Da alcuni anni ho iniziato a provare una sorta di disagio per il Negroni. Un tempo ero un cultore del drink inventato dal Conte fiorentino poiché sentivo di averlo compreso veramente, ma con il tempo l’incantesimo è svanito ed è subentrato un forte distacco. Forse per il mal di testa che mi svegliava il giorno dopo, forse perché era sulla bocca di tutti, ho deciso che fosse meglio “frequentare altri drink”.
Un giorno, mentre mi trovato a Stresa al bancone del bar del Grand Hotel des Iles Borromées, sulle orme di Hemingway che lì aveva soggiornato due volte e ambientato parte del suo Addio alle armi, ho capito che era arrivato il tempo del Martini. Non nascondo che ciò è stato possibile anche grazie alle parole dello stesso Hemingway, il quale da sapiente nonché smodato bevitore quale era, nelle pagine del romanzo descrive quello servito in questo hotel come «fresco e pulito». Niente intrugli colorati, niente fregature con cubetti di ghiaccio giganti e, per quanto mi riguarda, niente mal di testa il giorno dopo. La sensazione che accompagnò il momento in cui capii che era cambiato qualcosa la descrivo semicitando le parole del Colonnello Kurtz: «Come fossi stato colpito da un diamante, una pallottola di diamante in piena fronte e ho pensato: mio Dio che genio c’è in questo cocktail!». La frase si confà bene anche per la formula con cui Truman Capote ribattezzò il Martini: una «pallottola d’argento».
Non si beve un Martini alla ricerca di una sbronza triste, a meno che tu non sia Cameron Diaz in Vanilla Sky. È noto inoltre che è considerato metro di giudizio della civiltà del luogo e della persona, e che i suoi consumatori fanno parte di un club esclusivo il quale al suo interno conta più correnti della Democrazia Cristiana. Chi lo beve con il gin, chi con la vodka. Chi lo prende normale, chi dirty. Chi ci vuole un’oliva, chi due, chi tre, chi la cipollina, chi la scorza di limone, chi non ci vuole proprio niente e forse il vermut è pure di troppo. Una cosa è certa, quando bevi un Martini sai che stai bevendo qualcosa di importante e che al primo sorso ti deve togliere il fiato. Delle volte viene servito così al limite del bordo del bicchiere che si è costretti a piegarsi per il primo bacio. Se fosse una limonata a Napoli sarebbe “a cosce aperte”, ma visto che parliamo di Martini meglio dire “inchino”. Tutto è rituale quando si parla del Martini, dalla preparazione alla consumazione, ma alcune regole sono fondamentali e mettono d’accordo tutti: il bicchiere e il suo contenuto devono essere ghiacciati e del vermut solo un’idea.
Veniamo a oggi. A quanto pare il Martini cocktail sta tornando alla ribalta. Classifiche, ispezioni e twist bizzarri (soprattutto made in USA) stanno certificando il ritorno di questo evergreen, che ovviamente ha iniziato la sua nuova ascesa partendo dal palcoscenico newyorkese. Lo si fa piccolo anzi da shot, lo si fa per flexare ma pure da mangiare, lo si usa come elemento ritmico al cinema, ci si sfida a trovare quello che sta meglio con quale hamburger. Altri, semplicemente, lo cercano più freddo che in altri posti (tratto comunque non da poco). Sabrina Carpenter, invece, ha ripreso l’adagio di qualche anno fa: Espresso Martini is so back, e ne ha fatta una sua versione per lo scorso Natale.

Martini al Minetta Tavern di New York. Foto: Niccolò Sandroni
Io che sono soltanto un umile bevitore di questo nettare (come lo chiama Arrigo Cipriani), e che non abito a New York, mi sono fatto questa domanda: come si stanno comportando i bar di Milano, luogo che bazzico più di frequente, di fronte a questo ritorno? Ma poi perché Milano? Be’: da sempre è considerata l’unica metropoli d’Italia – o almeno così ce l’hanno venduta – e da lei ci si aspetta molto, dato che molto costa viverci. Quindi, come sono i Martini da queste parti? Insomma. Fare un’elencazione completa sarebbe un’utopia e potrebbe provocare danni al fegato, ma da un campione abbastanza corposo di locali devo dire che pochissime volte sono rimasto soddisfatto, poiché il Martini veniva servito senza rispettare le regole di cui sopra e non aveva niente di quel “fresco e pulito” di cui parlava Hemingway.

