‘The Social Dilemma’, Calderoli e Nick Cave mi hanno insegnato a riconoscere la post verità | Rolling Stone Italia
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Chi fa propaganda politica sul Covid uccide anche te: digli di smettere

La dipendenza social spiegata nel documentario e l’appello del leghista sono “verità oggettive” di cui avremmo bisogno in questi tempi irrazionali. Ma è difficile ragionarci se siamo rinchiusi nelle nostre bolle

Chi fa propaganda politica sul Covid uccide anche te: digli di smettere

Cristiano Godano

Foto: Antonio Viscido

The Social Dilemma è pieno di passaggi emblematici, ad esempio questo: uno dei creatori di quei gadget e tool che hanno contribuito alla fortuna innominabile dei social rivela a un certo punto che nel pieno della sua attività per Facebook si accorse poco per volta di star comportandosi esattamente come tutti gli esseri umani fagocitati dai propri device. Ovvero rivela che ci perdeva un sacco di tempo, lui che quelle cose le creava e dunque ben le conosceva, tra mail ammassatesi quotidianamente, scroll forsennati a fine giornata, controlli ossessivi delle proprie pagine social. Una volta avuta tale illuminazione gliene venne un’altra di conseguenza: «Sto portando il mondo dove voglio io ed è allucinante!» (soppesatele queste parole, non lasciatele scorrere con leggerezza). Da lì la decisione di un vero e proprio coming out. Ebbene: da un po’ di tempo mi sto rendendo conto che alcune di quelle cose capitano anche a me (scroll, mail, WhatsApp). E giuro, non l’avrei mai detto.

Un passo indietro però: non devo dar per scontato che tutti sappiano cos’è The Social Dilemma. È vero, è probabilmente uno dei documentari più chiacchierati del momento, e in fondo è ormai un must, ma mica tutti sono tenuti a saperlo… Ebbene, è per l’appunto un documentario, e parla dei social e della rete. Lo si trova su Netflix. Sono fermamente convinto che vada visto, nonostante io ne abbia visto per ora poco più della metà. (Tranquilli: sono al corrente di come evolve e di come va a finire, e dunque non sto dispensando un consiglio con leggerezza. E va da sé… è ovvio che lo vedrò tutto. Se poi la seconda metà sconfesserà la sensazioni provate nella prima farò pubblica ammenda).

Perché va visto? Perché ci spiega con molta chiarezza le trappole che stanno nascoste nei nostri device, dai quali siamo tutti dipendenti. In rete noi siamo dei prodotti, tutti quanti, e se di questo a molti non frega nulla in realtà dovrebbe indignare non poco per per quel tipo di motivi che nei miei precedenti interventi ho provato a esplicitare al meglio delle mie possibilità. Se i miei ragionamenti erano incentrati in principal modo sulle disgrazie della musica ai tempi della rete, e se per parlare di ciò dovevo spiegare come le piattaforme letteralmente non remunerano più dell’1% della musica che si produce nel mondo, per arrivarci tendevo a “dimostrare” che la causa di tali male è Internet. Intuizione ardita, a rischio di sorrisini, ma a volte mi fido delle mie intuizioni, e di questa mi strafido. Tant’è che la visione di questo documentario mi ha confermato che quello che penso da almeno una decina di anni (anche se in modo intuitivo e non approfondito) è ed è sempre stato del tutto appropriato e per nulla ingenuo. E lo ammetto, ne vado tutto sommato fiero. (E forse, chissà… Sento una eco lontana… è la vanità? «Ecco, che tocchino con mano che non esageravi…». La metto a tacere).

