mente Demetrio Stratos. Ho riascoltato Luglio, agosto, settembre (nero) dal vivo al Parco Lambro 1975. “Giocare col mondo / facendolo a pezzi / bambini che il sole / ha ridotto già vecchi” Bam. Wow. Nemmeno era cominciato ed ero già in strada, come quelli che a Los Angeles si sono messi a combattere i rastrellamenti contro i migranti. Io sogno una cover di Luglio, agosto, settembre (nero) fatta da Baustelle, Calibro 35, Niccolò Contessa, Elodie e Calcutta che cantano il crescendo finale, e pure Manuel Agnelli, che in un vecchio film di Guido Chiesa faceva la parte degli Area in un concerto anni ’70. Insomma chi ci sta.
G.R.: Quel pezzo degli Area starebbe bene anche in un dj set di Paquita Gordon, consapevole ricercatrice di vinili, danzerecci e non, nata a Milano e poi vissuta tra l’Inghilterra e la Sicilia, e da anni in giro per club e festival di tutto il mondo. A metà giugno avrebbe dovuto suonare al Sónar di Barcellona, da sempre la TAZ preferita dai clubber più curiosi. Ma il fondo che finanzia l’evento di musica elettronica, KKR (Kohlberg Kravis Roberts), promuove anche gli investimenti immobiliari in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Quindi Paquita Gordon, insieme ad altri 60 artisti tra cui la superstar Arca, ha annunciato di aver cancellato la partecipazione al Sónar per distanziarsi dagli investimenti complici di genocidio del fondo KKR. Un boicottaggio vecchio stile, perché ci sono anche le tradizioni buone, sotto cassa ancora meglio.