Venerdì 4 luglio e sabato 5 il Festival Internazionale di Danza debutta ai Parchi di Nervi, sua cornice naturale estiva. Il palco appoggiato tra mare e cielo, il rumore del treno, il ronzio delle zanzare anche, e forse il verso di una civetta. Hugo Marchand, étoile del Ballet de l’Opera de Paris, se lo augura, alfiere e appassionato della danza “en plein air”. «È meraviglioso portare la danza sotto la luna, con un volo di civetta che può attraversare la scena. È questa la sfida che perseguiamo anche con la mia Fondazione Hugo Marchand Pour la Danse», afferma.
Il Maestro Luigi Bonino, esperto e pratico, spera invece che si possa trovare una soluzione per l’umidità sul palco: «c’è una patina che aumenta con l’inoltrarsi della sera. Alle 20 si scivola, alle 21, quando la gente entra e si siede, si prega di non ritardare e di non cadere, alle 21:30 si va in scena, e i muscoli si contrarranno per contrastare quella malefica patina di afa». Sarebbe un peccato veder capitolare gli illustri ospiti che animano questa prima serata nei Parchi di Nervi, per scongiurare l’effetto “l’étoile cadente”, quindi, una squadra di sei volenterosi asciugherà il palco tra una coreografia e la successiva. La maccaia, come la chiamiamo qui a Genova, non dà tregua, in queste roventi serate di luglio, e ha infine costretto la direzione artistica a sostituire la creazione Into the Night di Jerome Robbins con una classica e forse meno scivolosa Morte del cigno, interpretata dalla solista Dorothée Gilbert, per la coreografia di Michel Fokine.
.
La scelta delle performance promette bene, anzi benissimo. Il Ballet de l’Opéra National de Paris, ça va sans dire, punta su un repertorio neo classico, portando in scena le firme dei più prestigiosi coreografi del novecento: Viktor Gzovskij, Roland Petit, Angelin Preljocaj, e una Rajmonda di stampo russo, ripensata dal Nureyev fuggito in Occidente. Il livello è top, come vuole il direttore artistico Jacopo Bellussi, in missione per sedurre con la danza il pubblico della sua città. Sta seduto in platea, mischiato allo sventolio dei ventagli, il suo sguardo è fisso al palco, il collo lungo ma leggermente contratto… Accanto a lui Maina Gielgud, storica musa di Maurice Béjart e madrina del Festival, sembra sussurrargli: «Andrà tutto bene, o meglio: merda merda merda!». È presente anche la sindaca Silvia Salis, forse seccata per uno sciopero proprio ai Parchi di Nervi, indetto quasi senza preavviso, quella mattina.
Quando le ultime bave di luce inquadrano il palco, sotto uno spicchio di luna e una nave merci al largo che dondola ma sembra immobile, la magia prende vita sull’umido palco, in perfetta sintonia con l’apoteosi della tecnica. È un atto di devozione il Grand pas classique che il coreografo e danzatore russo Viktor Gzovskij creò e dedicò alla sua musa, l’étoile Yvette Chauviré. Era il 1949 quando fu ideato ma sembra oggi, ammirando lo stile e i virtuosismi dei solisti Bleuenn Battistoni, francese dal cognome nostrano, e Francesco Mura, orgogliosamente solista all’Opéra, from Pistoia. Danzano come rare lucciole, illuminando ogni passo sugli accenti di le Le Dieu et la Bayadère, partitura di Daniel-François-Esprit Auber.
Il cigno morente attraversa dopo di loro la scena, dispiegando braccia infinite, polsi che sbocciano, una linea del collo che tutte le signore in sala vorrebbero avere. Si accoccola tra le sue piume, prima di lasciarci, riappacificando il pubblico con la morte più poetica del balletto, che non smette di emozionare. Quando entrano in scena, l’abito giallo indossato dall’étoile Roxane Stojanov (la Morte) e la salopette con dentro il corpo di Hugo Marchand (le jeune homme) comincia il racconto della terza creazione in programma, Le jeune homme et la Mort, firmata Roland Petit.
