Balenciaga, Dolce & Gabbana e gli altri ‘merdoni’ della moda: i mea culpa servono davvero a qualcosa? | Rolling Stone Italia
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Balenciaga, Dolce & Gabbana e gli altri ‘merdoni’ della moda: i mea culpa servono davvero a qualcosa?

Lo scandalo che ha travolto la maison francese, accusata di istigazione alla pedofilia per l’ultima campagna che ritraeva bambini con orsetti fetish, ci porta a ripercorrere tutti i casi precedenti. E le scuse: a volte giuste, a volte solo paracule

Balenciaga, Dolce & Gabbana e gli altri ‘merdoni’ della moda: i mea culpa servono davvero a qualcosa?

Foto: Instagram @diet_prada

Dagli orsetti fetish alle blackface, fino ai casi di appropriazione culturale: le accuse sono all’ordine del giorno, nella moda, e pochi imparano dai propri errori. Dall’ultimo inciampo di Balenciaga ai precedenti storici che hanno scosso le coscienze di mezzo mondo. A ogni indignazione segue un mea culpa, e a ogni mea culpa segue una gran perdita di denaro e reputazione. La domanda che serpeggia di più tra gli addetti ai lavori, in questi casi, è: “Com’è possibile che nessuno se ne sia accorto prima?”. Stiamo parlando dei numerosi dietrofront che, nel corso degli ultimi anni, le case di moda hanno dovuto fare per prendere le distanze da campagne pubblicitarie ritenute “problematiche”, cospargendosi il capo di cenere, promettendo donazioni o, addirittura, ritirando alcuni prodotti considerati offensivi o colpevoli di appropriazione culturale. Tutto questo, come sempre, all’indomani di shitstorm mediatiche da placare, per non perdere reputazione, popolarità e fette di mercato. Dall’ultimo, eclatante caso di Balenciaga, accusata di aver introdotto riferimenti alla pedofilia nei propri shooting fotografici, agli evergreen storici a opera di Gucci e Dolce & Gabbana: quando si pesta un merdone, l’importante è rialzarsi, fare mea culpa e tornare a vendere il sogno. Anche se non tutti ci riescono efficacemente.

Balenciaga, Ye e la pedofilia

 

 
 
 
 
 
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Non bastavano le polemiche per aver portato in passerella sacchetti della spazzatura elevandoli a costosi beni di lusso. Non bastava nemmeno il caos generato da Ye (Kanye West) per le posizioni controverse del suo White Lives Matter, che hanno portato il brand a prendere le distanze da lui e a cancellare ogni tipo di rapporto in essere. No. Al centro delle polemiche, questa volta, è finita una campagna Gift Giving costellata di riferimenti inquietanti che hanno come protagonisti i minori e dossier legati alla pedofilia. Prima di tutto, ci sono stati gli scatti con i bambini e gli orsetti fetish: orsacchiotti adornati con abiti bondage, in pelle, tenuti tra le braccia di innocenti creature. Ma non solo. Facendo zoom su alcune immagini della precedente campagna Balenciaga x Adidas, con testimonial Isabelle Huppert, alcuni utenti hanno riconosciuto lo stralcio di una sentenza del 2008 su un caso di pedopornografia, lasciato in bella vista sulla scrivania insieme a un libro d’arte di Michael Borremeans, la cui poetica è caratterizzata da bambini e adulti ritratti in atti di violenza, tra cui il cannibalismo. Insomma, un bel numero di immagini e simboli poco rassicuranti che ha scatenato il putiferio di genitori e non. Possibile che durante lo shooting nessuno si sia accorto di nulla? Possibile che non ci sia stato il tempo di una revisione finale? Chi lo sa. Il brand di Demna Gvasalia ha immediatamente ritirato le due campagne pubblicitarie, chiedendo scusa e ribadendo la propria posizione a favore e a tutela del benessere dei bambini. Peccato che sul web fossero già comparsi moltissimi video di (ex) clienti Balenciaga nell’atto di distruggere borse e accessori, mentre Kim Kardashian annunciava, sui propri social, di voler riconsiderare la sua collaborazione con il marchio. Un Balenciaga-gate coi fiocchi, non c’è che dire. Tra questo e il terremoto causato dall’uscita di Alessandro Michele da Gucci, Kering non se la sta passando bene.

