Rolling Stone Italia

Buona fortuna ragazzi!

Il discorso di Capodanno di Pierpaolo Capovilla: "Il 2019 è stato un anno di guerra, città sommerse, disprezzo per la diversità. Poi, alla fine di questo anno schifoso, un gruppo di giovani ci ha detto: non tutto è perduto"

Il duemiladiciannove se n’è andato e grazie al cielo non tornerà mai più.

È stato un anno orribile, durante il quale abbiamo seriamente rischiato non di perdere la faccia, ma di perdere l’Onore. Quello di un popolo che chiamiamo Italia. Il duemiladiciannove ha tentato di sfregiare questo onore.

Come un volgare assassino nel buio di un vicolo della storia, coltello in mano, ha tentato di tagliargli la gola. Soltanto l’inesperienza del sicario, presentatosi all’appuntamento strafatto d’alcol e cocaina, ha permesso alla vittima di fuggire viva e di chiedere soccorso ai passanti. Molti si sono voltati dall’altra parte. Altri invece hanno applaudito al tentato omicidio, nella convinzione (inconscia, sia pure) che morto l’Onore, sarebbe morta di crepacuore anche la consorte, Signora Dignità. Un gruppo di ragazzi alla fine si è avvicinato, e ha aiutato ‘sto povero Cristo, tamponandone la profonda ferita e chiamando un medico che, alla fine, gli ha salvato la vita. Ora il corpo sofferente dell’Onore giace in un reparto di medicina intensiva, intubato, in prognosi riservata, ma non più così prossimo all’obitorio.

Il duemiladiciannove è stato l’anno più veloce che abbiamo mai vissuto.

In questa corsa frettolosa verso un qualche abisso, ne abbiamo viste di tutti i colori. Ma il nostro sguardo non è mai riuscito a cogliere il significato intrinseco delle circostanze. Tutto è stato costantemente mistificato, raccontato malamente ma a gola spiegata, da un narratore sgrammaticato, a suon di bugie e menzogne. Di tutti i colori che potevamo vedere, ha cercato di convincerci che il colore del nostro destino fosse quello più indistinto, quello che li contiene tutti, i colori. Il nero. Il colore di una notte senza luna e senza stelle, il colore del fascismo.

Un gruppo di ragazzi alla fine ci ha ricordato che il pianeta gira, perché è una sfera, immersa in un sistema solare, immerso in una galassia, immersa nell’universo, e che alla notte segue l’alba, con quel suo blu tinto di rosso, e quel lento propagarsi di un suono che accenna la fine del sonno e suggerisce il risvegliarsi della vita, in tutte le sue forme, le sue plurali diversità, le sue contraddizioni, ci mancherebbe.

Il duemiladiciannove, che anno di merda.

L’acqua alta a Venezia, quella eccezionale, ben 187 centimetri, piena di refluo e salso marino, ha danneggiato le centraline telefoniche del sestiere in cui vivo. Niente internet in casa. E se non hai uno smartphone, ti rendi conto di quanto sei dipendente dalla rete. Non puoi più farne a meno.

Allora. Allora vado in un negozio Wind e chiedo una chiavetta. Il giovane commesso (preparatissimo e simpatico, devo dire), visto il mio piano tariffario, mi ha suggerito un telefono in offerta, uno smagliante Huawei, con cui posso creare in qualsiasi momento un hotspot al quale possono collegarsi tutti i dispositivi che voglio. Caspita, mi son detto. In questo modo può collegarsi anche quel nerd di Mattis, l’amico tedesco che mi sta ospitando a casa sua, un quinto piano in campo Santa Maria Formosa.

L’ho acquistata, la sconfitta. L’ho pagata 80 euro al posto di 350. 80 euro, per una sconfitta, non sono poi molti.

Ora sono geolocalizzato, spiato, ammorbato da infiniti aggiornamenti, infinite applicazioni, infinite informazioni, quasi tutte insignificanti, infiniti intrattenimenti con i quali riempire tutti i vuoti, i tempi morti della giornata. Il vuoto fa paura. La morte fa paura. E mi sorge spontanea una considerazione, semplice come un’addizione a due cifre. Non è del vuoto, né della morte, che abbiamo paura. Temiamo la vita, è di questa che abbiamo paura. Ma questi sono solo cazzi miei.

Il duemiladiciannove, volendomi fare i cazzi altrui, è stato un anno di guerra. Guerra in Medio Oriente, guerra in Yemen, guerra in Libia, guerra in Sud America, guerra ovunque ci sia una guerra da fare. Perché la guerra è business, è denaro, tanto denaro. Mai come in questi anni, e il duemiladiciannove non fa eccezione, abbiamo assistito a tanto spargimento di sangue innocente. Con i nostri soldi, le nostre armi, la nostra accondiscendenza, la nostra ideologia: il Capitale, lo stramaledetto. Niente esiste più al di fuori di esso. Come diceva il compianto Mark Fisher (ma anche e prima di lui Slavoj Žižek e Frederic Jameson), “è più facile immaginare la fine del mondo, che la fine del capitalismo”. Facciamocene una ragione e pensiamo ad altro.

Ma quel bambino?

Ci penso spesso a quel bambino, quasi ogni giorno. Con il mio nuovo gruppo, I Cattivi Maestri, c’ho anche scritto una canzone. Un bambino yemenita, che stringe forte il cadavere del padre. Lo stringe incredulo. È un marcantonio, quel padre. Il fanciullo ha piedini scalzi e anneriti, una maglietta verde con le strisce bianche sulle maniche, pantaloni bianchi e putridi, un visetto dolcissimo, uno sguardo disperato, una voce che piange. Qualcuno alla fine prende quel padre e lo porta via. Il babbo è morto. Come ne muoiono a milioni. Sotto le nostre bombe, i nostri missili guidati, i nostri sistemi d’arma, i nostri brevetti, i nostri dividendi azionari, la nostra falsa coscienza, il nostro qualunquismo, la nostra indifferenza, e tutto il nostro odio per la povera gente. Le nostre guerre.

