Sicuri che il problema del calcio sia la Super Lega? | Rolling Stone Italia
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Sicuri che il problema del calcio sia la Super Lega?

E anzi, persino una proposta orribile come quella della Super Lega rappresenta un passo avanti: 15 squadre che si contendono la vittoria invece che sempre le solite 5. Prendiamola come una sveglia, invece che difendere un calcio che non esiste

Sicuri che il problema del calcio sia la Super Lega?

Sono disgustato”, “una vergogna”, “è follia”, “è tradimento”, “minaccia al merito sportivo”: sono solo alcuni dei commenti sprezzanti che svariate personalità del calcio e della politica hanno espresso nella giornata di ieri commentando la nascita della Super Lega, il progetto calcistico elitario che mira ad inglobare l’intero estratto del calcio europeo in un unico torneo, fondato e gestito dai 15 club più ricchi e blasonati al mondo (che vi parteciperanno per sempre, di diritto e per legge salica, senza possibilità di uscirne) e con soli cinque altri posti a disposizione per tutte le restanti squadre che formano il calcio continentale (selezionate di anno in anno in base ai meriti).

La battaglia dei 12 club fondatori – sei inglesi, tre spagnoli, e tre italiani (Juventus, Inter e Milan), a cui si aggiungeranno altri tre club prima dell’inizio del torneo – contro la UEFA, la FIFA e le varie federazioni nazionali è appena iniziata, e già dal primo giorno sembra aver spaccato in modo irreparabile il modo in cui concepiamo il calcio da un secolo e mezzo. Aleksander Ceferin, presidente dell’UEFA, ieri si è espresso in merito con dichiarazioni al napalm: ha definito i 12 club scissionisti “la sporca dozzina”, e ha indicato le pene per il tradimento perpetrato. Le squadre che parteciperanno alla Superlega saranno fuori da ogni altra competizione organizzata dalle federazioni, e i loro giocatori non potranno partecipare alle competizioni per nazionali. Molte sono state anche le reazioni dei tifosi, e non solo appartenenti ad altri club europei: i tifosi del Liverpool (uno dei club fondatori della Superlega) hanno protestato contro l’iniziativa decretando la morte del loro club con una coreografia polemica. 

E quindi viene da chiedersi: ad Agnelli, a Perez, a Zhang e agli altri chi glielo ha fatto fare? Perché era ovvio che una proposta del genere, così squilibrata rispetto alla narrazione collettiva del calcio – che storicamente, nonostante nasca come passatempo per studenti inglesi di college per benestanti, conserva l’immaginario di sport universale e “di tutti” – avrebbe scatenato queste reazioni, mettendo i club fondatori della Super Lega in una posizione potenzialmente molto rischiosa. Le risposte sono molteplici, ma partono tutte da una motivazione precipua: i soldi.

Nelle ultime 48 ore scarse l’accostamento fra calcio e denaro sembra essere diventato una forma di apostasia intollerabile, ma che questo sport fosse alimentato e governato dai soldi non è certo una novità. L’architrave di base dell’idea di Super Lega è la seguente: attualmente il grosso dei ricavi per la maggior parte dei club proviene dai diritti televisivi e dalle sponsorizzazioni che federazioni nazionali e continentali stipulano con diversi broadcaster – sia in forma diretta, tramite la suddivisione di somme prestabilite, sia in forma progressiva, tramite il piazzamento e l’avanzamento nella massima competizione europea: la Champions League. I diritti e i compensi degli sponsor vengono distribuiti – anche se in forma già squilibrata – fra i diversi club partecipanti, il che significa che anche i piccoli club hanno diritto ad una fetta della torta, e sono gli organismi federali a gestirne la distribuzione.

Ma il punto è un altro: c’è già una grande differenza fra la mole di denaro che una federazione nazionale è in grado di garantire ai suoi club e i soldi veri, quelli che consentono ai grandi club di alimentare le loro squadre, costruire infrastrutture, e far crescere il brand. C’è uno squilibrio economico enorme non solo fra chi partecipa e chi non partecipa alla Champions, ma anche fra chi partecipa alle prime fasi e chi accede a quelle finali del torneo.

Un altro fattore del problema è che il mondo del calcio è un’industria dove i costi stanno lievitando da decenni senza alcun freno: secondo alcune indiscrezioni le richieste economiche del procuratore di Erling Haaland – stella del Borussia Dortmund il cui debutto nel calcio europeo, per quanto roboante, risale ad appena due anni fa – per il nuovo contratto si aggirano attorno ai 60 milioni lordi all’anno. Fra plusvalenze, costi strutturali, stipendi e acquisizione dei cartellini il calcio moderno è diventato una giungla economica, e se per caso resti fuori per una o due stagione dal giro dei soldi europei l’impatto è potenzialmente enorme. L’indebitamento dei club è ormai da tempo la norma per la partecipazione al calcio che conta. Tutte queste problematiche sono state inoltre ingigantite dagli effetti della pandemia sul calcio, che ha subito un danno economico totale stimato di 5 miliardi di euro. Il Real Madrid, il club più importante al mondo, ha perso 100 milioni di euro la scorsa stagione, e 300 nell’attuale.

Fondando un proprio torneo privato la “sporca dozzina” si tutelerebbe da questo rischio. Si approprierebbe del potere di decidere a chi vendere il proprio prodotto e di suddividere i proventi secondo le proprie regole, eludendo sia le decisioni delle federazioni che le richieste dei club minori (perché di fatto quasi non ci sarebbero). Il quadro grossolano è questo: un format calcistico compresso ma di grande qualità, ad osmosi ridotta, con le più forti squadre europee che si affrontano settimanalmente e che cercano di bilanciare le forze fra loro in modo da rendere il torneo il più combattuto possibile.