«Per Roland Petit la danza era narrazione, a ogni gesto corrispondeva una parola, a ogni sequenza un frase, un’emozione o meglio: un sentimento». Luigi Bonino, “le petit italien” che divenne il braccio destro del coreografo francese, ricorda con gioia la poetica del suo Maître, e se dovesse trovare la parola adatta per questa creazione, sceglierebbe “angoscia”. «In Le jeune homme e la Mort questo ragazzo è tormentato, ammaliato, ma quasi torturato dall’immagine di una donna che indossa un abito giallo. Non si capisce se lei esista davvero, se sia soltanto nella sua testa o cosa… Di sicuro non gli dà pace, fino a spingerlo al suicidio».
Non è allegro il testo di Jean Cocteau a cui è ispirata la coreografia, ma specchio di quei codici culturali che animavano Parigi all’inizio del secolo scorso. Luigi Bonino ha il compito di montare e rimontare il balletto da quando Roland Petit non c’è più, e mi ricorda di quando il coreografo francese, a una settimana dal debutto, cambiò idea perfino sulla musica, preferendo Bach alla partitura jazz su cui gli artisti avevano fino ad allora provato. «Eppure con Roland Petit ci si divertiva tanto», ricorda Bonino, «ma tanto… Era un uomo divertente, sorprendente, contraddittorio, ispirato, ironico». Un po’ sadico?, lo interrompo io, riferita allo scherzetto del cambio musica. «Anche, forse…», sorride Bonino. «Pensa che mi ha sempre dato del lei, per trent’anni!», nonostante una vicinanza consolidata e un rapporto speciale anche con la moglie, la famosa ballerina Zizi Jeanmaire, «di cui era gelosissimo: “Che cos’avrete sempre da parlare”, ci ripeteva, un po’ scocciato…».
Perché, in questa creazione, la Morte è vestita di giallo?, chiedo al “petit italien”: yellow is the new black? Bonino non sa rispondere, non commentarono mai con Roland quel costume di scena, ma rilancia raccontandomi perché le jeune homme indossi la salopette: «Il danzatore Jean Babilée, che ispirò e danzò per la prima volta il ruolo nel 1946, arrivava sempre in ritardo alle prove, indossava spesso una salopette, era appassionato di moto e non solo. Entrava come un matto in sala prove, trafelato, s’infilava le scarpette da danza e provava». “Ecco il costume di scena del pittore jeune homme“, risolse un giorno il Maestro, “così se arriva in ritardo alla prima non deve neppure cambiarsi!”. E così fu.

Hugo Marchand balla ‘Le jeune homme et la Mort’. Foto: Ann Ray
Oggi Hugo Marchand, suo successore, statura da cestista, fascino e bellezza principesca, mi spiega qual è, danzandolo, il gesto più significativo di quella creazione, il movimento che racconta l’essenza dell’uomo tormentato: «Durante l’assolo iniziale, con le mani sul cuore, faccio un ronde de jambe, e poi un arabesque, allungando la mano verso l’alto, con una specie di salto. Questo gesto, anelare verso l’alto, rivela una condizione tormentata, da cui il pittore vorrebbe liberarsi. È un gesto disperato ma pieno di speranza».
Ecco l’angoscia che commentava Bonino, suo coreografo, ma ecco anche una lettura diversa della donna in giallo, che aumenterà il suo male di vivere. Riflette Hugo Marchand: «Lei è la Morte, secondo il testo di Cocteau, ma io la definirei anche depressione, in quanto questa donna intrappola il pittore, lo seduce, lo insidia, gli strappa l’entusiasmo della giovinezza, e infine vince, inducendolo alla morte». Marchand ha ballato la prima volta questo ruolo subito dopo il Covid, nel giugno del 2021, all’Opéra di Parigi, quando i teatri riaprirono, la vita ricominciò. Ricorda ancora con disagio quel periodo: «Avevo paura di non poter più danzare, di non poter più entrare in un teatro, che niente avesse più senso. Io sono una di quelle persone felici nel fare, nel progettare. Il Covid mi aveva spento».