Siamo fatti così. Nati per distruggere.
Abbiate la forza di guardare.

Il duemiladiciannove, come gli anni immediatamente precedenti, anno orribile del tardo capitalismo, la guerra ce l’ha portata in casa.

Odia il prossimo tuo, ci ha comandato. Ama solo te stesso. Disprezza il mondo. Disprezzane convintamente almeno una parte. L’Africa.

Odia il negro. Subumanizzalo. Animalizzalo. Sbattilo in galera. Torturalo. Lascialo morire. Uccidilo. Disonora il tuo passato, gettalo nel cesso e tira lo sciacquone. È ancora lì? Tiralo di nuovo, lo sciacquone.

Uomini e donne senza valore (e senza valori) ci hanno suggerito, di tanto in tanto e senza provare vergogna, anzi!, di riaprire i campi di concentramento, poi quelli di sterminio, la camere a gas. Dobbiamo finire il lavoro. Bruciamo i campi Rom. E che una ruspa ci passi sopra. Voglia di bestemmiare. Il tardo-capitalismo è un capitalismo in crisi. Una crisi profonda e forse irreversibile. E quando il capitalismo va in crisi, puntuale come un Rolex, arrivano brutali la xenofobia e il razzismo, il fascismo, il nazismo. Dapprima arrivano nelle periferie, come dei paramilitari facendosi scudo del disagio sociale, e poi si intrufolano nei centri storici, poi nella testa della gente, come un cancro si infila in un pancreas. Un gruppo di ragazzi se ne accorge. È sempre più folto, sempre più numeroso. Che sorpresa!

Il duemiladiciannove e le sue guerre. Due virgola cinque minuti a mezzanotte, lo dice l’orologio dell’apocalisse, lo dice il Bulletin of the Atomic Scientists dell’Università di Chicago, altroché.

Ma chissenefrega. Non una parola sul terrore atomico nei nostri giornali, nei telegiornali, nei media. Soltanto qualche piccola e significativa eccezione. Giulietto Chiesa, Il Manifesto, e pochi altri. Tanto, prima o poi, dobbiamo pur morire. Il disinteresse per un argomento tanto urgente è un segno evidente della perigliosità dei nostri tempi. Ma non ce ne rendiamo conto. La scienza è divenuta un orpello, un discorso altro, roba elitaria per radical chic. Abbiamo altro a cui pensare, mentre affoghiamo le nostre esistenze nell’accidia edonistica dei nostri tempi.

E infine, il duemiladiciannove e i suoi morti sul lavoro.

Non possiamo non parlarne. Morti sul posto o morti recandovisi. I dati diffusi la mattina del 31 dicembre 2019 dall’Osservatorio Indipendente di Bologna Morti sul Lavoro (curato da Carlo Soricelli, che dio ti benedica, compagno pittore) ci danno la fotografia di un altro anno tragico. I lavoratori morti a causa di infortunio nei luoghi di lavoro sono 700. Complessivamente, tenendo conto dei deceduti in itinere, il totale raggiunge il numero impressionante di 1435 persone. Senza contare i decessi a causa di malattie professionali, dei quali si sa poco o nulla.

I dati pubblicati dall’Osservatorio di Carlo Soricelli non sono statistiche o proiezioni, sono la realtà. Una realtà crudele che tiene conto di tutti i morti sul lavoro e non solo degli assicurati INAIL. Perché non è che se un lavoratore non è assicurato, se è costretto a lavorare in nero, se fa parte dei Vigili del Fuoco (tanto per fare un esempio) allora non è morto. Solamente non fa parte degli elenchi ufficiali dell’INAIL, così come non fa più parte della comunità dei vivi.

La morte di chi vive del proprio lavoro è raramente dovuta a tragica fatalità. È il lavoro stesso che uccide. Non più un diritto di ogni essere umano per riscattare la propria condizione e partecipare allo sviluppo collettivo, il lavoro è diventato una specie di elargizione. Un regalo al quale, secondo il noto proverbio, non si guarda in bocca. Non importa se si lavora in maniera precaria, intermittente, stressante, alienante. Non importa se le retribuzioni sono talmente insufficienti da impedire un futuro degno di questo nome. Non importa se si lavora in condizioni di assoluta insicurezza, se si utilizzano materiali tossici senza precauzioni, non importa se bisogna lavorare fino allo sfinimento ben oltre i sessant’anni*. L’economia gira, e se il PIL non aumenta gli investitori scappano, e sono cazzi amari per tutti. Chiaro?

Alla fine di questo anno schifoso, un gruppo di ragazze e ragazzi si è affacciato nell’agone politico di questa Italia morente, e ci ha detto: non tutto è perduto. Ci ha detto che i giovani vogliono un futuro. Si chiamano Fridays For Future, si chiamano Sardine, si chiamano antagonisti, si chiamano antirazzisti, antifascisti, alcuni persino comunisti, socialisti che non credono nel presente, credono nel futuro. Si chiamino pure come gli pare.

Si chiamano giovani.
Ed è proprio in voi giovani che risiedono le speranze di tutte le generazioni ancor vive, e di quelle che verranno.

Buona fortuna, ragazzi.
Senza di voi, il mondo non avrebbe senso.

*Da una nota di Giorgio Langella, segretario regionale veneto del PCI.

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