Rolling Stone Italia

Alla fine vince sempre Jovanotti

Sui record di Ultimo, i concerti di Morrissey e la stand up di Ricky Gervais. Ma anche sulla sindrome da tutto esaurito, gli audio di Raoul Bova e, a suo modo, pure sugli Oasis

Foto: Michele Maikid Lugaresi

Alberto Piccinini: Che dici, dobbiamo rispondere qualcosa ai fan di Ultimo che per la rubrica dell’altra settimana se la sono presa con noi ma soprattutto con Rolling Stone, esagerando come sempre? «Una volta era un giornale serio», sui social va così. Ho messo cuoricini a tutti, basterà? Avevamo dato conto dello smarrimento di fronte al caso Ultimo e al record di biglietti venduti per un concertone dell’anno prossimo. Avevamo ascoltato pure, skippando un po’, l’album dal vivo. Poi siamo andati sulle pagine “spiegate bene” del Post, amara sconfitta professionale. Si può spiegare bene Ultimo? No che non si può. Il meccanismo delle popstar odiate dai “giornalisti” è vecchio e pure furbo. Claudio Villa ci si era costruito tutta la fine della sua lunga carriera di cantante impresentabile. Pure Nino D’Angelo, ma lui aveva gli incassi del cinema dalla sua parte. Oggi è tutto più complicato: quando Salvini e Meloni dicono di essere odiati dai “giornaloni” si guardano bene dal dire che controllano la tv e inquinano i social con ogni mezzo possibile. A parte questo, ecco cosa voglio dire ai fan di Ultimo: io adoro la cultura pop, gli impazzimenti di massa, gli svenimenti e le urla tipo Beatles (bellissime a proposito le foto del concerto di Milano scattate da Maria Vittoria Backhaus nel 1966, unica fotoreporter donna, modernissima, sono uscite adesso da Rizzoli), la trance, cantare in coro a chi gli va e la sa;  invece non sopporto il midcult, pensare che il proprio gusto sia più serio e importante di quello degli altri (la faccio semplice qui). Per fortuna i social ci regalano momenti di carnevale totale. Le reazioni indignate provocate dai post tristi di Amedeo Minghi e Drupi per la morte di Ozzy Osbourne – tipo parenti scureggioni non invitati al funerale – mi hanno fatto sorridere. L’epopea di reel che ci inondano dai concerti degli Oasis mi sembra sempre più funerea: l’algoritmo stamattina ha regalato un Tommaso Paradiso che cantava a squarciagola al lato del palco di Wembley, incazzato con quelli che accanto a lui non cantavano «perché erano lì per moda». Ho avuto soltanto io l’impressione che ci fosse qualche vuoto sugli spalti e nel parterre? Boh. L’impressione era come di una partita di calcio d’estate, Liverpool-Milan, Kaiserslautern-Roma toh. Questa fissazione del tutto esaurito è un boomerang. Sai cosa? Alla fine, come al solito, ci sono cascato un’altra volta col concerto in bicicletta di Jovanotti che ho seguito tutto sui reel di Instagram, dalla partenza da casa all’arrivo sulle montagne. Che gli vuoi dire? Ha vinto lui, senza bisogno di sbancare le spiagge del litorale come aveva fatto l’altra volta. Nella mia classifica dei concerti estivi però metto al primo posto Morrissey in Italia, modello ultimi giorni di Eleonora Duse: partito dannunziano dal Vittoriale, oggi sarà sciantosa a Roma, solo se ne avrà voglia. Io di sicuro voglia non ne avrò ma che c’entra.

 

Giovanni Robertini: Mah, l’ultimo Morrissey mi sembra un incrocio tra Kanye West e Ricky Gervais, non si capisce né con chi ce l’abbia né se le sue siano solo battute da stand up. A proposito di Gervais, molti miei colleghi della tv sono andati in pellegrinaggio al Forum di Milano per il suo spettacolo, Mortality, ma sono tornati senza stories, vietato riprendere col cellulare, altrimenti Netflix poi non gli paga il passaggio su piattaforma. Del resto le battute sul suo jet privato sono tra le migliori del repertorio, ma è quando se la prende con «i fighetti della borghesia che dicono alla gente normale a cosa possono e non possono ridere» (come riporta il sito dell’Ansa, altro che stories) che respiro tutta la polvere delle macerie del politicamente scorretto, “falsissimo” e quindi verissimo, come un gossip di Fabrizio Corona. «Chi mi voleva far tacere ha perso» dice Ricky, vittimismo senza vittime, pure un po’ cringe: almeno Corona, intervistato questa settimana da Claudio Sabelli Fioretti, ha ammesso che di bugie in quello che dice c’è un buon 80%. Per la resa dei conti con la verità c’è tempo, lo dice pure il grevissimo Rrari Dal Tacco in una delle tracce del nuovo album dei produttori SadTurs & KIID (un bel disco): “Se finisce la trap, posso tornare a pane e acqua/ Perché stavo già a pane e acqua”. E se finiscono gli stadi, i palazzetti e i sold out? Tutti al pub karaoke di Manchester con i fratelli Gallagher.

