Kitchen Confidential ne fa venticinque. Da un quarto di secolo, il racconto collettivo della cucina (e delle cucine) ha cambiato registro. Anthony Bourdain, il suo autore, scrisse cinque romanzi, cinque opere saggistiche, e due libri di cucina. Era un cuoco, una personalità mediatica, un conduttore televisivo. Mangiò con Barack Obama ad Hanoi come parte della sua serie No Reservations, gioco di parole tra l’andare in posti per cui non era necessario prenotare, e il mettere il cuore a nudo durante il pasto. Si uccise nel 2018. Non fu il primo celebrity chef, però è stato, credo, l’esempio-principe di ciò che la celebrità fa a un cuciniere.
Su Bourdain stanno preparando un biopic. Ci saranno Dominic Sessa e Antonio Banderas, si dovrebbe chiamare Tony e dovrebbe raccontare un anno-cardine nella vita del protagonista: il 1976, un’estate lavorativa a Provincetown, Massachussetts, durante gli studi al Vassar College. La decisione di darsi alla cucina, che in altre parole significa farsi tirare a pezzettini dal lavoro più disumano, affascinante e pericoloso che gli esseri umani si siano inventati.
Che poi effettivamente assomiglia più a un regolamento di conti tra carcerati, ficcarsi tra i fornelli. Ex galeotti, scappati di casa, expendable, elementi di disturbo relegati alle cucine per nasconderli, trovare loro un posto, farli sfiancare. Toglierli dalla vista, metterli a fare “qualcosa di utile”. Anthony Bourdain non avrebbe avuto bisogno di tutto ciò. Nacque a Manhattan nel 1956 (il 25 giugno, sotto il segno del Cancro), il padre executive di una label di musica classica, la madre editor del New York Times. Descrisse così la sua crescita (in Medium Raw: A Bloody Valentine to the World of Food and the People Who Cook): «Non mi mancarono né amore né attenzioni. I miei genitori mi amavano. Nessuno di loro beveva a sproposito. Non mi picchiavano. Non menzionavano mai Dio, quindi non fui mai toccato dalle nozioni di una Chiesa, del peccato, della dannazione».
Però mi fermo qui: è inutile fare i tombaroli dei morti, resuscitarli allo scopo dell’ego. Alla fine, avere la pretesa di squadrare qualcuno, e l’animo loro informe, è puro piacere personale. Anche perché così dichiara la ex assistente di Bourdain, Laurie Woolever, intervistata da Eater (e autrice di Bourdain: The Definitive Oral Biography a ruota della sua scomparsa): «Credevo davvero di sapere tutto di Tony, il che, retrospettivamente, era ingenuo. Ma stavo riemergendo dalla nebbia del lutto, e c’era anche il fatto del lavoro che mi legava a lui, che avevo perso. Mi sembrava di sapere perfettamente che cosa stesse accadendo. Naturalmente non era così».
Solo cucinare, scrive Bourdain nell’introduzione a Kitchen Confidential, fornisce certezze. Una sequenza di certe azioni produrrà un certo risutato, e non un altro. È un algoritmo. Le persone non lo sono, figurarsi in cucina. Eppure, sempre il nostro: «Credo da tanto tempo che il buon cibo, e il ben mangiare, abbiano a che fare con il rischio».
Chi cucina, si chiede in uno dei capitoli del memoir. Anzi lo chiede al lettore, ne informa il lettore. «Potreste avere l’impressione, dai connotati della mia carriera per nulla stellare, che quando si parla di cuochi di linea si tratti di degenerati morali, drogati criminali, rifugiati, e di un brutto cumulo di ubriaconi, ladruncoli, prostitute e psicopatici. Non vi sbagliereste di tanto. Il ramo, come ha spiegato il rispettato chef tre stelle Scott Bryan, attrae “elementi marginali”, persone le cui vite sono andate terribilmente male. […] O magari, come me, hanno piacere a stare qui. Si trovano a loro agio con un codice di condotta piuttosto rilassato e informale, e con gli elevati livelli di tolleranza nei confronti dell’eccentricità, comprese strane abitudini personali, mancanza di documenti ufficiali, e fedine penali sporche».
Il grande popolarizzatore della cucina e delle cucine, stringendo nel guscio di una noce, ha lasciato questa lezione. Il resto è fantasia, speculazione, nostra volontà demiurgica.
Insomma per dire che Anthony Bourdain la cucina se l’era scelta, e con esprit de finesse maggiore dei colleghi, che a differenza sua se l’erano vista appioppare, l’ha voluta leggere attraverso la sua, di lente. Voleva scrivere, si vedeva. Qualche idea era stata respinta, prima del boom del Duemila, Kitchen Confidential. Il sottotitolo recita: Adventures in the Culinary Underbelly, avventure nel sottobosco (anzi, sottopancia) culinario. È appropriato. È un’autobiografia sociale e ancora oggi una lettura di intrattenimento intelligente e provocante.
Anche perché, alla fine, provate a parlare off the record con un cuoco: questo suona, quello scrive, l’altro chissà. Il cuoco umanista è un tipo umano sdoganato. Bisogna avere del grip, sulle cose dell’anima, per poter soddisfare almeno lo stomaco. E questa è una controintuizione che regge la prova dei fatti ma pure del palato. Alcuni però, probabilmente come Bourdain, che per sua ripetuta ammissione non era un eroe del fornello, e visto che non sa di falsa modestia io ci credo pure, funzionano meglio quando fanno il cosiddetto crossover.
Dipende dalle modalità, però. Perché se scaraventi qualcuno che non è pronto sotto le luci della ribalta, ti si brucia. Lo sa lo showbiz musicale italiano, per dirne una. Dopo Kitchen Confidential un mezzo sconosciuto, a complete unknown come Anthony Bourdain, venne buttato sul palcoscenico. Era la voce di una verità di cui eravamo affamati senza saperlo. Era un buffo self-made man all’americana. Aveva un flavour europeo. Più di tutto, Bourdain è sempre apparso come un capro espiatorio. Mica un martire, quello lo fanno di buon grado. No: proprio uno che se la deve accollare.
Se l’è presa tutta addosso, come da copione. Come da copione è arrivato quello che Kitchen Confidential, un’opera sostanzialmente solare se non proprio ottimista, vitale e ravvivata (con una prosa di un certo talento), non avrebbe potuto prevedere. Il germe forse non mancava. L’esecuzione, però, è un’altra cosa. E come una cosa diversa, quella che non saremmo in ogni caso in grado di comprendere, abbiamo seguito Bourdain fino all’estremo. Pensando che noi avevamo bisogno di lui, di certo non il converso.
Chissà. La corona è pesante, quando si viene eletti senza aspettarselo. La cosa buona è che non ci ha mai chiesto di lucidarla: ancora oggi, leggendo Kitchen Confidential, sappiamo che è la maggiore verità su Anthony oltre Bourdain. Accontentiamoci di questo e di una rilettura. Andiamo in pace.