Chi erano (e come si riconoscevano) i ‘Paninari’ | Rolling Stone Italia
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Chi erano (e come si riconoscevano) i ‘Paninari’

Squinzie che fanno «fondere la cotenna», cose «troppo giuste» o «troppo scarse», piumini Moncler lucidissimi, cinture con fibbione El Charro, zainetti Invicta e totale disinteresse per la politica: storia di una sottocultura irripetibile

Chi erano (e come si riconoscevano) i ‘Paninari’

Paninari in Piazza San Babila, 1987

Foto di Egizio Fabbrici/Mondadori Portfolio

Dopo anni, lo storico McDonald’s di piazza San Babila chiuderà i battenti: la notizia è stata recepita come una sorta di lutto da una nicchia di persone, cresciute nella Milano degli anni Ottanta e legate indissolubilmente a quel luogo.

Fino a quarant’anni fa, a pochi metri di distanza da quel ristorante – che, ai tempi, non si chiamava Mc Donald’s, ma Burghy – non era raro imbattersi in comitive un po’ eccentriche: parlavano in un modo che, oggi, definiremmo senza troppi giri di parole “cringe”, facendo sfoggio di un dizionario sotterraneo composto da espressioni come “troppo giusto” (o, di contro, “troooopppo scarso”), “madonnare” e “mazzate”. Le ragazze venivano etichettate variamente come “squinzie” o “sfitinzie” (quelle particolarmente avvenenti erano quelle che, citiamo testualmente, facevano “fondere la cotenna”) e avevano tutte, ma proprio tutte, una borsetta Naj–Olear. I ragazzi indossavano piumini Moncler (ma anche cappotti Stone Island), cinture con fibbione El Charro, felpe Best Company, t–shirt Americanino, occhiali Ray–Ban WayFarer, zainetti Invicta, calze Burlington sempre e comunque in bella vista, Timberland da vela (alternate ai classici scarponi o, in alcuni casi, a un paio di Vans) e Levi’s 501. Anche per l’hair style c’erano dei canoni da rispettare: capelli cotonati e legati con vistosi elastici per le ragazze, taglio “mullet”, lanciato da David Bowie, per i “boys”.

Cresciuti con il mito di Simon Le Bon e Tony Hadley, detestavano parlare di politica: dopo la rivoluzione sessantottina e le lunghe scie di sangue lasciate in eredità dagli anni Settanta, avevano scelto di imboccare convintamente la strada del disimpegno e della leggerezza, impugnando fieramente la bandiera del consumismo più sfrenato e libero di ideali – i pochi che di politica volevano parlarne, invece, erano di destra, anzi, di estrema destra, nella maggior parte dei casi aspiranti Skinehead.

Parliamo dei cosiddetti “paninari” (così chiamati perché, in una fase iniziale, i fast food rappresentavano i loro luoghi di aggregazione privilegiati): una sottocultura che, oggi, ha tutto l’aspetto di una fotografia sbiadita ma che, per un decennio abbondante, ha dettato un canone di stile ambitissimo, che trasudava Eighties da tutti i pori. Un movimento così intimamente votato al cazzeggio e allo sperpero non poteva che nascere al bar. E il primo locale paninaro d’Italia è stato senza dubbio il bar Al Panino di piazza Liberty, a Milano – anche se, come accennato in apertura, nella memoria collettiva è forse rimasto di più il Burghy di piazza San Babila.

I gusti musicali erano parecchio standard e appiattiti sui soliti nomi: a farla da padrone era un’atmosfera patinata e New Romantic che trovava sostanza nei dischi di Duran Duran, Spandau Ballet, Wham, a–Ha, Frankie Goes to Hollywood. E poi c’erano loro: le lampade. Per un paninaro doc, infatti, l’abbronzatura era una caratteristica irrinunciabile anche in inverno, e quindi via a sperperare le 60mila lire settimanali sganciate dal papi all’interno dei solarium.

Una tendenza che fu un successone e aprì un solco profondo all’interno della cultura pop nostrana, celebrata da fumetti come Il paninaro e New Preppy, libri dedicati (Sposerò Simon Le Bon, scritto da Clizia Gurrado, è forse il documento più noto in tal senso) e dizionari creati ad hoc nel tentativo di sistematizzare il gergo paninaro.

A colpire di questa sottocultura dedita al materialismo più sfrontato e inarrestabile è, soprattutto, l’assenza di qualsiasi traccia di produzione culturale. Come ha scritto Lorenzo Orlandini in un bellissimo pezzo scritto per Minima et moralia, «Non ho memoria di un’altra sottocultura giovanile che non abbia prodotto assolutamente nulla dal punto di vista artistico. Non esiste musica Paninara (se non nell’accezione di musica ascoltata dal Panozzo). Non esistono letteratura, pittura, scultura Paninare. Persino la moda dei Paninari non era in realtà nulla di originale, ma solo un mero accumulo di vestiti (e accessori) di marca. Non esiste un cinema paninaro. [Lasciamo fare il Paninaro di Enzo Braschi, che anche a voler essere generosi è comunque solo una caricatura. E lasciamo fare anche il film (e libro) Sposerò Simon Le Bon, che anche a voler essere generosi è una cazzata. Tuttavia a voler essere generosissimi questa una storiella adolescenziale qualunque è quanto di più vicino si ricordi a un prodotto artistico in stile Paninaro]. Non esiste nemmeno uno sport in cui i Panozzi abbiano fatto il culo a tutti, o anche solo a qualcuno».

Come ogni crew che si rispetti, anche i paninari avevano i loro avversari: i punk e i metallari erano i gruppi più in contrasto con questi giovani consumisti privi di coscienza politica. Per chi volesse recuperare un po’ di storia dei paninari, qui c’è un bellissimo documentario integrale del 1986.