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Renzi si dimette e si ricandida, ed è subito scissione

Matteo Renzi lascia la segreteria dal Partito Democratico e annuncia il Congresso entro quattro mesi, ma la minoranza dà la rottura come inevitabile. Analizziamo cosa è successo e cosa succederà all’interno del Partito Democratico

Ci vorrebbe un miracolo e forse non basterebbe più neppure quello. Falliti lunedì sera gli ultimi tentativi di mediazione per l’indisponibilità del segretario Renzi a posticipare il congresso – e per quella della minoranza a restare nel partito senza un ripensamento sulla data e sulle modalità del congresso stesso – la scissione del PD si compirà oggi, anche se verrà formalizzata con la creazione di gruppi parlamentari autonomi solo fra qualche giorno.

I dissidenti avevano deciso di rinviare il passo fatale in attesa della relazione di Renzi di fronte alla Direzione del partito, convocata oggi per avviare l’iter del congresso. Spiazzati dalla mancata replica del segretario al termine dell’assemblea nazionale di domenica scorsa, attendevano risposta alle loro critiche e alle loro richieste nella relazione di oggi: più per poter addossare a Renzi e ai suoi dinieghi la responsabilità della scissione, che per vera speranza. Quando, lunedì sera, il segretario ha fatto sapere che, in quanto dimissionario, non avrebbe parlato oggi e forse neppure partecipato alla Direzione, la partita si è di fatto chiusa. La minoranza ha deciso di non presentarsi a propria volta e di non entrare a far parte degli organismi congressuali. Un passo senza ritorno che equivale a dichiarare la scissione.

Usciranno l’ex segretario Pier Luigi Bersani, l’ex capogruppo alla Camera Roberto Speranza, il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi e con loro, salvo ripensamenti in extremis, circa 25 deputati e 15 senatori. Ancora incerta, invece, la scelta del governatore della Puglia Michele Emiliano, molto tentato dall’idea di restare nel partito e sfidare Renzi alle primarie, che si terranno tra il 7 aprile e il 7 maggio. Anche se con poche speranze di vittoria, la sfida diretta garantirebbe infatti al presidente della Puglia un ruolo di primo piano nel partito e una massima visibilità a livello nazionale.

I gruppi parlamentari verranno presentati ufficialmente solo venerdì o forse addirittura lunedì prossimo. Alla Camera si aggiungeranno ai fuoriusciti dal PD 16 deputati provenienti dalla ex SEL di Nichi Vendola che hanno deciso di non aderire al nuovo partito, Sinistra Italiana, nato dalle ceneri di SEL al congresso di Rimini lo scorso week-end. Tra questi anche il capogruppo Arturo Scotto, che verrà sostituito alla guida del gruppo di Sinistra Italiana alla Camera da un giovanissimo, Erasmo Palazzotto, classe 1982.

Anche se la decisione finale non è ancora stata presa, i nuovi gruppi dovrebbero chiamarsi, provvisoriamente e in attesa che venga trovato un nome per il partito nascituro, “Uguaglianza e Libertà. Per il il Centrosinistra”. La scelta di rinviare la presentazione ufficiale e dunque la formalizzazione della scissione, serve a evitare un probabile incidente di percorso coincidente con il debutto. Il nuovo partito intende infatti sostenere a spada tratta il governo Gentiloni. In questa settimana si dovrà però votare, con la fiducia, il decreto “Milleproroghe”, osteggiato sinora dai deputati della ex SEL e inviso anche a molti scissionisti del PD. Se i nuovi gruppi nascessero prima di quel voto di fiducia, il dilemma sarebbe pertanto tra un ripensamento improvviso – poco comprensibile per una base elettorale già smarrita e poco adeguato all’immagine “di sinistra” che il nuovo partito intende offrire – e un esordio col voto di sfiducia a un governo che si intende invece sostenere sino alla scadenza naturale della legislatura, nei primi mesi del 2018.

La formazione dei gruppi parlamentari comporterà una mezza rivoluzione sia nei due rami del Parlamento che nella maggioranza che sostiene il governo. Sulla carta la maggioranza sarà più forte di prima, dal momento che il nuovo partito si è già detto deciso a sostenere il governo Gentiloni. Alla Camera, con l’arrivo dei deputati provenienti dalla ex SEL, disporrà di qualche voto in più. Al Senato, la presenza di un nuovo gruppo altererà, a favore del governo, i rapporti di forza nelle commissioni e nella conferenza dei capigruppo. Ma il governo sarà più solido solo in apparenza: nella sostanza, da domani, le cose per Paolo Gentiloni si faranno molto più difficili. Il conte dovrà infatti fare i conti con una maggioranza molto più diversificata di prima al proprio interno, che andrà dall’estrema sinistra degli ex SEL alla destra dell’NCD. Una maggioranza troppo variegata e conflittuale per non rivelarsi difficilmente gestibile e per non lasciar presagire possibili incidenti dietro ogni angolo.

In secondo luogo, senza più dover fare i conti con la minoranza, il segretario del PD avrà le mani libere per cercare di arrivare alle elezioni politiche quanto prima e avrà una ragione in più per accelerare i tempi: impedire che il nuovo partito si rinsaldi e metta radici tanto da diventare un competitor temibile nelle urne.

In realtà, proprio l’esigenza renziana di arrivare a una conta prima dell’estate è all’origine di una scissione che i militanti e il grosso della base elettorale stentano a comprendere. Renzi prevede che le prossime elezioni amministrative, che interesseranno 999 comuni in una data tra il 15 di aprile e il 15 di giugno, registreranno una nuova sconfitta dopo quelle già cocenti delle comunali del 2016 e del referendum. L’ex premier non ha alcuna intenzione di affrontare il congresso indebolito da una nuova batosta.

Per la minoranza, però, arrivare al congresso con Renzi in una posizione di forza tale da rendere certa la sua vittoria equivarrebbe a un suicidio. La sentenza della Corte costituzionale  che consente i capolista bloccati mette infatti nelle mani del segretario la nomina del grosso dei deputati. Senza dubbio tra quei nominati non figurerebbero o quasi esponenti del dissenso interno.

Dopo la scissione, il governo si troverà preso in mezzo tra una parte della sua maggioranza – che farà il possibile per rinviare le elezioni politiche, avendo bisogno di tempo per rinsaldarsi – e il partito più forte, il PD renziano, che invece intende cogliere al volo ogni possibile occasione per provocare la crisi e arrivare a un election day che accorperebbe elezioni politiche e amministrative mettendo così Renzi al riparo dalle eventuali ricadute negative di una sconfitta alle amministrative sulle ben più importanti elezioni politiche.

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