Nell’estate del 2017 mi sono recato per la prima volta a vedere uno dei film che vengono proiettati ogni anno in Piazza Maggiore, a Bologna, dalla Cineteca. Doveva essere giugno, e credo che il film in questione fosse Il laureato. Ricordo molto nitidamente la sigla d’apertura, e ricordo ancora il brano che la accompagnava, Because the Night di Patti Smith. Mi ero trasferito a Bologna da qualche mese, ma quel momento – il fresco della sera estiva, l’emozione del cinema, la pausa dallo studio, il potere evocativo di quella magnifica e seducente canzone – rimane ancora il momento a cui, nella narrativizzazione a posteriori della mia vita a Bologna, faccio risalire il mio innamoramento con la città.
Quell’estate conobbi molte persone che avrei amato, alcune delle quali costituiscono ancora oggi una parte fondamentale della mia vita qui. Per questo, ogni volta che ascolto quella canzone, ripenso a quel momento di entusiasmo violento, irruente, persino selvaggio. In contrasto con questo ricordo, da qualche tempo mi chiedo se la forma di vita che conduciamo a Bologna non sia in qualche misura un tentativo di ritrovare quella gioia aurorale che oggi mi appare perduta, quell’ingenuità vitale che mi sembra oggi irriproducibile.
Dal settembre del 2016 – il momento in cui mi sono trasferito a Bologna – alla primavera del 2025, la città ha subito pesanti trasformazioni. Uso il verbo subire, perché tali cambiamenti sono chiaramente frutto di precise e determinate scelte politiche comunali, che hanno assecondato (come spesso accade nelle città medie e grandi d’Occidente) i flussi del mercato: che sia del lavoro, della produzione, o quello immobiliare. Alessandro Canella, giornalista e direttore di Radio Città Fujiko – una delle prime stazioni radio indipendenti di Bologna – segue da tempo con attenzione questo processo trasformativo e lo ha riepilogato in un articolo apparso su Domani nel febbraio 2025.
Le tappe di questo percorso verso l’elitarismo sono ormai note: l’apertura dello scalo Ryanair nel 2008, che ha consentito a un numero sempre maggiore di turisti la possibilità di visitare Bologna; la proliferazione di appartamenti sulla piattaforma AirBnB (un tempo destinati invece agli studenti); gli sgomberi di diversi centri sociali, una triste tradizione che ha costellato gli anni Dieci bolognesi; la trasformazione di grandi fette del centro storico in luoghi di attività gastronomico-turistiche. Inoltre, in modo non dissimile da altre grandi città italiane (Milano su tutte), quel processo che le amministrazioni comunali nel tempo hanno definito valorizzazione ha riguardato solo il centro storico e la primissima periferia: interi settori della città rimangono esclusi da queste politiche, abbandonati a loro stessi perché poco funzionali al racconto urbano che si vuole sviluppare. Tutto ciò materializza anche a Bologna lo spettro che si aggira per molte città d’Europa: la gentrificazione, un termine un tempo noto soltanto ai sociologi, e oggi moneta corrente del discorso sulla gestione politico-economica delle grandi città.
La gentrificazione di Bologna, come quella di altre città, segue alcune scelte strategiche di racconto dello spazio che mirano a renderla competitiva e appetibile sul piano internazionale. Queste dinamiche, ricostruite da Lucia Tozzi per il caso milanese in L’invenzione di Milano (Cronopio, 2023), a Bologna sono state applicate facendo leva sulla cucina tradizionale emiliana, divenuta la principale attrazione turistica tramite un pesante processo di foodification. Un’amara battuta, ripetuta ogni volta che in un centro storico chiude una libreria o un negozio di dischi, vuole che al loro posto sorga puntualmente una pizzeria; a Bologna, la variazione prevede invece la nascita di una piadineria. Ma non è solo questo processo, che peraltro si riscontra in ogni pezzo d’Italia ceduto al turismo, a contraddistinguere la gentrificazione bolognese.