Eppure non mi sento del tutto al riparo dai sorrisini… Ho cercato poco fa The Social Dilemma su Google: ero curioso di scoprire se e soprattutto quanto se ne parlava. Ecco tre titoli fra i primi risultati del mio motore di ricerca: “The Social Dilemma spiega, ma usa, le trappole del web“, “The Social Dilemma è un fallimento“, “The Social Dilemma, il grossolano documentario sui social network“. (Mi sono anche imbattuto in uno youtuber giovincello e imberbe che minimizza e pontifica con la sua faccia da furbetto dall’alto del suo bel numero di follower). I tre articoli sono ben argomentati e denotano intelligenza, e a dispetto dei titoli piuttosto catastrofici nessuno in realtà demolisce il documentario: ne parlano tutti abbastanza bene, ma con dei ma. Ecco: a me quei ma paiono bene ascrivibili alla metafora ben nota del dito e della Luna. Ci viene mostrata la Luna e c’è chi guarda il dito che ce la mostra. Non conta, secondo me, quanto sia ben fatto o mal fatto da certi punti di vista, fra cui quelli prettamente artistico/cinematografici. E nemmeno contano certe sottigliezze di ragionamento, tipo sgominare Netflix che usa proprio gli algoritmi che il docu condanna per ottenere il risultato di farcelo tutti guardare, a uso e consumo del suo business. Intanto guardiamolo, anche se ci siamo arrivati grazie a chi ci fotte, e poi semmai decidiamo di comportarci di conseguenza, semmai anche con Netflix. Insomma: comprendo che è bello sentirsi sgamati e rivelare al mondo “il trucco” nella fattispecie, ma non credo sia il punto: il punto è la Luna (un trucco ben più grosso e importante da scoprire), non il dito, e mi ripeto. 

E perché scoprire che la rete ci fotte? Ho un motivo in più da offrire rispetto ai miei soliti, per i quali so bene di star rischiando lo sbadiglio di qualcuno («Ma Godano ha solo da parlare di quanto la rete gli dia fastidio?» Che poi la rete in sé penso sia un prodigio dell’umanità…). Eccolo: perché il mondo è turbolento, e non così lontano, secondo me, da sempre più concrete rivoluzioni o sommovimenti ben poco educati. E oltre ad avercela con il neoliberismo e con le dittature sanitarie e quant’altro, fra visioni legittime e comprensibili e stupidaggini tonitruanti, il mondo credo che dovrebbe imparare ad avercela con chi letteralmente beneficia degli agi di cui lamenta la mancanza: in soldoni… i soldi, e per molti, assai tristemente, quelli per vivere con accettabile dignità. (A meno di non dimostrare che la rete sia figlia del liberismo e/o del neoliberismo. Io non sono un sociologo e non lo so, anche se penso che sia un’eventualità contemplabile. In ogni caso: se così fosse immagino che sarebbe un po’ imbarazzante per la maggior parte di coloro che hanno in odio questa ideologia dover sconfessare la deriva negativa della rete. E già individuarla e saperla riconoscere sarebbe probabilmente arduo. In merito a quest’ultima considerazione The Social Dilemma un po’ potrebbe aiutare, nel caso…). 

Nel documentario è ben detto a un certo punto che nella storia dell’umanità non si è mai verificato che alcune imprese guadagnassero in un modo così mostruosamente incredibile e sovradimensionato. Non si tratta di coltivare quel tipo di astio che detesto, ovvero quello che origina dall’invidia per i ricchi: non è togliendo ai ricchi, posto che sia giusto, che si risolvono i problemi del mondo (certo, in un disegno folle e utopistico se si togliesse a tutti i ricchi del mondo si otterrebbe tale risultato, ma questa è una ipotesi non solo utopistica, è anche stupida). Si tratta però, ma sono solo i miei due cent, di comprendere che è anche grazie alla rete se c’è questa fottuta forbice sociale per cui esistono da una parte i ricchi (e va beh) e dall’altra solo poveri – o diversamente benestanti – in assenza di classe mediana.