I Martini di Bemelmans a New York. Foto: Niccolò Sandroni
Facciamo qualche esempio (e se tra un sorso e l’altro voleste ripassare la storia del Martini cocktail, accomodatevi). Marchesi, in via Santa Maria alla Porta, è da tutti riconosciuto come una delle maggiori espressioni di benessere in città. Che delusione scoprire che non c’è nessuna sfida al primo sorso del loro Martini e che il liquido scende giù, quasi tiepido, senza dare alcuna sferzata alla giornata. Marchesi, com’è noto, fa parte del gruppo Prada e dentro questa grande realtà troviamo anche un altro posto dove si possono gustare Martini. In vetta alla Torre della Fondazione Prada c’è un elegante bar con ristorante e qui va riconosciuto che i Martini lasciano maggiormente soddisfatto l’avventore. Avevo raccolto buone recensioni per Carico, in via Savona, ma anche qui ho trovato un cocktail troppo facile e freddino. Pensando fosse un errore del momento, subito dopo ne ho chiesto un altro e ho avuto invece conferma del primo assaggio. Uno dei plus del posto era una “Martini room”, ma quando l’ho visitato io purtroppo questa stanza aveva cambiato intestazione, ora infatti è dedicata al Negroni. Peccato, la solita storia della persona giusta al momento sbagliato.
Il capitolo “hotel” meriterebbe invece una trattazione a parte: si distingue per un ambiente più riservato con prezzi alti e risultati pregevoli, come nel caso del Mandarin Oriental, ma vale la spesa? Non ne sono sicuro. Il Gerry’s Bar, che si trova all’interno del Grand Hotel et de Milan in una cornice fin de siècle, ha un listino più contenuto, purtroppo però i Martini sono di nuovo timidi. Le cose vanno meglio al Bar Rumore presso l’hotel Portrait, ma ancora una volta non siamo del tutto soddisfatti.
C’è una frase che può aiutare a capire quanti Martini è giusto bere ed è attribuita alla scrittrice Dorothy Parker: «Mi piace bere un Martini, al massimo due. Dopo tre sono sotto il tavolo, dopo quattro sono sotto il mio ospite». Quindi, se ne bevete più di due mantenendo un certo decoro, o siete allenati o il drink è debole. Di sicuro se ne possono bere massimo due, perché superbamente realizzati, da Biffi in Corso Magenta. Questa storica pasticceria li serve a regola d’arte, con il bicchiere tenuto in freezer fino all’istante prima di versare il contenuto del mixing glass. Dopodiché, seguendo il cerimoniale, c’è il famoso inchino da fare tanto è ricolma la coppa e quindi il primo sorso: eccola, finalmente, la sferzata che cerca il bevitore di Martini! In via Plinio, zona Lima, troviamo invece un outsider dal nome accattivante che ricorda la Milano dei fratelli Vanzina, il Caffè Moda Plinio. Assurto agli onori dei social grazie all’account Instagram di Posti sinceri, ha interni in legno con finiture oro e sedute d’antan, inoltre è anche tabaccheria e ricevitoria lotto, nel caso si decidesse di aggiungere qualche vizio. Il suo cocktail si caratterizza per una disarmante semplicità e un’estetica adamantina. Consono allo spirito del locale, possiamo quindi definirlo un “Martini sincero”.

Il Martini del Caffè Moda Plinio a Milano. Foto: Niccolò Sandroni
Da Dry Milano in via Solferino, dove i drink danzano insieme alle pizze, ho avuto un’esperienza spumeggiante in occasione della masterclass di Iain McPherson, tra i bartender più influenti al mondo nonché titolare di Panda & Sons a Edimburgo, tra i cocktail bar attualmente iù quotati a livello internazionale. Durante l’evento serale mi sono fatto coraggio e ho chiesto all’eccezionale barman un fuori menu, cioè un Martini extra extra extra dry. Posso ritenermi soddisfatto, Iain è il Christopher Nolan dei mixologist e nel suo locale di Edimburgo fa un uso quasi fantascientifico del ghiaccio. Un esempio è la tecnica della “cryo-concentration” attraverso un congelamento direzionale: viene cioè portata a solidificazione solo la parte superiore dell’ingrediente – come un succo – così da isolare e quindi rimuovere la sua componente di acqua e ottenere un sapore più intenso. L’occasione era ghiotta e dopo alcune bevute gli ho fatto tre domande.
Arrigo Cipriani, proprietario dello storico Harry’s Bar di Venezia, indica questa preparazione: prendere una bottiglia di Gordon’s Gin, versarci dentro 20g di vermut, chiudere la bottiglia e agitarla un paio di volte, poi riporla in freezer fino a quando non è gelata. Tutto qui. Il ghiaccio non è ammesso, «diluirebbe il nettare». Niente olive, cipolle o scorze di limone, «scuse per far sembrare buono un Martini mediocre». Che cosa ne pensi?
Trovo questo metodo molto valido, è stato bello che il Maestro (Salvatore Calabrese) lo abbia reso popolare nella storia del bartending moderno. Potrebbe essere visto come l’opposto dell’approccio di Panda & Sons, ma in realtà evidenzia i benefici delle temperature sotto zero per sapore e consistenza! Più approcci diversi utilizzano il congelamento per il sapore, meglio è.
Da Dry Milano i cocktail sono abbinati alle pizze. Negli Stati Uniti (e non solo), i Martini sono spesso serviti a fianco di bistecche o hamburger. Secondo te, qual è il piatto più interessante da abbinarci?
Adoro l’accoppiata pizza-Martini del momento, il gin Fords sta facendo un ottimo lavoro nel valorizzarla, soprattutto negli Stati Uniti. Amo anche l’abbinamento Martini-ostriche, penso che sia un modo fantastico per esaltare i sapori di entrambi.
Quali sono i posti imperdibili per bere il Martini?
Per la teatralità, non c’è davvero niente di meglio del Connaught di Londra. Quello che fanno Ago e Giorgio è fantastico. Credo anche che quello che facciamo noi, il Panda Martini, sia eccellente. Qui utilizziamo il nostro metodo di congelamento chiamato “Switching” in cui estraiamo un po’ d’acqua dal gin e la sostituiamo con spirito di betulla per aggiungere più profondità e consistenza, oltre a un tocco di zafferano e vermut bianco. Al Live Twice di Singapore invece preparano il miglior Vesper che abbia mai provato.
Per concludere aggiungo anche io qualche locale, ma non a Milano. Se vi capita di andare nella patria putativa del Martini, cioè a New York, dove come detto il cocktail sta vivendo un nuovo successo, potete bere ottimi esemplari da Bemelmans, al Chelsea Hotel, da Minetta Tavern e al Grand Central Oyster Bar. E qui chiudo questo breve ma denso (soprattutto per lo stomaco) tour dei Martini di Milano, che è poi solo una scusa per uscire e speculare con uno stuzzicadenti. Un’ultima cosa: ovunque voi siate, se possibile, chiedete di stare al bancone.