Caro Nick, ti auguro di farcela ancora | Rolling Stone Italia
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Caro Nick, ti auguro di farcela ancora

Riflessioni sulla morte di un altro figlio di Nick Cave, tributo a un modo unico di far canzoni da parte di un musicista che lo ama da sempre e in modo straordinario

Caro Nick, ti auguro di farcela ancora

Cristiano Godano e Nick Cave

Foto: press (1)/Getty Images (2)

È morto un altro figlio a Nick Cave. Quanto può essere difficile provare a dirne? E perché mai uno dovrebbe dirne? Non lo so.

Ho amato Nick Cave in un modo straordinario, subendone una fascinazione composita e ben al di là di un amore standard da fan che a un certo punto abbandona il suo idolo perché è cambiato o lo segue ancora e soltanto ascoltando le sue prime cose, misconoscendo o rinnegando le ultime. E secondo me ho amato Nick Cave come Nick Cave può aver amato Leonard Cohen, da cui è stato estremamente ispirato nel corso degli anni.

Nick Cave è un incredibile artista (e invero credibile, tremendamente credibile), il cui percorso artistico è stato di una clamorosa continuità all’insegna dell’integrità, dell’intelligenza, della creatività (i suoi testi, superiori alla media, si sono sempre evoluti, e il loro linguaggio si è costantemente rinnovato e trasformato anche grazie all’aver messo in pratica una buona abitudine che dovrebbe esser fonte d’ispirazione per tutti coloro che, animati da spirito creativo, si imbattessero nella sua ammissione: quella di essere uno che scrive ogni giorno, come i veri scrittori fanno, andando in ufficio con metodo e regolarità, come un impiegato ben vestito che va al lavoro, per dar vita a una routine difficile da immaginare per una rockstar).

Ho scritto “ho amato” perché, mentre scrivevo, pensavo che lo amo da più di 35 anni, e retrodatavo il mio pensiero ai primordi della mia infatuazione. Non ho mai avuto un solo dubbio nella mia vita: ho colto in genere tutto quanto di lui, ho percepito la sua evoluzione, e ho goduto tantissimo dei suoi ultimi tre dischi (parlo dei Bad Seeds, tralasciando dunque Carnage, bellissimo anch’esso), dove Warren Ellis subentra a Mick Harvey nel ruolo di super consigliere-amico di cui fidarsi e con cui allearsi (intelligenza, lungimiranza e, per certi versi, spietatezza sono gli ingredienti di un successo molto lontano negli anni…).

Ma in realtà lo amo ancora, eccome se lo amo ancora, e ritengo i suoi ultimi tre dischi veri e propri capolavori di intelligenza e rinascita. La rinascita avviene, come ho appena lasciato a intendere, con la promozione di Warren a sodale fidato con cui creare musica, arrangiarla, produrla. Di lui Nick intercetta il feeling incommensurabile (ma trovatemi un solo Bad Seeds che non sia dotato di questo valore) e la formidabile intensità di ogni nota suonata. E coglie anche l’opportunità di abbandonare la comfort zone della forma canzone di cui è maestro indiscusso, con un senso per la melodia mostruoso e invidiabile (non oso pensare quante critiche nel corso degli anni i duri e puri della prima ora gli abbiano riservato con certi dischi – ma non c’era ancora internet, per sua fortuna! – su tutti The Good Son, il mio preferito in assoluto, così sontuoso nell’afflato melodico che lo contraddistingue). La forma canzone stava forse arrivando al suo limite con Abattoir Blues / The Lyre of Orpheus, che contiene almeno sei canzoni magnifiche, e al successivo Dig, Lazarus, Dig!!! Nick capisce che avanti così non può più funzionare.

In una conversazione fra lui e Mick Harvey trovata sul sito ufficiale dei Bad Seeds (credo ci sia ancora), gustosa e incredibilmente ironica qua e là, c’è esattamente questa ammissione: Mick dice di aver capito in quel momento di non aver più spazio autorevole per poter dire la sua nei Bad Seeds, e Nick, tremendo e sornione (sta parlando con chi gli ha arrangiato in maniera fantastica decine e decine di pezzi nel corso di tutta la carriera, e parato il culo per anni quando lui era un eroinomane complicato da gestire in tour, da ogni punto di vista, compresa la riscossione dei cachet), gli fa eco dicendogli: «Sì, eravamo al punto di non ritorno, bisognava cambiare», chiudendo la frase con un sorriso per certi versi spietato. E quel cambiamento (che alla fin fine consiste nell’auto-detronizzazione di Mick, lentamente sospinto ai margini del nucleo creativo dai meccanismi inevitabili di un qualsiasi team di lavoro, che possono mutare nel tempo come è facilmente intuibile) fa sì che Warren, che già da tempo, sornione a sua volta, sta invaghendo Nick, si ritrovi a diventare il nuovo complice della sua creatività. Il fascino di Warren è irresistibile d’altronde, e evidentemente qualche forma di scaltrezza lo aiuta a ingraziarsi poco per volta il boss.