La presenza dell’università più antica d’Europa ha da sempre animato la vita della città, tanto che per lungo tempo Bologna e il suo ateneo sono stati, nell’immaginario collettivo, sinonimi: ancora nel secondo Novecento, l’impareggiabile concentrazione di studenti e intellettuali ha permesso a Bologna di acquisire un’importanza culturale che va molto al di là delle sue dimensioni demografiche. Quando ho deciso di iscrivermi all’Università di Bologna, e come me e prima di me decine di migliaia di altri studenti, la vivacità culturale e giovanile della città era parte della sua identità. Bologna, si sente spesso dire, ha l’offerta culturale di una piccola metropoli, racchiusa nello spazio di un paesone. Questa dinamica ha prodotto, nel corso del secolo scorso, diversi accadimenti: su tutti, il Movimento del Settantasette, l’eco del cui mito, pur diradandosi, era ancora percepibile per quelli che – come me – sono arrivati a Bologna nella prima metà degli anni Dieci.
Quella contestazione è stata, infatti, l’evento con cui la città ha aggiunto una sfumatura diversa alla sua allure, apertamente opposta all’immagine di città-vetrina del Pci assunta nel Dopoguerra: animata da una peculiare e delicata miscela di creatività e impegno politico, essa divenne la capitale della controcultura italiana. Da quel ricordo che mescola, come cantavano gli Area, gioia e rivoluzione, ma anche dal dolore per le ferite inferte da quella sconfitta, dalle lacerazioni avvenute tra anni Settanta e Ottanta, nasce il grumo scuro che dà vita al mito che ci ha attratti qui.
Quel mito, però, ripulito e sciacquato da ogni reale antagonismo o contrasto, si rivende oggi ai ricchi studenti americani o nordeuropei che decidono di trasferirsi in città: un costosissimo studentato in Bolognina è presentato come l’occasione di vivere «la vibrante atmosfera del quartiere controculturale di Bologna»; l’«avanguardia di massa» che Eco notava tra i suoi studenti si è ora stemperata in un generico clima goliardico, un divertissement da Erasmus. Ricordando i tempi del Settantasette, nell’introduzione alla riedizione del 2007 di Alice disambientata, Gianni Celati scrive di Bologna: «L’enorme aumento della popolazione studentesca ne aveva fatto un luogo affollato, spesso con un’aria da corte dei miracoli, e con visitatori che affluivano da tutte le parti attirati dalla sua intensa vita all’aperto. Città di incontri più d’ogni altra in quel periodo, era un ambiente da romanzo di formazione». Oggi, come accade anche in altri ambiti, alla formazione sembra essersi sostituito il consumo: l’aumento delle tasse universitarie e la lotta ai fuoricorso resa necessaria dalle politiche ministeriali si saldano alla gentrificazione generale della città, alterando profondamente l’aspetto dell’esperienza studentesca.
Nell’ultimo rapporto sulle iscrizioni, l’Università di Bologna ha comunicato un boom di iscritti dall’estero. Di contro, vi è un calo sanguinoso di studenti dal Meridione, storicamente uno dei serbatoi della differenziazione culturale bolognese, dai tempi di Pazienza alle prime posse degli anni Novanta, quando Bologna incubò l’hip hop italiano. Non è un caso: il primo passo per gentrificare una città universitaria è modificarne la composizione sociale del corpo studentesco. Il costo della vita a Bologna, per giovani ragazze e ragazzi che non hanno alle spalle famiglie facoltose, è diventato semplicemente insostenibile. Gli studenti meridionali, già svantaggiati dal divario economico tra il Nord e il Sud, sono i primi a pagarne il prezzo: così, molti optano per l’iscrizione in città dal costo più accessibile.
