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A lezione d’amore con Rocco Siffredi

Lo Sgargabonzi ha sbirciato oltre la scorza granitica del pornoattore per antonomasia. E ha rivelato un uomo sensibile come non se ne fanno più, da cui avremmo tutto da imparare

A lezione d’amore con Rocco Siffredi

Rocco Siffredi a Berlino per la presentazione di 'Supersex'

Foto: Stephane Cardinale - Corbis/Corbis via Getty Images

Tutti sappiamo che lavoro fa Rocco Siffredi: l’attore di film (purtroppo) pornografici. Ok, ma è anche per quel lavoro che oggi Rocco è la persona che è, nel bene e nel male, quindi se avessi una macchina del tempo e la possibilità di un solo utilizzo non avrei dubbi: tornerei indietro di quindici secondi per eliminare quel purtroppo fra parentesi. 

Va detto che la moglie Rosa Caracciolo ha sempre accettato il suo lavoro, del resto è proprio sul set che i due si conobbero negli anni ‘90. Eppure la dipendenza di Rocco dal sesso va oltre la sfera puramente lavorativa. C’è una parte di lui, prorompente ed edonista, che lo porta ogni volta a cercare scuse per scappare da Rosa, dai suoi figli, pur amandoli da morire (i nostri genitori che si sposano una seconda volta sul letto di morte hanno solo da imparare). Ogni volta Rocco si promette di cambiare come uomo, ogni volta fallisce.

Rocco qualche anno fa ebbe un brutto incidente in macchina. Ne uscì devastato, con la schiena a pezzi. Dopo l’ennesimo giorno in cui Rosa l’aveva accudito in ospedale, lui le accarezzò il viso e le disse: “Stasera vai a casa, amore. Riposati”. E lei gli sorrise e gli rispose: “No, resto. Che almeno adesso posso averti tutto per me”. C’è forse qualcosa da aggiungere?

L’ultimo San Valentino ero a casa di Rocco. Mi raccontava che aveva deciso che avrebbe portato a sua moglie un fiore, una rosa bianca, candida, virginale, come simbolo e pegno d’amore. Sua moglie era due stanze più là, in salotto, non ne sapeva niente. Be’, Rocco ha preso la rosa, ha incartato il gambo nella stagnola, l’ha afferrata con sicurezza e si è diretto verso di lei. Solo che ha impiegato la bellezza di sedici ore per attraversare due stanze e raggiungerla. Tremava tutto, balbettava, inciampava continuamente nei tappeti, s’impigliava con le tasche alle maniglie delle porte e faceva cadere bomboniere dagli scaffali, alla moda di Peter Sellers nel ruolo dell’ispettore Clouseau. La ragione? Era emozionatissimo per il fatto che aveva paura di essere rifiutato, che lei gli dicesse che non voleva la rosa perché magari non lo amava. Cuore, lui.

Tempo dopo ho ricambiato l’invito e recentemente è stato a casa mia. Eravamo in cucina, si parlava del più e del meno e gli ho chiesto se voleva qualcosa da bere. Lui mi ha chiesto semplicemente un bicchier d’acqua. “Naturale o frizzante, va bene come c’è”. Fin lì tutto bene. Mezz’ora dopo lo sento singhiozzare in bagno. Busso e gli faccio: “Che succede?”. Niente, mi spiega che stava piangendo perché si era dimenticato di ringraziare per l’acqua e aveva paura di esser passato per maleducato. Che ierofanico patato.

Credo che ognuno di noi abbia vissuto un dolore grande, per la fine di una storia o per la perdita di una persona cara, un genitore, un fratello, un figlio, un amico. Ognuno si ricorda di quei momenti che non passavano mai, minuti che si dilatavano a ore, poi a giorni e a esistenze possibili. E ogni singolo attimo generava un’inedita architettura di dolore, sempre nuova, vivida, senz’alcun rifugio né assuefazione possibile.

Ecco, quel dolore, esattamente quel dolore, fosse anche per il lutto più atroce, se lo mettiamo accanto a quello di Rocco Siffredi che piange come un cucciolo per il timore di aver ferito la giornalista con quella frase infelice e anche per la lontananza dalla moglie, mentre è in studio e lei cinque metri più in là, donna che ama da morire e le dice che vorrebbe essere un marito, un genitore e uno scienziato migliore ma l’abbiamo già detto… be’, quel nostro dolore diventa una gita a Gardaland con pranzo al sacco e delizioso portachiavi di Prezzemolo promozionale. Basta una crepa nella forza di Rocco per rivelare quello che siamo: viziati, inutili, egoisti.

Io penso che dovremmo tutti delle scuse a Rocco Siffredi. Anche i fantasmi di Nicola Calipari, Pietro Micca e tutta la squadra che si immolò per spegnere Chernobyl. Tutti giù coi loro capini e il cappello da pompiere in mano davanti al momento-piagnettino di Rocco, quello con la combo di voce strozzata, frase contro se stesso (“mi odiouuuuu cazzo cazzo cazzo”) e piccolo calcetto di rinterzo alla porta non sua con malta da riparazione per legno pagata dalla produzione.

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