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Aiuto, hanno espugnato Pitchfork, il fortino dell’hipsterismo

Il viaggio nel mainstream del sito musicale fighetto per eccellenza sembra finito. È la vittoria di stream e view sulle recensioni verbose e complesse. Amici disadattati, torniamo a scambiarci i dischi nelle cantine

Foto: Guillaume De Germain/Unsplash

Alberto Piccinini: Che ti devo dire? Saranno 15 anni fa che la mattina prendo il caffè e leggo le recensioni di Pitchfork. Se esco a fare due passi ne approfitto per ascoltare qualcosa, roba ambient da chissà dove: di’ quel che ti pare ma la cosa bella è che su Pitchfork c’era ancora recensito veramente di tutto. Capirai che l’idea di aprire il PC e trovarci al suo posto un redazionale di GQ sulle nuove scarpe da montagna indossate da una band post punk di Bristol non mi fa piacere. Niente di personale, il gorpcore mi appassiona, su GQ Italia ho scritto pure qualcosa a suo tempo, ma io appartengo a una di quelle generazioni tardonovecentesche convinte che attraverso la musica si potesse parlare del mondo intero comprese le scarpe da montagna, non viceversa.

Riassumo brevemente la questione a uso dei nostri pochi lettori: la direttrice editoriale di Condé Nast Anna Wintour – Il diavolo veste Pradaannuncia in una mail la prossima ristrutturazione, Pitchfork sarà assorbito da GQ, metà della redazione licenziata. I meglio nomi della critica e del giornalismo musicale internazionale giustamente accusano il colpo: nel mondo dominato dallo streaming e dell’autopromozione sui social – riflettono – gli editori ritengono che la critica e il giornalismo come li abbiamo conosciuti non abbiano più niente da dire, fine della festa, torniamo a scambiarci i dischi nelle cantine buie da dove siamo venuti. Il colpo in effetti è epocale, ci sto pensando da due giorni e ho letto tutti i tweet, tristissimi, dei colleghi e colleghe licenziate, sono con loro. Ma secondo me la questione generazionale ancora non spiega tutto. Prima però vorrei sapere che ne pensi.

Giovanni Robertini: Beh, la questione generazionale un po’ spiega. Pitchfork era la roccaforte dell’hipsterismo, ovvero dell’indie che da movimentista extra parlamentare aveva cercato di istituzionalizzarsi, già sapendo quanto sarebbe stato marginale il ruolo e la rilevanza che era riuscito a sgranocchiare al mercato. Poi, visto che il sito è pieno di gente seria, aveva scavalcato a sinistra la vecchia critica teorizzando in maniera credibile la sbandata per la trap e per il pop da classifica. Ho sempre pensato che le collaborazioni tra Bon Iver e Taylor Swift siano state ispirate proprio da Pitchfork: alternativo e mainstream, alto e basso, surf su onde pop alte mille metri, quello era il suo marchio di fabbrica. Missione compiuta, allora è toccato allora trovare una nuova mission editoriale, e gli ex regaz ormai quasi in quota boomer hanno pensato che fosse giusto e naturale tornare a essere radicali, e a spingere glitch e droni, recensire oscura ambient giapponese e metal sperimentale scandinavo. Anche se non credo che questo abbia influito più di tanto sulla tragedia in corso, almeno non quanto la vittoria – anche ideologica – di stream e view sulle verbose e complesse recensioni col voto coi decimali.

AP: Pitchfork ha ereditato quello che le riviste musicali avevano rappresentato nella nostra bizzarra formazione di maschi bianchi disadattati rock’n’roll. Quello che non sappiamo della situazione adesso sono i dati, i numeri, la pubblicità, i bilanci dei festival internazionali che organizzano. Ma è vero quel che dici, negli ultimi anni non era più il museo delle cere indie rock che si potrebbe pensare, il contrario. Aveva una direttrice Puja Patel, tra le firme bravissime critiche ragazze asian-latin ultrafluide che convivevano con i vecchi quaranta-cinquantenni laureati in giornalismo (la recensione del momento è 8,4 all’album della colombiana Kali Uchis). Aveva pure un sindacato, Pitchfork Union, che al giorno d’oggi è un’eccezione in questo cavolo di mestiere. Il CEO di Condé Nast Roger Lynch è uno che si fa fotografare con il finestrone del grattacielo sullo sfondo, ha la missione impossibile di salvare un gruppo editoriale triturato dalla Rete, l’ultima notizia comunica che avrebbe licenziato il 5% dei dipendenti, penso che la presenza a Pitchfork del sindacato abbia contato qualcosa in negativo, e pure l’aria ultraradical non li ha aiutati. Se volete fare il centro sociale – avrà pensato il megadirettore – fatevelo coi soldi vostri, ciao.

Questo credo che vada considerato, prima di fare gran discorsi nostalgici sulla crisi epocale della critica musicale e del giornalismo nell’era della Rete. Raccogliamo quel che abbiamo seminato. A proposito da questa mattina il telefonino mi propone un’unica notizia, sotto la gloriosa testata de Il Messaggero, ex mitico giornale della capitale: “Chiara Ferragni parcheggia il suv”, dice. Perbacco. Se apri continua così: “Con le 4 frecce accese”. Vedi? Hanno fatto un po’ di inchiesta, ho pensato, bravi.

GR: Leggo il WhatsApp che mi hai appena girato, una ricerca commissionata da Libero (sì, proprio quello) che dice che gli immigrati e gli italiani di seconda generazione rappresentano l’11% dell’Auditel, e ci dice anche cosa guardano alla tv: in cima alla classifica ci sono Fuori dal coro di Mario Giordano e Dritto e rovescio di Paolo del Debbio. Saranno gli amici di Simba e Baby Gang che con gli occhi rossi di kush si fanno due risate davanti a Cruciani che infama i trapper? Non lo so, ma questa notizia mi ha messo di buonumore, il fatto che i programmi “daje all’immigrato” siano i più guardati proprio da chi è costretto a incassare i colpi bassi della loro battaglia identitaria. Come canta Jake dei Dogo nell’ultimo disco, “questa musica non parla di niente senza conflitto”. E in tv il conflitto virtuale è gratis, blocchi pubblicitari a parte. Per quello vero, che ci restituisca le mille Pitchfork che ogni giorno vanno in vacca, tocca affidarsi allo slogan lanciato da Zerocalcare su Repubblica: “La resistenza si fa con gli scontri, non con le storie su Instagram”. Sempre che non sia la solita nuvoletta dei fumetti.

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