Inoltre, la vita studentesca è stata spesso animata dai meridionali proprio perché lontani da casa: venire dal Veneto, dalla Lombardia, dalla Toscana significa poter tornare dai propri famigliari ogni weekend, se lo si vuole, soprattutto se si proviene da ambienti benestanti. Il «disambientamento» di cui parlava Celati, ridotto di scala, è divenuto ora solo temporaneo: come cantavano i Pulp agli studenti benestanti di Londra, «if you called your dad, he could stop it all». La presenza di spazi alternativi di aggregazione, nonché la loro autonomia dalle strategie politiche comunali, è sempre stata legata a doppio filo alla comunità studentesca di fuoriusciti dal nucleo familiare, perché necessitavano e desideravano un nuovo tipo di socializzazione. Il colpo più duro vibrato dalla gentrificazione sul corpo di Bologna sembra aver tramortito esattamente tale legame viscerale.
Questo enorme cambiamento, per chi ha la mia età e ha scelto di rimanere a vivere a Bologna, coincide inoltre con l’ingresso nella vita adulta. Se il passaggio dai venti ai trent’anni è stato puntellato con regolarità da eventi funesti nella storia mondiale (crisi economiche, pandemia, guerre, precarietà lavorativa, ritorno dei fascismi), niente ci lascia perplessi come la trasformazione della città in cui viviamo, perché essa non agisce solamente su un piano materiale quotidiano, ma colpisce anche più in profondità, sul piano simbolico: commercializza, cercando di rivenderli, i luoghi che pensavamo appartenessero soltanto alla Storia che ci ha radunati qui.
Le politiche bolognesi imitano l’esempio, di volta in volta, di vari modelli di gentrificazione all’italiana, tanto che la città sembra essersi trasformata in una sorta di laboratorio per tali politiche. L’insistenza sull’offerta culinaria la apparenta a Napoli e Genova; la crisi abitativa che la affligge ricorda quella di Milano; si cerca di renderla una città-bomboniera, come Venezia e Firenze. Tuttavia, queste città hanno peculiarità che Bologna non possiede. Per questo, la storia che vende con più facilità è proprio quella della città antagonista, popolare, ribelle: la stessa storia che ha sedotto noi.
Uno dei libri più noti di Calvino, Le città invisibili, è stato spesso tacciato di essere invecchiato male rispetto ad altri suoi testi; io credo invece che vada riscoperto alla luce di queste dinamiche, soprattutto per l’efficacia con cui Calvino indaga le relazioni tra la città e la sua memoria, tra la città e i desideri di chi vi abita. «Di quest’onda che rifluisce dai ricordi», dice a un certo punto dell’immaginaria Zaira, «la città s’imbeve come una spugna e si dilata», ma mette in guardia: «La città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano». Di contro, a Maurilia, una città che oggi definiremmo turistificata, «il viaggiatore è invitato a visitare la città e nello stesso tempo a osservare certe vecchie cartoline illustrate che la rappresentano com’era prima: […] attraverso ciò che è diventata si può ripensare con nostalgia a quella che era». Se una città non solo dice il suo passato ma addirittura lo strilla, sta forse cercando di disinnescarlo attraverso la nostalgia?
Ma ciò di cui stiamo parlando non è un problema che riguarda solo le politiche comunali, perché investe anche e soprattutto la nostra posizione nei confronti di Bologna, e degli anni che abbiamo trascorso qui. Ha a che fare in profondità il tipo di città che abbiamo immaginato e desiderato in passato, e il tipo di città che vogliamo ora.
Nel corso di letteratura italiana contemporanea all’Università di Bologna di quest’anno ho proposto, in accordo con il professor Luigi Weber, la lettura de La chiave di Berlino, il memoir sulla capitale tedesca scritto da Vincenzo Latronico. Verso la fine del libro, l’autore si sforza di ricordare i primi tempi in città, e scrive: «A volte ci ripensiamo, cediamo alle sirene della nostalgia, e proviamo a ricordarci com’era vivere in quella città più sporca e disomogenea, di zone d’ombra e di misteri, una città in cui ogni uscita era potenzialmente una scoperta […]. Giriamo per le strade e riconosciamo tutto, perché lo abbiamo vissuto in un momento di particolare entusiasmo e ricettività ma anche, paradossalmente, perché quella ritratta lì è la città in cui ancora non siamo mai stati». Quando alla vigilia dell’anno accademico ho letto queste righe, ho ripensato a quella prima estate bolognese nel 2017, e al cinema in piazza, e a Patti Smith. Qualche mese dopo, esaminando gli studenti, ho scoperto che la lettura di Latronico era stata molto apprezzata, ma non c’era stata alcuna immedesimazione come nel mio caso. Perché?