Gucci: tra blackface e appropriazione culturale

Accusata di razzismo e di appropriazione culturale è stata invece Gucci, quella dell’era di Alessandro Michele citato poc’anzi. Era il 2018 quando un turbante blu, comparso sulla passerella di una sfilata e poi messo in vendita, scatenò l’indignazione della comunità Sikh in quanto molto simile al tradizionale copricapo indiano noto con il nome di dastaar. Non ci fu nessuna dichiarazione ufficiale da parte di Gucci, ma l’articolo fu prontamente rimosso. Tuttavia, il fenomeno dell’appropriazione culturale è di per sé molto controverso, come quando fu tirato in ballo qualche tempo prima, per la collezione realizzata in partnership con Dapper Dan. C’è una linea molto sottile che separa l’apprezzamento dall’appropriazione culturale, e molto spesso la polemica può risultare difficile da comprendere, a meno che non si inquadri il contesto in cui è inserita. Basti pensare a Vivienne Westwood e McLaren quando, negli anni ’70, portarono il punk in passerella o alla cantante Siouxsie Sioux quando indossava un look ispirato all’iconografia giapponese, cantando Hong Kong Garden. Certo, l’oggetto della disputa tra Gucci e la comunità Sikh era la sacralità del copricapo trasformato in puro accessorio estetico, ma se togliamo alla moda la possibilità di influenzare ed essere influenzata da culture diverse (comprese le sottoculture e le minoranze) senza alcuna intenzione malevola o superficiale, siamo parecchio nei guai. Il secondo scandalo che investì Gucci, a qualche mese di distanza, fu causato da un maglione nero in stile balaclava che copriva il volto per metà, con sopra due grandi labbra rosse disegnate. Come era già successo a Prada con la collezione Pradamalia, anche Gucci fu accusata di blackface, ovvero lo stile di make-up teatrale con il quale gli attori bianchi interpretavano i personaggi neri caricaturizzandone i tratti somatici. Una polemica nata su Twitter e arrivata dritta dritta sulle scrivanie dei piani alti: oltre a ritirare il prodotto, Gucci diffuse un comunicato per fare ammenda e sottolineare tutto l’impegno dell’azienda nell’essere inclusiva e dimostrarsi sensibile a queste tematiche. Queste accuse di razzismo erano giustificate o erano frutto di un eccessivo uso del politicamente corretto? Probabilmente la seconda, e probabilmente il brand avrebbe fatto meglio a spiegare le proprie scelte artistiche, difendendole proprio per dimostrare la sua buona fede. Ma a volte un tweet vale più di mille designer, e soprattutto la paura di perdere una fetta di clienti può prevalere su ogni senso logico. E allora mea culpa, mea culpa, mea grandissima culpa.

Dior e la campagna con Johnny Depp

Tutti voi avrete in mente le immagini della campagna con Johnny Depp per il profumo Sauvage di Dior. Ebbene, forse non tutti sanno che anche questo spot fu accusato di appropriazione culturale a causa dei suoi riferimenti espliciti alla cultura dei nativi americani. Nello primissimo spot, oltre a Depp veniva inquadrato un membro della tribù dei South Dakota Rosebud Sioux, avvolto in un vestito tribale di piume, e la caption recitava più o meno così: “Un viaggio autentico nell’anima dei nativi americani in un territorio sacro, fondatore e secolare”. L’origine della disputa era principalmente focalizzata sull’uso della parola “sauvage” associato alla cultura dei nativi americani. “Sauvage” è infatti un termine dispregiativo usato in riferimento agli indigeni francesi, e anche la sua versione in inglese (“savage”) è nota per le sue connotazioni razziste. Per gettare ulteriore benzina sul fuoco, Depp aveva inoltre affermato di essere imparentato (anche) con i nativi americani in un’intervista durante le riprese del film The Lone Ranger, dove vestiva i panni, appunto, di un indiano d’America. E mentre la polemica si stava espandendo a macchia d’olio, come si è comportata Dior? L’azienda ha subito contattato dei consulenti – nativi americani, of course – specializzati nella lotta all’appropriazione culturale, per sottolineare il suo importante lavoro con l’associazione American Indian Opportunity (AIO), che avrebbe dato la sua approvazione per la campagna e che avrebbe, inoltre, ricevuto una donazione dalla maison. Un bel modo, forse paraculo, di uscire da un pasticcio linguistico e identitario. Anche se, va detto, tutto ciò non ha fermato le reazioni negative sui social, e il brand si è trovato comunque costretto a rivedere il messaggio che lo accompagnava. Finendo per censurarlo, nonostante la generosa donazione e una costruttiva presa di coscienza. Peccato, poteva essere una buona occasione per dare vita a una conversazione sul tema, anziché correre ai ripari e dimostrare, anche in questo caso, poco coraggio nel cancellare subito le tracce dei presunti errori.