The Social Dilemma lo fa capire per deduzione, se si decide di voler dedurre, e inquieta il giusto perché riguarda noi, non realtà a noi lontane, e questo per me è semplicemente un bene. Che si sappiano le cose, anche se non piace sentirsele dire (ammetto che questo è ciò che mi è parso di percepire dai tre giovani articolisti: non gli piace dover ammettere la triste realtà. Di sicuro non credono e non vogliono credere che sia così triste. E sicuramente provano a motivarlo. Io sono un quasi-boomer, ahimè, e forse proprio per questo non vedo nulla di eccessivo in ciò che Social Dilemma svela. Lo vedo tristemente ed eminentemente realistico). Guardatelo dunque, se non lo avete ancora fatto e se non vi pare troppo dar retta a un quasi-boomer. E senza pruderie, è il mio consiglio, perché mi sembrerebbe mal riposto l’uso della propria arguta e in questo caso un po’ pedantesca razionalità per andare a sezionare l’ormai trito e ritrito dito. La razionalità la si usi al limite per trovare contromisure a questo strapotere su di noi.

Però non sono qua con il mio nuovo Elzevirus per parlare di questo documentario: a me interessava intanto rivelarvi che, come ai creatori delle piattaforme, anche a me capita di farmi catturare l’attenzione in modo ormai grottesco. Non l’avrei detto mai, ma mi sveglio il mattino e scrollo (e prima che facessi ciò ho passato mattine ad accendere il Mac ancora prima di scendere dal letto: tremendo). A occhi ancora semichiusi cerco a tastoni il cellulare che dolcemente mi ha svegliato e mi sbatto la sua luminescenza in faccia. In primis WhatsApp, e poi via, un po’ di sano Instagram! Sapete: io scrollo ancora in verticale, ma da quel che ho capito parlando con una donna più giovane di me che si occupa della promozione del mio disco (e dunque mi dà consigli eventuali su come e cosa fare sui social), l’attitudine di ora è lo scroll in orizzontale: ovvero le storie e non i post delle pagine. Io sono lontano anni luce dall’attitudine alle storie. Non solo non mi viene tanto di farle, anche se mi converrà trovare probabilmente la mia via e capire come divertirmi a farle, ma non mi viene quasi per nulla di vederle. Sarà magari che da sempre non voglio le notifiche sul mio cel (e mi hanno detto che The Social Dilemma a fine documentario invita la gente a toglierle… ) e immagino che con le notifiche si venga anche avvisati delle storie che chi segui pubblica, ma davvero ne sono un po’ poco interessato. In ogni caso: quisquilie. Io scrollo in verticale, e tant’è, e lo faccio sovente durante la giornata, in modo spesso compulsivo e dunque del tutto inutilmente.

Mi si è impiantato in testa il cellulare, e dopo pochi minuti che sto facendo altro – qualsiasi cosa io stia facendo – un ordine in automatico di qualche neurone abituato male mi intima di distogliere la mia attenzione per andare a vedere se è successo qualcosa, tra WhatsApp e IG. Non è deprimente tutto ciò? C’è un passaggio intrigante nel documentario (uno fra tanti), in cui si scopre che è stata una furbata di puro marketing vincente quella di mettere in corsivo in una chat di WhatsApp a cui si sta partecipando quel “sta scrivendo…” che ci impone di aspettare la successiva risposta, restando dunque on line o comunque guardinghi e pronti a rientrare dopo essere usciti per qualche secondo, forse volendo far credere allo scrivente di essere usciti per un tot (falso). “Loro” ci vogliono sempre connessi per rifilarci in modo subdolo gli advertising e ci stanno riuscendo. (Ma vedo dita alzate… è vero, non tutti siete così. E a volte rinsavisco anch’io. Ma sono sempre eccezioni).

So bene che in qualche modo lo intuiamo da tempo che non ha molto senso… passare il tempo a guardare i post dei nostri amici di social o dei nostri follower (per fortuna questo tipo di dipendenza mi manca), o scrollare con un po’ di maniacalità (questa ce l’ho abbastanza ma percepisco di star degenerando giorno dopo giorno) o tenere sempre d’occhio WhatsApp (questa ce l’ho molto… che tristezza), e chissà cos’altro, ma il tema ora è chiarito meglio e le rilevanze sociali, economiche e politiche e le loro conseguenze sulle nostre vite reali oltre che sulle nostre psicologie sono adesso a disposizione: basta volerle scoprire (The Social Dilemma vi aspetta). E scoprendole ci si potrebbe, in un mondo utopistico, alleare tutti e mandarli un po’ affanculo, questi padroni dei nostri comportamenti e, grave e pericolosissimo, dei nostri pensieri, tra algoritmi e loro creatori. Utopie, giustappunto.

