Anche i cani vanno in paradiso? | Rolling Stone Italia
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Il mio amico Bearzot

Anche i cani vanno in paradiso?

«Non avevo voluto un San Bernardo perché amassi quel tipo di cane, visto che ho sempre sognato di possedere un bassotto, ma c'era una caratteristica che mi era sempre piaciuta di quella razza e che non trovavo nelle altre: la bombolina». Un racconto de Lo Sgargabonzi

Anche i cani vanno in paradiso?

Foto di Alvan Nee su Unsplash

Quando avevo cinque anni, in occasione del compleanno del babbo di un mio compagno di classe, mi fu regalato un cane San Bernardo che io chiamai subito Bearzot. Pensavo che sarebbe diventato il mio miglior amico, ma Bearzot si dimostrò qualcosa di più: il cognato che non avevo mai avuto. Si comportava come tutti i cognati dovrebbero comportarsi, guaendo, rotolandosi fra gli sterpi e inseguendo manguste.

Non avevo voluto un San Bernardo perché amassi quel tipo di cane, visto che ho sempre sognato di possedere un bassotto, ma c’era una caratteristica che mi era sempre piaciuta di quella razza e che non trovavo nelle altre: la bombolina.

Infatti il San Bernardo è dotato di una piccola botte di acquavite cucita sotto la gola. E io avevo letto su un libro che questo liquore ha uno scopo molto nobile: nel caso in cui le persone vengano travolte da valanghe di neve, l’acquavite aiuta il cane a sciogliere la neve e recuperare i cadaveri e quella che avanza a tirare su i parenti della vittima.

Nonostante mio babbo mi avesse sempre ammonito di non bere il contenuto della bombolina, perché una volta fatto non avrebbe potuto più essere riempita, un giorno decisi di farlo per impressionare Scamandrio, una bambina che mi piaceva. Mi misi a succhiare il piccolissimo rubinetto della bombolina come se fosse il pistolino di un mio compagno di classe, quindi girai la manovella. Quello che ne uscì non era acquavite né vinsanto né altre bibite, ma bianchissimo e caldissimo pus. Fu allora che scoprii che quella che io credevo una bombolina regolamentare era invece un tumore già meno regolamentare.

Mi crollò il mondo addosso: il mio amato cagnolino sarebbe morto di lì a poco e io ne avrei vissuto l’agonia! Dopo una notte di sgomento, cercai sull’elenco un veterinario che lo facesse morire con meno sofferenza possibile. Non conoscendo nessuno, scelsi il primo su cui mi cadde lo sguardo: Antica Veterineria Qua la Zampa, di Ernesto Torsoli. Quindi ruppi il salvadanaio e misi insieme un po’ di soldi per pagarlo: millenovecento lire, un gettone per la lavanderia automatica e un chewingum al gusto cenone di capodanno tutto compreso Braulio incluso. Poi, con la morte nel cuore, accompagnai Bearzot dal veterinario. Durante il tragitto sapevo che stavo vivendo i miei ultimi minuti col mio migliore amico, ma non volevo che se ne accorgesse, così per distrarlo gli parlavo di cose vaghe, come per esempio i vantaggi dei profilati di alluminio a taglio termico rispetto ai trafilati estrusi in gomma.

Arriviamo all’ambulatorio e ci mettiamo seduti in sala d’attesa, dove siamo noi da soli. Appena il dottor Torsoli ci chiama, io scoppio in lacrime e corro ad abbracciarlo. Ricordo che lui mi accarezzava la testa mentre piangevo contro il suo camice, sentendo qualcosa di duro pulsare sotto, forse il manganello con cui avrebbe ucciso il mio Bearzottino! In realtà era solo un gavettoncino, che scoppiò bagnando un po’ il camice di latte di mandorla. Spiegai tutto al dottor Torsoli e lui mi sorrise e mi rassicurò: “Non ti preoccupare”. Io so solo che rimasi estasiato da quell’esperienza.

Il dottore era così bravo nel suo mestiere, da riuscire a trasformare quel momento di grande dolore e malinconia, in un’occasione addirittura comica. Per prima cosa tirò fuori tre cappellini colorati, uno per sé, uno per me, uno per Bearzot. Poi mise sul giradischi il 45 giri della canzone Maracaibo di Jerry Calà. Improvvisamente fu festa! Bearzot, già pancia all’aria sul lettino, ballava a ritmo di musica e fischiava con la lingua di menelik, mentre io lanciavo in aria coriandoli, paillette e stelle filanti.

Verso la fine della canzone il dottore mi afferra le spalle, prendiamo a fare un trenino intorno al letto e sull’ultima nota di Maracaibo, a sorpresa, pugnaliamo al cuore Bearzot coi mini-pugnali di Cluedo! Anche quel matto di Bearzot contribuisce all’atmosfera ilare, perché prima di morire fa una scorreggia supersonica e scoppiamo tutti e tre a ridere. Purtroppo il momento festoso finisce e mi trovo lì col corpo del mio migliore amico, pare addormentato e invece non c’è più. Rincaso con Bearzot in un sacco di plastica nera. Quella sera con i miei genitori discutiamo se seppellirlo così com’è oppure cremarlo.

Poi, visto che ormai era come un familiare, decidiamo di bollirlo e cibarci delle sue parti commestibili, perché anche lui avrebbe fatto lo stesso con noi. E, in segno di rispetto, di usare il suo morbido manto per confezionare un set di copriwater per un club scambista di un amico di mio babbo.

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