Il modello mai nascosto è quello del sistema sportivo americano, come l’NBA: una lega oligarchica di franchigie fisse, che però si spartiscono i proventi in maniera equa e beneficiano tutti di un sistema che ricompensa i membri più deboli (attraverso il diritto di prelazione sui giovani talenti emergenti) e mantiene alta la competizione con i tetti salariali: nessun club si può permettere di acquistare tutti i giocatori più forti. Nell’NBA, per capirci e fare un paragone grossolano e a grandi linee, Haaland o Mbappè non sarebbero stati tesserati dalle squadre più forti, ma dalle ultime in classifica.

In realtà quasi niente della Superlega è noto attualmente: non si sa quali saranno i veri proventi dei diritti e delle sponsorizzazioni, non si sa effettivamente quali dei principi effettivi dei sistemi di riferimento verranno adottati, e non si sa nemmeno se e quando partirà. Quello che sappiamo, invece, è che non è un’idea nuova: il primo ad ipotizzare un progetto del genere fu Berlusconi nei tardi anni Ottanta, che insieme ad Antonio Giraudo continuò a riproporla per tutti i Novanta, portando avanti una proposta che presidenti come Florentino Perez e Andrea Agnelli hanno ricominciato a pianificare negli ultimi tre anni.

La verità è che la Superliga sembra essere il prodotto di un processo che il calcio moderno sta mandando avanti da due decenni. Per quanto i tifosi, i calciatori e tutti gli altri che in queste ore si stanno esponendo per denunciare l’ingiustizia del progetto possano avere ragione, si stanno appellando ad un ideale di questo sport che non esiste da molto tempo. Basterebbe guardare i fatti, e la storia recente del calcio, per capirlo.

Meritocrazia, competizioni aperte, lavoro, sudore, idee, “Davide che batte Golia” – tutti concetti molto belli, e che per molto tempo hanno davvero innervato una parte importantissima di questo sport. Gli esempi si sprecano: il Celtic che nel 1967 vinse la Coppa dei Campioni con una squadra interamente formata da giocatori cresciuti a Glasgow; la grande Ajax degli anni Settanta, che con il solo apporto del vivaio e delle idee dominò l’Europa; la favola del Nottingham Forest nel 1979, o della Stella Rossa nel 1991. Tutte bellissime storie di sport, che però non esistono più da tempo.

Analizziamo i fatti: già dalla stagione 1999-2000 – quando l’accesso alla Champions League è stato allargato a più squadre provenienti dai campionati più importanti – l’impatto della ricchezza ha cominciato a tagliare fuori una parte di club dalla vittoria finale. La possibilità delle squadre dell’est Europa di competere davvero, ad esempio, è stata annientata: dal 1999 al 2021 solo 11 volte quei club hanno superato i gironi, e in solo un’occasione uno è arrivato ai quarti (il CSKA Mosca nel 2010). Dal 1977 al 1999 invece – nello stesso lasso di tempo – le squadre dell’est Europa si erano qualificate 37 volte ai quarti, 12 alle semifinali, 3 volte alla finale e avevano vinto due volte (lo Steaua Bucarest nel 1986, la Stella Rossa nel 1991). Un’intera parte del continente, insomma, è stata estromessa dal potere economico e nessuno si è indignato: perché i sogni dei tifosi di Belgrado valgono meno dei sogni dei tifosi di Leicester?

E la situazione si è aggravata di anno in anno: attualmente per un piccolo-medio club come l’Atalanta o la Roma è impossibile vincere la Champions League come era invece successo all’Aston Villa nel 1982. O meglio: possono competere, certo, con le stesse probabilità di successo di un’apecar che corre un Gran Premio di Formula 1. Certo, esistono ancora begli esempi come l’Ajax della stagione 2018-2019, che è arrivata in semifinale – non fosse per il fatto che nei mesi successivi ha finito per vendere tutti i suoi migliori giocatori.

Anche squadre prestigiose come l’Inter e il Milan, tra i club fondatori della Super Lega, è improbabile che tornino al successo in Europa nel prossimo futuro. E questo perché le prime 4-5 squadre d’Europa hanno la capacità di sopportare un monte ingaggi troppo superiore, e possono mantenere formazioni composte dai giocatori più forti per anni. Possiamo raccontarci tutto quello che vogliamo riguardo al gioco e alla tattica, ma uno dei motivi principali che hanno consentito al Real Madrid di vincere quattro delle ultime Champions League è stata la capacità di pagare contemporaneamente lo stipendio a Cristiano Ronaldo, Benzema, Modric, Marcelo, Sergio Ramos, Kroos, Varane e via dicendo, per 10 anni. Senza essere costretto a vendere nessuno.

Il vero paradosso di questa situazione, insomma, è che rispetto alla realtà attuale del calcio europeo anche una proposta incredibilmente brutta e ingiusta come la Superliga appare più equa. Perché si tratterebbe di un’elite di 15 squadre che si contendono la vittoria, non di un’elite di 5. Invece di porsi a garante di un sogno che non esiste più nella realtà, la UEFA dovrebbe reagire a questa pessima situazione facendo mea culpa e cercando soluzioni per rendere il calcio meno grottesco. Perché se è vero che la “sporca dozzina” si sta arrogando il diritto di decidere della totalità del calcio con insopportabile arroganza, è anche vero che si è limitata a indicare l’elefante nella stanza. La Super Lega, insomma, nasce come diretta discendente del calcio attuale.