Il senso di Dolce & Gabbana per la Cina

Dolce e Gabbana chiedono scusa alla Cina

Dopo lo scandalo per il manifesto “machista” che vedeva una donna bloccata per i polsi da un uomo, mentre altri quattro osservavano la scena, questo è stato probabilmente il caso più eclatante che ricordiamo, non solo per il fatto in sé, ma anche per la replica – totalmente sbagliata – di Dolce & Gabbana. Prima di accanirsi contro Striscia la notizia, l’influencer Diet Prada se la prese con la coppia di stilisti nel 2018 a causa di uno spot pieno zeppo di stereotipi sulla cultura cinese, in occasione di un’imminente sfilata di D&G proprio in terra cinese. Lo spot in questione riprendeva una ragazza cinese mentre cercava di mangiare una pizza, degli spaghetti e perfino un cannolo siciliano con un paio di bacchette. Non riuscendoci, evidentemente. In particolare, la scena del cannolo era accentuata da una voce fuoricampo che chiedeva alla modella cinese: “Ce la fai o è troppo grande per te?”. Una rappresentazione a dir poco tremenda. Ma il vero nocciolo della questione furono le risposte di Stefano Gabbana mandate in privato a Diet Prada, dopo un post di quest’ultimo in cui accusava il brand di volgarità e razzismo. In una delle risposte a Diet Prada, Gabbana scriveva: “Tu non stai bene di cervello, allora tu sei razzista perché mangi i cani? Lo spot è stato rimosso dai social media cinesi perché il mio ufficio è stupido, come la superiorità dei cinesi”. Apriti cielo. Risultato: la sfilata di Dolce & Gabbana fu cancellata dal Governo Cinese e il brand si difese, con un triplo salto carpiato, dichiarando che il profilo di Stefano Gabbana erano stato hackerato e che le frasi riportate non erano sue. Davvero poco credibile. Le conseguenze economiche furono così disastrose, tanto da costringere i due stilisti a diffondere un video di scuse ufficiali. La storia poteva, forse, finire qui? Niente affatto. Il video di scuse fu un vero capolavoro d’avanspettacolo, ambientato in una stanza-bunker da fare invidia a Bin Laden, e con quel passaggio indimenticabile in cui i due stilisti spiegavano di dovere delle scuse ai cinesi perché comunque “ce ne sono molti”. Senza alcuna ombra di dubbio questo è, ancora oggi, uno dei massimi esempi di pessima comunicazione e di pessimo problem solving. Non a caso, l’azienda decise poi di chiudere – temporaneamente – il profilo di Gabbana per evitare altri incidenti diplomatici. In conclusione, tra incidenti reali o presunti, rimane un’unica certezza che collega tutti questi episodi: la grande paura delle maison quando devono far fronte a polemiche e prese di posizione, più o meno autorevoli, sui messaggi veicolati. Quasi sempre sbagliano, continuando a sbagliare. Nell’era della suscettibilità del pubblico e, allo stesso tempo, della povertà di idee dei brand – perché, diciamocelo, non siamo più nei gloriosi anni delle campagne tanto provocatorie quanto geniali di Diesel o di Benetton – forse sarebbe più utile cogliere la balla al balzo per argomentare, anziché cancellare, o fare un passo indietro per tornare alla domanda iniziale: ma possibile che nessuno se ne sia accorto prima?

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