Chi lo capisce più l’amore, con tutte ‘ste red flag? | Rolling Stone Italia
"mah"

Chi lo capisce più l’amore, con tutte ‘ste red flag?

I sentimenti vissuti dalla Gen Z assomigliano a un thriller emotivo in tempo reale. Perché quando la scelta è infinita e ogni passo falso potrebbe essere simbolo di infelicità futura, nessun errore è tollerabile

red flag

Foto: Girl with red hat su Unsplash

C’è stato un tempo – mitico come le lire, le cabine telefoniche e il Festivalbar – in cui le red flag non si chiamavano red flag. Si chiamavano semplicemente “mah”. Quel “mah” pronunciato con la stessa saggezza di un’anziana zia che capisce tutto anche senza sapere niente. Bastava un gesto fuori posto, un ritardo sospetto, un “ti richiamo dopo” mai arrivato: red flag, anche se nessuno la definiva così.

Era la stagione pre-social, in cui l’amore funzionava a impulsi analogici e l’unico campanello d’allarme era l’intuito, non l’algoritmo. Niente playlist, niente vocali, niente brani come Red Flag di Dani Faiv, Fabio Rovazzi e Paola Iezzi che oggi riescono a sintetizzare in tre minuti ciò che allora si imparava vivendo — male, spesso.

Poi arriva la Generazione Z, che trasforma il concetto in una mappa concettuale. Dove c’era il vecchio “mah”, subentra un Excel emotivo con filtri avanzati. È una generazione così allenata a intercettare segnali d’allarme da far sembrare l’FBI un gruppo di boy scout distratti. Per gli “adulti improvvisati” le red flag restano quelle classiche – gelosia, manipolazione, sparizioni strategiche – mentre per i più giovani un dettaglio minimo può valere quanto una scena di Red Flag – Un amore pericoloso, il film olandese del 2025 dove Sam resta affascinata dal misterioso Fender nonostante i sospetti e il presentimento che qualcosa non quadri. La Gen Z, quel tipo di sospetti, tende ad anticiparli molto prima che si manifestino.

Una playlist sbagliata? Red flag. Una reazione su Instagram fuori posto? Red flag. Un messaggio troppo asciutto? Red flag. L’amore, in questa fascia d’età, si avvicina sempre più a un thriller emotivo in tempo reale, con lo stesso mix di attrazione e diffidenza che guida Sam nei confronti di Fender. In questo ecosistema trova spazio anche The Book of Red Flags (Rizzoli New York), un manuale di sopravvivenza sentimentale travestito da gioco al massacro: Jenny Gorelick smonta il romanticismo da app e lo rimonta in una sfilata di difetti gloriosi, ex che tornano via Venmo e tatuaggi sospetti. Un rito liberatorio che molte lettrici e lettori trattano come un vademecum: finalmente un libro che trasforma la red flag in un faro per salvarsi la pelle.

La generazione cresciuta con MTV e con gli SMS da 160 caratteri osserva tutto questo con un misto di stupore e distanza. Quando un tempo bastava dire “mi fai un po’ paura”, oggi esiste un intero glossario: micro-red-flag, soft-red-flag, borderline-red-flag. A tratti, la frammentazione emotiva riecheggia quella del brano Red Flag di Luchè feat. CoCo: un inventario di tensioni che oscillano tra paranoia e lucidità chirurgica.

Le red flag contemporanee cambiano forma a seconda dello sguardo che le interpreta. Chi è nato prima del 2000 tende ad avere una tolleranza quasi romantica verso l’imprevedibile: se qualcuno spariva per dieci ore, si presumeva stesse dormendo o lavorando. Dieci minuti di silenzio, invece, nella Gen Z bastano per avviare un’indagine interna degna del film di Lelyveld: indizi, timeline, ipotesi, controipotesi. Fender sarebbe individuato, classificato e analizzato prima ancora che Sam arrivi alla prima intuizione.

Anche la sopportazione segue una curva generazionale. La generazione analogica è cresciuta dentro rapporti imperfetti e sbavature sentimentali, frutto di un compromesso continuo. La Gen Z, invece, punta a relazioni lucidissime, quasi ingegneristiche, con margini d’errore prossimi allo zero. Non per superficialità, ma perché vive in un ecosistema di scelta infinita: ogni difetto sembra una falla di sistema, ogni disagio un problema da risolvere subito o da scartare del tutto. Dove una volta si parlava di “crescere insieme”, oggi si preferisce “ricalibrare gli standard”.

Il risultato è una distanza comunicativa evidente. Le generazioni più adulte usano le red flag come promemoria; quelle più giovani come protocolli. Le prime si affidano ancora al mistero dell’altro; le seconde lo sezionano come un caso clinico. In mezzo scorrono canzoni, manuali, film e micro-narrazioni che raccontano lo stesso fenomeno con estetiche diverse.

La differenza, alla fine, è nel modo in cui ciascuno abita i segnali d’allarme. C’è chi ci inciampa e poi decide cosa farne, e chi li anticipa fino a svuotarli di significato.

Il paradosso? Nel tentativo di evitare le storie sbagliate, alcuni rischiano di evitare anche quelle giuste. Mentre altri, nel tentativo di salvare tutto, hanno spesso salvato anche l’insalvabile.

Le red flag servono, eccome. Ma non dovrebbero mai diventare un alibi per non rischiare. In un mondo dove una canzone, un film o un libro possono sembrare istruzioni per non farsi male, il punto resta lo stesso: distinguere il pericolo reale dalla semplice imperfezione.

In fondo, il campanello d’allarme che conta davvero è quello che risuona dentro. Tutto il resto è rumore di fondo – interpretato da generazioni che guardano la stessa scena con lenti completamente diverse.

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