 

 

A.P.: «Per i comici Donald Trump è una fonte infinita di materiale, ma quel che dice e che fa è sempre più assurdo di quanto può essere la satira», insiste il New Yorker. Eppure il grande evento televisivo della settimana, la prima puntata della ventisettesima serie di South Park, non ha deluso. Il micropisello del presidente innamorato respinto da Satana in persona (sul pisello piccolo non sbagli mai), la “scorrettezza politica” usata finalmente come si deve: contro chi è più potente di te, mica contro i poveracci come ho visto fare nei manifesti dei leghisti con le immagini AI di neri, zingare, frikkettoni. Il discorso della Montagna, titolo dell’episodio che se ho capito avrebbero provato a cancellare ma sta praticamente ovunque, è pieno di riferimenti parodia allo scellerato patto tra Paramount e lo stesso Trump, che nella realtà ha già portato al licenziamento annunciato di Steve Colbert e al ridimensionamento del magazine 60 minutes. Mi ha rimandato a un’età dell’oro della nostra televisione, quella degli scontri epici tra Corrado Guzzanti, Paolo Rossi, il gruppo di Avanzi, la Gialappa’’s, Michele Santoro e i tutti i direttori di rete, i segretari di partito, i presidenti di commissione. Così lontana e sbiadita che si fatica a credere perfino che sia esistita. Corrado Guzzanti faceva Umberto Bossi legato e imbavagliato come Hannibal Lecter, il suo capolavoro: «Il Papa è un immigrato che ruba il lavoro ai papi italiani! L’embrione è una vita umana, il meridione no! Per sparare agli scafisti non ci vuole il porto d’armi, specie se omosessuali! Sharon Stone è una cozza!», queste le ho trovate ancora su Wikipedia. Modernissimo già allora. Che nostalgia, altro che Oasis. Il mondo è molto cambiato: adesso pensano a tutto i social, coi meme, i leaks, le rivelazioni. Un circolo chiuso, un livello di rincoglionimento collettivo da culti misterici, roba che meno esiste più è fondamentale. Problema del momento: se Trump sta davvero nella lista di amici del pedofilo Epstein, cosa penserà chi lo ha votato perché avrebbe ripulito il mondo dai pedofili liberal del Pizzagate? Ecco, per capire la nostra distanza dal centro dei problemi, noto soltanto che qui la questione più dibattuta della settimana è stato il vocale cringione di Raoul Bova con la modella degli occhi spaccati, anni ‘60 come livello di commedia, Alberto Sordi, Walter Chiari, siamo sempre li. E neanche un dubbio sul pisello piccolo, figurarsi. “Vabbeh auguri(la battuta di Giulio Base a Nanni Moretti nella mitica scena al quartiere Spinaceto di Caro Diario)

 

G.R.: Alla fine Nanni torna sempre, il suo Ve lo meritate Alberto Sordi, parafrasato nella scorsa rubrica sulla vicenda Ultimo credo l’abbiano riconosciuto in pochi. Amen, sul cantautore romano e la sua fanbase – cuoricini a tutte e tutti – hai già detto: aggiungo solo che durante un suo concerto a Trieste più di un anno fa ha proiettato sul maxischermo le immagini di Gaza in fiamme mentre cantava Alba. Ti confesso che per me è diventata una piccola ossessione in questa estate italiana di notti più o meno (spesso per niente) magiche negli stadi: se non tiri fuori manco una bandiera della Palestina, se non dici neanche una parola, se non prendi posizione per me hai perso a tavolino, 2 -0, pure se giochi in casa. Cito lo scrittore e giornalista Omar El Akkad dal suo ultimo libro Un giorno tutti diranno di essere stati contro: «L’idea che prendere distanze dal sistema sia infantile e improduttivo si basa sull’incapacità di allontanarsi verso qualcosa più che da, come se non potesse esistere un’altra destinazione». L’altra sera sono andato a vedere il nuovo spettacolo di Filippo Timi, Non sarò mai Elvis Presley, al Franco Parenti. Molti amici non sono venuti perché incazzati e offesi dalle parole della direttrice del teatro Andrée Ruth Shammah sulla questione palestinese, soprattutto per sue accuse ai ProPal di essere antisemiti e fiancheggiatori di Hamas. La direttrice è molto attiva sui social, forse troppo snob per un talk rissa di Rete 4, ma la tiritera è sempre quella… quindi capisco il boicottaggio. Però avevo dato a Filippo Timi il beneficio del dubbio, perché se per una vita ti spendi per la battaglia dei diritti, non puoi non avere a cuore il diritto numero uno, quello a campare. Lui ha portato in scena dei monologhi cantati, surreali e divertenti, un po’ Gaber, un po’ Capossela, qualche stornello in versione Elio e le Storie Tese e dei blues molto Vasco Brondi, il tutto suonando l’handpan e accompagnato dal musicista Lorenzo Minozzi. A un certo punto un pezzo tira in ballo i potenti del mondo, i cattivi, e Timi parla di – imitandoli alla perfezione – Trump, Putin e Meloni. In sala a spettacolo finito non sono il solo a pensare che Timi si sia volontariamente o inconsciamente censurato non nominando Netanyahu. Forse perché è molto amico della direttrice che fin dagli esordi lo supporta e promuove, forse semplicemente non voleva farle dispetto, ma il risultato è che il dispetto l’ha fatto al pubblico. L’elefante è nella stanza, ovunque, a teatro o allo stadio. E oggi se facciamo finta di non vederlo, è colpa nostra. Daje Ultimo, ci becchiamo a Tor Vergata nel 2026, il biglietto lo pago doppio, tariffa giornalista/giornalaio. 

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