Ma ancora non era di ciò che volevo parlare nel mio Elzevirus. Quello a cui volevo arrivare è che qualche giorno fa mi è capitato di scrollare e di imbattermi in un post del Corriere della sera, che seguo, come seguo altri giornali. (È un argomento delicato, qua in rete, quello dei giornali, e ci sarebbe da dilungarsi, ma se lo faccio mi allontano ancora una volta dal vero motivo per cui mi è venuta voglia di scrivere oggi). Cosa diceva quel post del Corriere? Riportava certe frasi di Roberto Calderoli. Eccole: «Sono immunodepresso per le conseguenze delle terapie anti tumorali. Sono bergamasco e purtroppo ho visto la tragedia che abbiamo vissuto. Sono un medico ospedaliero e so bene di cosa stiamo parlando. Per tutte queste ragioni vi prego, vi supplico, anche in ginocchio, di rispettare la richiesta di mettere la mascherina, quella vera, non uno straccio che copra la bocca e il naso, di mantenere il minimo distanziamento, ma distanziamento vero».

Tutti dovreste sapere chi è Calderoli. Un leghista spesso talmente esorbitante nelle sue uscite quasi folkloristiche (in pieno stile Lega delle origini, e non me ne vogliano troppo i leghisti) da rendersi perfettamente odioso a tutti coloro a cui i valori di quella compagine appaiono grossolani disvalori. E da uno come lui immagino che in tema mascherine e dittature sanitarie e regimi eccetera ci si potesse attendere l’atteggiamento che tanto inorridisce tutti quelli che non la pensano come ben sappiamo. Invece no, arrivano queste parole, con tanto di supplica e accoramento impronosticabili. Beh: è il tipo di “verità oggettiva” che in tempi di emozioni e nostalgia, in totale abbattimento di raziocinio e riflessività, ci si aspetta possa funzionare per portare un po’ di buon senso fra certuni. Anche se c’è purtroppo una cosa che non va: nella foto che lo ritrae molti utenti attenti ben notano in fretta che porta una mascherina FFP3, quelle con filtro che usano i medici e che servono alla salvaguardia personale e un po’ meno a quella degli altri. Al netto della rassegnazione di rischiare di imbattersi in reazioni tipo “venduto al mainstream”, “cosa non si fa per la poltrona” e capovolgimenti funambolici analoghi, si chiude volentieri un occhio alla distrazione marchiana e si mantiene la barra a dritta, sperando, come spero io, di rendere a prescindere un buon servizio alla comunità nel riferire, per divulgarlo, di un esempio insospettabile che possa contribuire a far riflettere qualcuno in più. 

Le testimonianze di chi è passato per le angustie del Covid e in specie dalla terapia intensiva (provate a cercare quelle di Massimo Giannini a proposito della sua esperienza in terapia intensiva, dove si trova tuttora: sono uscite due o tre giorni fa) vengono giustamente usate per persuadere la gente a non avere atteggiamenti di irresponsabile indifferenza o peggio ancora di ostruzionismo nei confronti di questo immane problema, e conseguentemente a essere disponibili ad adottare i comportamenti richiesti a tutto il consesso civile (e siccome questa disponibilità latita si impongono le costrizioni, esattamente come siamo costretti a un sacco di cose nella vita, tipo, banalmente, mettere le cinture o il casco. Pensiamo alla dittatura quando ci mettiamo le cinture? Non è forse normale fermarsi col rosso al semaforo?). Tanto meglio se i testimonial sono persone conosciute e di successo: il meccanismo del tipo «il Covid non guarda in faccia nessuno» potenzialmente funzionano piuttosto bene. Ma non per tutti, e lo si sta sperimentando quotidianamente qua in rete, con gente che nonostante tutto minimizza, deride, contesta, avanza ipotesi figlie di manipolazioni e “verità” create ad hoc in svariati modi (ovviamente quel tipo di persone riderebbe di queste mie affermazioni, liquidandomi come un ingenuo raggirato dalle contro-fandonie del mainstream. Potere della post verità).

