Che la politica italiana riparta dai Club Dogo | Rolling Stone Italia
Boomer Gang

Che la politica italiana riparta dai Club Dogo

Mentre la cultura pop di destra piange gli insuccessi televisivi e la sinistra ci si arrocca dietro Paola Cortellesi e Zerocalcare, i venerati maestri del rap italiano hanno assalito la nostra Capitol Hill, la Triennale di Milano: il sogno di ogni zanza si può avverare

Che la politica italiana riparta dai Club Dogo

Club Dogo

Foto press

Giovanni Robertini: L’altra sera sono stato alla festa di presentazione del disco dei Club Dogo e, in quanto venerati maestri del rap italiano, c’erano tutti a omaggiare. Tedua, Lazza, J Ax, Noyz, Night Skinny, Rhove, Achille Lauro, Sfera, Paky, Kid Yugi, dimmi un nome e c’era. La location, come diciamo a Milano, era la Triennale, tempio radical fichetto dell’arte e del design, l’ultima celebrazione musicale a cui avevo assistito era stata quella di santa Caterina Barbieri con uno chicchissimo vellutato Stefano Boeri in prima fila. Il party dei Dogo con tanto di bandiere col logo sventolate da ragazzi in passamontagna sembrava invece l’assalto a Capitol Hill con un paio di centinaia di sciamani “tutti brutti, tutti grassi, tutti tatuati” come cantava Marra ne I ragazzi dello zoo del Berlin. Simbolicamente la scena mi ha colpito: potevano festeggiare ovunque, in una discoteca con magnum di champagne o in qualche hangar modaiolo dei vernissage della moda, e invece hanno scelto di occupare quel privé della cultura da cui i buttuafuori con la sportina di Adelphi li hanno sempre tenuti alla larga. Ora che il rap ha vinto, con i numeri dello streaming, dei sold out e dei cafonissimi dischi d’oro, la battaglia mediatica con la cultura pop di sinistra (a cui rimangono le armi spuntate e in bianco e nero della Cortellesi e il buon Zerocalcare) i milanesi Dogo si sono presi quello a cui prima gli era stato negato stupidamente l’accesso. Altro che egemonia culturale della destra, poracci, non gli entra manco una seconda serata tv! Che prendano lezioni dai rapper, senza fare le vittime, un po’ di cattiveria! Anzi, che si facciano da parte e lascino un canale tv, una biennale e un fiera del libro a qualche trap boy! Immagina un palinsesto con Tedua al posto di Benigni che legge La Divina Commedia, il capodanno in diretta da Rozzano con Paky e i suoi che sparano i botti, Marra che conduce un talk politico, Lazza che conduce Il mercante in fiera al posto di Pino Insegno. Successo assicurato, con i Dogo che tengono il discorso di fine anno dal Quirinale perché come rappa Jake nell’ultimo album “questo è l’Inno di Mameli della gente coi problemi”.

Alberto Piccinini: Non vedo l’ora. Mentre in genere ogni ritorno del boomer mi tristezza, per la prima volta e con tutti i bassi consentiti dall’impianto di serie della mia Panda Hybrid, l’ascolto dei Club Dogo mi ha messo di buonumore. Persino le rime più identitarie tipo “rimo da quando i rapper vestivano da rapper”, e l’apparizione boomerissima dello Star Tac, di Fight Club, “ogni parola è un colpo di pistola come i Subsonica”. Mi è venuto in mente che l’analisi dell’altra settimana sull’assenza di vittimismo nel rap e nel trap italiana è perfetta per spiegare i Club Dogo. Loro stanno lì, il resto sono cavoli tuoi. Il vittimismo invece è un segno di crisi, la paura del giudizio, l’arma a cui ricorre chi non vuole cambiare idea su niente dunque si inventa un nemico. Tipo Giorgia Meloni. Purtroppo è una deriva boomer. Ho dato uno sguardo a Ricky Gervais l’altra sera, Armageddon su Netflix. Il senso del monologo è che lui non può dire più niente, vittima del politicamente corretto, quindi lo dice, e in questo atto eroico il pubblico deve già sentirsi parte di un disegno più grande. Una specie di solidarietà preventiva. Ride tantissimo alla sue battute, cosa che per un comico non è mai buon segno. Pare stia così dai tempi del vecchio spettacolo con due battutacce sui trans e qualche critica su twitter o non so dove. Ma ci stava, no? E adesso? Tutta una gran situazione meta, quattro battute brutte sugli immigrati a Dover, Gary Lineker prenditeli a casa (Lineker è un po’ il Boldrini dei social UK), se queer sia più accettabile di gay, handicappato meno di disabile, mancavano solo Andy Capp e sua moglie. Ha scassato le palle dopo dieci minuti. A un certo punto fa uno spiegone sul fatto che lui sta recitando un personaggio, mica penserete che io sia d’accordo con le mie battute. dice. Vestito di nero, con un filo di pancetta, il fisico dello stand up stagionato, ex working class maschio bianco pieno di soldi Gervais, non c’era bisogno di spiegare niente.