Dopo cinque anni, abbiamo la fortuna di vederlo danzare più sereno, flessuoso come un gatto e sempre orgoglioso, intelligente e riflessivo su ciò che sta facendo. «Essere un étoile, un ballerino, non significa che io sia un uomo diverso dagli altri. Noi danzatori siamo uomini e donne come gli altri, che fanno altri mestieri. Abbiamo bisogno anche noi di sfogarci, di allontanarci dalla perfezione, di ridere, di spettinarci». Alla mia domanda successiva, però, s’incupisce: «Non rispondo alla domanda sulla mia sessualità, ed essere etero o gay non è un tabù per noi, come non dovrebbe esserlo in nessuna professione». Fluido, elegante, e un po’ “en dedans” sul piano personale, è di sicuro un artista che non solo brilla nel firmamento della danza internazionale, ma che pensa, progetta, vive, ama. «Come te», conclude, che resto in modalità “zitta e bona” anche quando mi giura che il suo guilty pleasure è soltanto «fare camping», niente di più trasgressivo.
Che cos’è mai un bacio? Lo suggeriva Cyrano de Bergerac a Cristiano, per conquistare la bella Rossana. Lo abbiamo chiesto anche ai solisti dell’Opéra che in Le parc, rivisitazione della Bella addormentata secondo il grande coreografo albanese Angelin Preljocaj. I ballerini qui si baciano, su partitura di Mozart, per tutta la durata di uno dei pas de deux più sublimi e meglio riusciti della storia della danza. Per Ludmila Pagliero, «il bacio è qualcosa che non puoi controllare (anche se lei deve controllarlo, abbracciata al ballerino, sollevata da terra, en tournant, nda), è la tua promessa a qualcun altro, è l’espressione di un desiderio che vorresti non finisse mai». Per Mathieu Ganio, «il nostro bacio sul palco è l’immagine che il pubblico si porta a casa, è il momento che preferisco, è un privilegio ballare questo romantico pas de deux. Personalmente il bacio è il gesto più intimo che puoi condividere con chi ami».
Augurando a tutti di baciarsi il più possibile, ammesso anche il bacio “alla francese”, il Ballet de l’Opéra conclude la sua serata a Genova con un classico del repertorio russo: Rajmonda, l’ultimo grande balletto collettivo di Marius Petipa, creato alla fine dell’Ottocento al mitico teatro Marinskij di San Pietroburgo sulla partitura di Aleksandr Glazumov. Fu però grazie a Rudolf Nureyev che s’impose sulle scene europee ed occidentali: «Fu il Divino», come lo ricorda Luigi Bonino, «a rimontarlo proprio sui palchi parigini, un secolo dopo la sua creazione».
La storia è abbastanza un classico: Rajmonda ama il cavaliere Jean de Brienne, ma è insidiata dal capo dei Saraceni, Abderam. Con Nureyev però tutto cambia: la danza diventava passionale, carnale quasi. Il vigore russo e la poesia del “vecchio mondo” furono rimescolate al servizio di un artista che sapeva fare tutto, danzare tutto, convincere tutti. «La sua mano nella mia, non lo dimenticherò mai», ricorda ancora Luigi Bonino, «quando ballammo Notre Dame di Roland Petit insieme: io ero Frollo, Nureyev era Quasimodo, la Makarova era Esmeralda.
Proviamo ad immaginare quel balletto, gli applausi, le mani strette di cotanti artisti. «Allora danzavamo con il cuore aperto, spalancato», si emoziona Bonino, ricordando quella serata. Mi prende la mano, me la stringe: «Eravamo così, capisci, uno accanto all’altro, la mia mano stretta nella sua. Rudolf Nureyev era stupendo, era come Mick Jagger, di un altro pianeta». Anche lei Maestro, mi han detto, non era malaccio, lo incoraggio io, e concludo: e se non avesse fatto il ballerino, avrebbe fatto il camionista come suo padre? Sorride e abbassa gli occhi: «Se non avessi fatto il ballerino, non avrei fatto niente».