I temi che si potrebbero affrontare a seguito di queste consapevolezze sono innumerevoli, e ci penso inevitabilmente mentre sto cercando di portarmi verso la chiusura di questo mio scritto. E quali sarebbero questi temi? Elenco i primi che mi sovvengono: la potenza disarmante della post verità, giustappunto, la tremenda forza di persuasione della manipolazione nella rete, l’uso spudorato che ne fa certa politica (con Trump in testa, spudorato in un modo così surreale e pervicace da riuscire a farmi provare quasi ammirazione per tanta sorda tenacia… Le elezioni sono vicine, propongo una preghiera collettiva per il miracolo), le derive che portano a straparlare di regime, di dittatura sanitaria, di giornalisti prezzolati, a ululare contro il mainstream, a sentenziare contro il politically correct (anche il mio amato Nick Cave ha avuto da parlarne male nel suo Red Right Hand Files: al riguardo, al netto della sua luminosa intelligenza e della sua illuminata capacità di comprensione della complessità del mondo, e al netto di ragionamenti che dal punto di vista logico, e non solo, non facevano una piega, intrisi com’erano di una specie di santa saggezza e di visioni poetiche e spirituali figlie del meglio che presumo si possa trarre dagli insegnamenti del Vangelo, ho nutrito purtroppo qualche riserva, ma se tentassi di spiegarmi, e forse non ne sarei all’altezza, questa parentesi diventerebbe un capoverso gigante nel capoverso che la ospita), fino a arrivare alla controrivoluzione in corso da parte di populisti e sovranisti ai danni del neoliberismo, e le rivoluzioni in potenza, e le frustrazioni sociali. Eccetera. Terreni minati, e d’altronde la rete e le librerie sono piene di opinioni approfondite e studi: fatevi un giro nella sezione saggi di qualche libreria ben fornita e vedrete come l’attualità che stiamo vivendo sia vivisezionata e si tenti di spiegarla coi crismi della razionalità (che purtroppo è però al giorno d’oggi un valore in gravoso affanno subissato com’è dall’ingombro della rigonfia pancia delle emozioni).

Proprio per questo motivo, perché dovrei parlarne io, semplice musicista? Ho una risposta: a volte l’indignazione, la stupefazione, lo sbigottimento, il senso di frustrazione, l’incredulità, lo sconforto mi spingono a dire la mia, per cercare complicità, per non sentirmi solo, io coi Marlene, per contribuire al rinsavimento di qualcuno (presumendo evidentemente che io sia savio, e qui la mia impostazione culturale erede dei valori e delle conquiste dell’illuminismo dovrebbe impormi il pudore di lasciar semmai giudicare agli altri, perché non esiste un’unica verità, tanto meno la mia, e con la consapevolezza che per un sacco di gente io savio non lo sono… semmai «chi cazzo è quello lì? chi cazzo si crede di essere?»), e infine immaginando di avere il dovere etico di contribuire alla riflessione, visto che in rete tutti dicono la loro e non vedo perché non dovrei poterla dire anch’io. 

Secondo me, forse, chissà, in un prossimo Elzevirus mi ci addentrerò, e sarà uno scritto molto, molto impegnativo, per il quale dovrò prepararmi. Per l’intanto speriamo che gli scettici e gli imbottiti di mono-opinioni teleguidate dalle echo chambers in cui si trovano a loro insaputa mettano anche loro le cazzo di mascherine e si rassegnino a contribuire alla salvezza della comunità adottando comportamenti responsabili e rispettosi di tutti: è un auspicio. Se no non si vede come altro si possa fare se non costringerli, e che straparlino pure di dittatura e regime: fino a che non esploderanno e non faranno la rivoluzione ce ne faremo una ragione. Siamo in tanti a voler uscire dal Covid-pantano, e i sondaggi dicono che per fortuna l’80% degli italiani le mette, punto, e ci dà molto fastidio rischiare salute e pellaccia per colpa di chi sragiona. Calderoli docet. 