GR: Come tutti i boomer maschi (con soldi e senza) quando fa freddo mi chiudo al cinema e davanti all’estasi collettiva per Perfect Day di Wenders e al mito dello zen e l’arte della riparazione delle cassettine analogiche rimango abbastanza indifferente. Bel film, ma una volta uscito l’unica cosa che mi è rimasta impressa è una frase alla Sfera Ebbasta che dice il ragazzetto che accompagna il protagonista in giro a pulire i cessi di Tokyo: “Che schifo di mondo è se senza soldi non puoi nemmeno amare?”. Sento già l’effetto che farebbe con un po’ di autotune, puro romanticismo contemporaneo. Non ho capito invece a chi vorrebbe parlare il romanticismo decadente nietzschiano di Pietro Castellitto… Ho visto Enea (girato bene ok, scritto bene ok) e mi sono fatto l’idea che le feste di Roma Nord con la coca, i soldi e Tutti Fenomeni che canta Spiagge di Renato Zero siano collocate geograficamente e politicamente su Marte, o in qualche metaverso feticista degli stereotipi borghesi. Alla fine la cultura di un paio di quartieri romani sopravvissuti indenni ai mutamenti della storia pare un esperimento da Truman Show: sushi bar coatti, circoli di tennis, un po’ di Suburra versione Netflix, lettini dell’analista. La vita vera – con la gente, per la gente, come rappavano i Dogo – è sempre altrove.

AP: Roma non cambia mai. Ma va bene ok mi hai convinto, domani vado al cinema, ti dirò. L’altro giorno la visione del derby Lazio-Roma mi è stata ulteriormente rovinata dalla comparsa sui social di una certa Francesca Giubelli, l’influencer creata con l’AI. Ne hai sentito parlare? Un bella ragazza con addosso una tuta giallorossa difatti è romanista, anzi della Garbatella. Bah. Praticamente è la creatura di un “gruppo di giovani imprenditori” di cui non voglio sapere nient’altro. Mi pareva solo che il cringismo della questione fosse riscattato da chi diceva: dal momento che lei non esiste, eventuali shitstorm e assalti di troll non le faranno né caldo né freddo. Che è interessante, magari una svolta: pensa che bello, tra dieci anni i social saranno popolati unicamente da creature dell’intelligenza artificiale e noi avremo tutto il tempo di “fare la storia / non le story”, citando ancora i Club Dogo. Nel frattempo è tornato in tv lo spot della Favorita, la pummarola napoletana in bottiglia, quello con la ragazza sfondo golfo di Napoli (è un’attrice, Marcella Spina), la padella sfrigolante e i microfoni dell’Asmr, l’orgasmo raggiunto coi soli mezzi della mente. Dice la teorica Valentina Tanni: «Nel XXI secolo i sentimenti, e non i fatti, sono la nuova verità». Perfetto. Ieri sera di fronte a Elly Schlein da Formigli ho pensato che forse una via d’uscita c’è. Pensa se Elly Schlein facesse un discorso Asmr. Sentilo: «L’Italia merita di più. Perché c’è un’Italia attraversata da energie e fermenti, dal desiderio di reagire di tanti e tante che non si riconoscono nella narrazione chiusa, egoista e rancorosa». Soprattutto quel «tanti e tante». Brr.

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