Il sodalizio con Warren produce in ogni caso frutti clamorosi. Warren non sa scrivere canzoni (coi suoi Dirty Three ha sempre e solo suonato musica strumentale dilatata e psichedelica), ma sa proporre a Nick altri modi di produrre musica, offrendogli pattern generati con loop station e pad, ovvero cuscini o tappeti sonori che in genere sono usati come sottofondo di accordi nelle canzoni (archi, sintetizzatori organi). Spesso sono fraseggi musicali semplicissimi e solo vagamente suggestivi, ma da quelli Nick coglie l’opportunità di inserirci sopra i suoi cantati, e poco per volta costruisce un nuovo modo di definire la sua poetica in musica sganciandosi dagli schemi facilmente identificabili di strofa-ritornello-bridge, dirigendosi verso un limbo più etereo e indistinto (in tutta la sua carriera Nick ha esplorato la canzone in ogni anfratto, spesso e volentieri enfatizzando la maniera con strumentale consapevolezza, creando decine e decine di bellezze indimenticabili). Nascono così i suoi nuovi capolavori: Push the Sky Away, Skeleton Tree (la canzone eponima è entrata di diritto nelle mie prime dieci preferite di sempre: mi commuove, letteralmente, ogni volta che la ascolto), Ghosteen.

Rinascita… Un termine che a lui si è attagliato bene non solo da un punto di vista artistico, come qua sopra spiegato, ma anche umano, a seguito del primo luttuoso evento che lo ha devastato: la morte del figlio-gemello Arthur nel 2015. Ricordo bene il silenzio che scaturì dalla diffusione di quella tragica notizia: un silenzio tombale, il suo, e un silenzio sbigottito e sospeso di tutti noi ammiratori. Passarono molti mesi prima che Nick si riaffacciasse al mondo: da lì in avanti molte delle cose legate alla sua attività noi del pubblico non potemmo far altro che sentirle intimamente connesse al tremendo fatto. Una elaborazione del lutto sofferta, dignitosa, tragica, inevitabilmente creativa (l’arte come rifugio), che porta ai dischi suddetti (gli ultimi due per essere precisi), a un film documentario intensissimo e magnifico (One More Time with Feeling), e a tante affermazioni sagge e preziose regalate nel suo blog The Red Hand Files, rispondendo alle domande dei fan (questa sorta di modulo-format la porterà poi anche dal vivo per un Q&A reale e immediato, senza il filtro della riflessione: chiunque dal pubblico può far domande, e lui risponde istintivo, intelligente, ironico, suggestivo, ispiratore. Peccato non sia venuto in Italia questo show: ci sarei andato senz’altro).

E infine lo si è visto tornare a sorridere (di sé disse «non sono un ridanciano», e quanto è vero!, ma se si guardano certi video su YouTube dei suoi live recenti si notano le volte in cui la smorfia cupa, seria e imperturbabile di uomo a cui facilmente e banalmente si è appioppata l’etichetta di dark si trasforma in accenno di sorriso o risata vera e propria, fosse anche per un solo secondo), e si è ben capito come gli sia necessaria, per vivere e non solo sopravvivere, l’energia dei fan sotto il palco, che sempre più va a cercare mischiandosi con loro, scendendo fra di essi, lasciandovisi cadere letteralmente addosso, arpionandoli con le mani, urlandogli in faccia, facendoli salire sul palco: qualsiasi cosa, in nome del salvifico contatto!

Se una volta la sua attitudine era di tipo quasi scontroso e aggressivo (un’attitudine carismatica e convincente per un certo tipo di audience, fra cui il sottoscritto), ora, al netto della travolgente energia di sempre, il suo contatto col pubblico è diventato una ricerca di condivisione energetica, una reciprocità di rimandi a cui lui, artefice quasi sciamanico, si affida per mantenere quella god-like experience non più soltanto necessaria all’ego ma alla sua stessa ragione di vita, per non dover tornare troppo spesso faccia a faccia coi fantasmi dell’assenza del figlio. Ecco dunque l’incredibile voglia di suonare dal vivo di questi ultimi tempi, da solo, con Warren Ellis, coi Bad Seeds, di cui quest’estate dovrebbe esserci il tour. «I’m a thing that tours», dirà di sé al riguardo.