Una postilla: un documento dell’Agis (Associazione Generale Italiana dello Spettacolo) ha recentemente divulgato queste parole: «Su 347.262 spettatori in 2782 spettacoli tra lirica, prosa, danza e concerti, con una media di 130 presenze per ciascun evento, nel periodo che va dal 15 giugno ad inizio ottobre, si registra un solo caso di contagio da Covid sulla base delle segnalazioni pervenute dalle ASL territoriali. Una percentuale pari allo zero». È uno studio figlio delle rilevazioni dell’app Immuni. Ovviamente Immuni non ce l’hanno tutti, ma la rappresentatività di questo studio è evidente (pensate per un momento alla fastidiosissima querelle su questa app, piena di pura propaganda politica alimentata nella rete, e confrontatela con quanto vi avrà rivelato The Social Dilemma dopo che lo avrete visto. Se userete la vostra intelligenza in modo attivo – e perché no? proattivo – trarrete conclusioni inevitabili). E cosa si può dedurre da questo studio? Che il mondo dello spettacolo è stato estremamente rigido nell’osservare le regole del distanziamento, e questi sono i risultati. Si era all’aperto e le mascherine erano un po’ meno presenti. Ma mi pare ragionevole: all’aria aperta è difficile immaginare una forte incisività del virus in estate se si evita di assembrarsi in gruppetti ravvicinati. Perché sì, attenzione: nei nostri eventi i numeri erano contingentati (pochissime persone ammesse) e nessuno si assembrava, non certo come accadeva “fuori”, nel mondo reale, con le movide e le discoteche. E noi musicisti increduli… (Ma anche qui avrei da precisare: pensate se si fosse impedito ai giovani di assembrarsi, come ora a ragion veduta molti cominciano a rimpiangere… Magari con le cosiddette forze dell’ordine messe a cercare di tenere a bada i comportamenti scorretti… Pensate a come si sarebbe gridato ancor di più alla dittatura… Brividi… Grossolanità della post verità… A me per tutto ciò il pensiero appropriato pare essere il seguente: quanto dev’esser difficile essere nei panni di un politico che abbia da gestire una pandemia). Ora che c’è una esacerbazione del virus la si tiene sempre, la mascherina, anche all’aperto: e va benissimo così.

Ops… ancora un post scriptum: qualche sera fa al telegiornale un servizio sulla Repubblica Ceca: hanno il più alto tasso di positivi in rapporto alla popolazione. Il numero più alto in Europa, o forse nel mondo. Non ricordo se e cosa ho sentito: mi soffermavo sulle immagini. Il premier accusava gli sbagli dell’estate della politica (dunque ammetteva le leggerezze sue e del suo governo) quando venne dato il via libera alla popolazione minimizzando il tutto (sullo schermo il rigoglioso Karluv Most era ripreso in estate ricolmo di festose persone in gioioso scambio di aliti e particelle a contatto ravvicinato). Ora gli ospedali boccheggiano, gli infermieri impazziscono eccetera. Ebbene: qualche giorno fa (o forse giusto ieri?) in piazza a Praga c’è stata una manifestazione di gente arrabbiata per le misure prese (non mi permetto di usare la parola “negazionisti”: c’è troppa suscettibilità in giro). Un assembramento di tutto rispetto, non uno che ovviamente indossasse la mascherina. E mi chiedo: ma perché tanta idiozia? (Purtroppo lo so il perché, e mi struggo nella costernazione, anche pensando a chi sta pensando che sono un ingenuo che crede alle fandonie che ci raccontano eccetera e “quelle del ponte saranno di sicuro state immagini di repertorio” eccetera e ancora eccetera eccetera eccetera ecceter eccete eccet ecce ecc ec e…).

Ma davvero una mascherina può simbolicamente diventare il simbolo di un’oppressione? Ah, la post verità…

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