Ancora nelle Città invisibili, Calvino parla dell’impossibilità di descrivere la città di Irene: «Una è la città in cui s’arriva la prima volta, un’altra quella che si lascia per non tornare; ognuna merita un nome diverso»: i segni della gentrificazione rimangono illeggibili per chi è appena arrivato, perché non c’è un passato reale su cui misurarli. Viceversa, si è in uno stato di eccitazione culturale ed emotiva continuo, in cui ogni persona, ogni luogo, ogni evento che la città propone è una prima volta, con tutto il carico di meraviglia e di stupore che le prime volte comportano: come per Irene, forse anche queste versioni diverse di Bologna meriterebbero nomi diversi.
E noi? Finiti in una terra di mezzo, ci rendiamo conto di essere completamente separati dalla gente a cui questa Bologna improvvisamente estranea si rivolge, e ci ritroviamo, come ha scritto Natalia Ginzburg, «a sillabare ancora le parole limpide e chiare che incantavano la nostra giovinezza». Le parole che ci hanno incantato sono le stesse con cui Bologna ama raccontarsi: stregano principalmente chi non ci è nato, evocando un genius loci, ricordava Canella nel già citato articolo su Domani, che dovrebbe fare di Bologna la città-simbolo della cultura di sinistra in Italia, ma fin dagli anni Settanta sappiamo che questa immagine pacifica e progressista non corrisponde alla realtà.
Da questa ambiguità scaturiscono le traiettorie delle vite di chi a Bologna ci viene per scelta, cercando ciò che crede gli sia stato promesso. Così la città si presenta come un insieme di cronotopi che attirano un’umanità varia: non solo il mito del Settantasette, forse il più duraturo e coriaceo, ma anche quello della Bologna degli anni Novanta, l’epoca dell’Isola nel Kantiere e della fondazione del Link. Un filo rosso lega le varie fasi dell’antagonismo bolognese, e il paradosso è che tale filo si allunga di gentrificazione in gentrificazione; la stessa che in ogni fase storica si è cercato di combattere. La forma della Bologna che ci ha ammaliati, che si trasmette decennio dopo decennio anche se il messaggio è messo sempre più a repentaglio dall’aumento del rumore, è data paradossalmente dal deserto lasciato da queste trasformazioni.
La Berlino di Latronico racchiudeva in sé l’idea di una città visitata nella memoria che mantiene, però, lo stesso potere seduttivo di una città sconosciuta. Assistere alla gentrificazione a trent’anni ci costringe a vivere questo genere di cortocircuiti: non riconosciamo più la città che abbiamo amato, ma non siamo sicuri di averla mai conosciuta; diffidiamo di quella nuova, che sembra impossibile da amare. Calvino sottolinea questa mescolanza di passato e futuro: «La città sognata conteneva lui giovane; a Isidora arriva in tarda età. Nella piazza c’è il muretto dei vecchi che guardano passare la gioventù; lui è seduto in fila con loro. I desideri sono già ricordi».
Da qualche anno, i pesanti lavori di restauro del Teatro Comunale occupano, rendendola inaccessibile, larga parte di Piazza Verdi, uno dei luoghi simbolici più forti della Bologna studentesca. È solo un caso, ma mi impressiona sempre pensare che c’è gente che sta finendo l’università senza essersi mai seduta a pranzare sui gradini del teatro, sotto il porticato. Eppure, ovunque ci sia uno spazio aperto nella zona universitaria, gli studenti si ritrovano là, a prendere il sole dolce di aprile, il più crudele dei mesi, scriveva T.S. Eliot in The Waste Land, come tutti sanno. Meno noto è il prosieguo, che spiega in che modo agisce questa crudeltà: «Mixing memory and desire».