Ma ora gli è morto un secondo figlio, e non oso pensare a cosa possa voler dire perdere due figli (e sì, mentre scrivo mi sovvengono le guerre, anche quella che angustia molto noi occidentali… penso ai tanti figli persi…).

Sto percependo però una eco più rarefatta intorno alla morte di Jethro (questo il nome del secondo figlio venuto a mancare), e mi pare che l’opinione pubblica (quella ovviamente che ha almeno una vaga idea di chi sia Nick Cave) sia in qualche modo meno scossa. È una semplice suggestione, ma ci sono anche banali motivi che la potrebbero motivare: Jethro è un figlio nato a distanza di pochi giorni da un altro figlio di Nick, Luke, che ebbe da una donna brasiliana, Viviane Carneiro (Jethro ha invece origini puramente australiane). Laddove Luke è stato legittimamente riconosciuto e accudito dal padre, Jethro non ha avuto lo stesso “trattamento”. Per otto anni infatti non seppe chi era suo padre, e lo stesso Nick ammise poi in seguito che quel gap era motivo di eterno rammarico e afflizione. Ma si erano riconciliati, e a sentir Nick nelle sue interviste la cosa della riconciliazione era andata molto bene.

(Fu a Sanremo che ebbi il piacere emozionante di conoscere Nick per la prima volta, a un pranzo combinato il giorno dopo il riconoscimento alla carriera che gli conferì il Premio Tenco: mi ritrovai, con Luca Bergia, insieme a lui e al suo manager di allora, ed entrambi erano coi loro figli, e il figlio di Nick era Luke).

Jethro però era irrequieto, e purtroppo per lui e la sua immagine non molto tempo fa era stato incarcerato (non ho idea per quanto) per aver messo le mani addosso a sua madre dopo un litigio: è molto facile che certi ingredienti possano contribuire all’attenuazione di una commozione diffusa e contagiosa.

Ma è molto facile, per tutti coloro che la notizia l’hanno intercettata a dispetto degli algoritmi, restare ancora una volta sospesi in un non luogo di incredulità e angoscia. Com’è possibile che il destino possa concepire una trama così violenta? Il destino non esiste? Io penso che il destino sia uno soltanto in fondo: la morte, e ciò che facciamo in vita è connesso al caso, ovvero a una serie di azioni intrecciate che ci portano in qualche direzione. Fino a che la morte non sopraggiunge è lecito immaginare di essere sempre andati nella direzione migliore, quella che ci ha permesso di ritenersi dei sopravvissuti. Il caso non esiste? Boh, io credo che esista eccome, e semmai un giorno la fisica quantistica eliminerà qualsiasi dubbio e mi metterà a tacere.

Ecco: Jethro non è sopravvissuto, e per la seconda volta a Nick Cave tocca uno strazio imponderabile e inimmaginabile. Gli tocca rinascere ancora.

Gli serviranno altri strumenti per gestire una tribolazione impossibile da mettere in conto (a meno che Jethro non avesse una irrequietudine terribile di cui poter predire brutte cose), e gli auguro con tutto il cuore di poter trovare forze residue in quella sua indomabile personalità, così ricca e sensibile (e ovviamente egoriferita), capace di riflessioni acute ed empatiche sul dolore, sull’amore, sul perdono, sulla gentilezza, sulla commozione, sull’immaginazione, sulla sofferenza, sulla spiritualità, sulla compassione, estese e raccomandate a tutti i suoi ammiratori con slancio altruistico innegabile.

Caro Nick: ti auguro di farcela ancora, e spero davvero che il tuo strazio non possa stremarti. Che ci sia ancora bisogno e voglia di te lo sai molto bene, e sai molto bene quanta gente in questo momento è con te, figurandosi l’abbraccio che vorrebbe darti per provare a rinfrancarti. In tanti ti amano, commossi, straziati e increduli. Proviamo a empatizzare con te nella estrema consapevolezza di non poter comprendere fino in fondo quanto penoso possa essere dover gestire una vita così segnata da due disavventure inconcepibili e inaccettabili.

Con amore, Cristiano.