Giovanni Robertini: Ecce Bombo, Free Palestine! Ora che è arrivato pure il post proPal di Nanni Moretti – una foto di Netanyahu con sopra scritto «Ma quanti palestinesi devono ancora morire perché tu sia soddisfatto e finalmente la smetta?» – dopo che tra i palazzi del quartiere Forcella di Napoli è comparso uno striscione coi colori della bandiera palestinese e al centro uno scudetto tricolore e il simbolo della squadra bianco azzurra… ora appunto in quanto Boomer Gang chiediamo che sia fatta una canzone per Gaza. Un pezzo che faccia casino, raccolga due soldi, restiamo umani con meno retorica possibile. Dai, è un vero e proprio appello, del resto Michele Serra dalla sua amaca ha riempito una piazza per l’Europa, che vuoi che sia. Coraggio! Con tutto il rispetto, hanno fatto una canzone e un concerto per l’Abruzzo e per la Palestina nulla? Ok, c’è stato Ghali, ma poi basta, a parte i Patagarri al Primo maggio. I Patagarri, capito? Sempre con rispetto, però dobbiamo puntare in alto. Oltre a Ghali, Jovanotti, Elodie, Vasco, Marracash, Mahmood, Calcutta, Angelina Mango, Liberato, Anna, Sayf, Ele A, potrei continuare. Ma intanto cari artisti, iniziate voi, fate un gruppo su WhatsApp, riguardate su Netflix il documentario di We Are the World e datevi appuntamento in uno studio di registrazione. Un consiglio, pescate dal repertorio, non scrivete un pezzo nuovo, basta il pensiero. Potete scegliere tra De André e Battiato, al limite De Gregori, state larghi e cauti, popolari! Anzi, forse con l’aiuto di Rolling Stone potremmo fare un sondaggio, la canzone la scegliamo noi, dal basso, voi ci mettete la voce. Vale anche l’Auto-Tune.
Alberto Piccinini: Certo, l’Auto-Tune. Ma anche i droni buoni – su Bandcamp ci sono da tempo decine di raccolte di elettronica minimale che raccolgono fondi per la Palestina. Però, con tutto il rispetto per noi che abbiamo combattuto per la pace dietro a Jova-Liga-Pelù (senza Auto-Tune, come abbiamo potuto?!), io penso che stavolta bisogna essere ancor più radicali. Non basta opporsi al genocidio a Gaza. Bisogna ricordare che la prima guerra è stata – un anno e mezzo fa – quella delle parole e del loro significato: antisemitismo, genocidio, 7 ottobre, proPal. E che l’abbiamo persa subito, per prima. Adesso però c’è Alè RealStreet95, il rapper napoletano che in questi giorni sta facendo esplodere le app di TikTok di tutto il Paese cantando: “Ci odia tutta Italia / siamo di Napolì / Puzziamo di monnezza/ Vesuvio lavacì”, con tanto Auto-Tune da ammazzare un elefante, sulla base di Freed from Desire di Gala. Hai presente? E “Senti che puzza / scappano anche i cani” però sul motivo di Sarà perché ti amo, arrangiato alla Gabri Ponte, alla Gigi D’Agostino, techno-nazi, non l’hai sentito? Sempre lui. Avrò cercato male, ma non ho trovato neppure un’intervista, neppure un trafiletto, un’analisi della guerriglia semiologica di Alè. Io penso che sia poco meno che un genio dello zeitgeist: se la fase politica obbliga a misurarsi soprattutto sulla parodia delle proprie posizioni, falsificate dall’avversario, allora c’è bisogno di gente capace di scardinare il gioco. E immagino un pezzo della futura compilation che raccoglierà fondi per i bambini di Gaza con il testo tratto dalla lite Bocchino-Rula Jebreal l’altra sera da Luca Sommi sulla Nove. “Lei ha un profondo antisemitismo! / Lei è pazzo, ubriaco o pazzo?! / Non ha condannato il 7 ottobre! / Parte della mia famiglia erano ebrei scappati dalla Germania, si vergogni! / Si vergogni lei!”. Eccetera. Sull’aria di “Vesuvio erutta / tutta Napoli è distrutta”. Auto-Tune e drone, come se piovesse. Ti piace?
G.R.: Scusa no, ma io insisto con l’appello per la canzone per Gaza. Soprattutto sulla scelta di un classico. Del resto, la tendenza è questa: dopo il pezzo di Alfa con Manu Chao, questa settimana è tornato Olly, il vincitore di Sanremo, con Depresso fortunato, un folk da osteria – con tanto di rumore di bicchieri e di posate battute sul tavolo, chitarra e voce in presa diretta, De André più Lauzi più Bindi, un omaggio a tutta l’old school genovese. E che dire di Ketama126 con i suoi stornelli romani in odor di Califano del nuovo album 33? Tutte le nostre amiche più alternative e sofisticate sone pazze di lui. Io pure. Siamo pronti all’estate della retromania, purché sia retromania militante. Perché tra tutti i coldc ase ancora aperti, proprio il caso Garlasco? Non fatevi distrarre, classico sì ma non trash. Un po’ di eleganza, portatevi rispetto.
A.P.: Garlasco style, dici? Uhm. Dopo l’avvocata di Sempio fotografata con la shopper di Indagini è già Stefano Nazzi contro Elisa true crime, le gemelle K e Fabrizio Corona, Ellroy contro Agatha Christie, True Detective contro La signora in giallo. Ma queste sono minuzie, dicotomie fasulle, giochini retorici. La cosa vera invece l’ho ascoltata l’altro giorno: è il videoclip di CCCP di Simone Panetti, che è andato fino a Predappio in compagnia del suo amico Auroro Borealo a girare nei negozietti di parafernalia fascista e capoccioni del Duce, regia di Luis Sal. “È una questione di quantità / di italianità” canta Panetti (che qualcuno conoscerà pure per l’ottimo podcast Epico!) parodiando i CCCP di Curami vestito in polo nera da perfetto fascio di sezione. “La mafia, l’uguaglianza / la libertà la tolleranza / no. / Treni in orario sì / lavoro sì / il patriarcato sì sì sì”. Fa ridere. Abbastanza. Ora non posso riassumere tutto il dibattito tra chi sostiene che Panetti è una specie di Fascisti su Marte 2.0 e i fascisti di Primato Nazionale che ribattono “Panetti è una rappresentazione delle paranoie della sinistra e l’idiozia dell’antifascismo”, perché già m’intristico soltanto così. Certo l’oggetto è complesso e scivoloso, inaugura – dopo la post-realtà e post-ironia – l’era della post-parodia. A me sembrava una buona parodia di Lindo Ferretti e dell’antica estetica neosovietica, aggiornata ai tempi nostri e a Ferretti medesimo (beccato al Salone del libro di Torino a commentare le omelie di papa Ratzinger). Insomma una parodia del ferrettismo come si fa per Al Bano, Franco Battiato, o il solito Achille Lauro della Gialappa’s. Ma riparliamone ancora, dubito che sia finita qua.