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Questo libro ti insegna ad annoiarti

Ma non è per niente noioso. Se hai perso il controllo del tuo tempo e guardi sempre il cellulare, la soluzione è la noia. E "Come annoiarsi meglio" di Pietro Minto è il libro che fa per te

Questo libro ti insegna ad annoiarti

Foto di Eleonora Agostini

L’impressione di non avere più il controllo del tempo è forse uno dei mali più diffusi della società iperconnessa: la nostra attenzione si disperde nei contenuti infiniti e personalizzati offerti dalle piattaforme digitali, si frammenta nei micro-stimoli a getto continuo di feed, notifiche e altri sistemi progettati per creare dipendenza. Gli algoritmi di YouTube e Netflix come i social network rispondono tutti allo stesso meccanismo di base, e servono allo stesso scopo: tenerci online il più possibile.

Queste continue distrazioni però generano ansia, e spingono alla ricerca compulsiva di un modo per controllare, misurare e “mettere a profitto” il tempo che perdiamo: ci troviamo così imprigionati nel paradosso di un sistema che da un lato fa di tutto per distrarci, dall’altro eleva a unico valore la produttività e la monetizzazione dell’esistente.

Ma come siamo finiti in questa trappola? E come facciamo a uscirne? Un buon punto di partenza potrebbe essere imparare ad annoiarsi, anzi imparare ad annoiarsi meglio. La noia è infatti l’elefante nella stanza quando si parla dei complessi rapporti che legano il lavoro, il tempo libero, l’economia dell’attenzione e la dipendenza da social network: è lei a spingerci tra le braccia dei buchi neri digitali che risucchiano il nostro tempo libero in grandi quantità. Per pigrizia e abitudine, quando abbiamo un momento vuoto, lo occupiamo scrollando

Con un po’ di esercizio e autodisciplina, però, è possibile sottrarre almeno una parte del nostro tempo a questo ciclo senza fine di ansia e insoddisfazione. Ne è convinto Pietro Minto, che per l’occasione ha deciso di uscire da internet – dove scrive per numerose testate e cura la newsletter Link Molto Belli – per approdare in libreria con un libro sui generis a metà strada tra il manuale, il saggio e il libro-game, con tanto di esercizi pratici: Come annoiarsi meglio, appena uscito per Blackie Edizioni. “La noia non è solo spiacevole malessere, ma qualcosa di importante e utile”, scrive nell’introduzione. “Va protetta e, perché no, allenata”. Per capire meglio come fare, ne ho parlato direttamente con lui.

Com’è nato il tuo interesse per la noia e quando hai deciso di trasformarlo in un libro?
Ho cominciato a pensarci qualche anno fa, approfondendo un argomento che già mi interessava. Spesso mi è capitato di avere delle buone idee in momenti di noia atroce: avevo notato empiricamente il collegamento tra la creatività e i momenti più noiosi. Da qui l’idea di fare un libro sulla noia. Sull’argomento esistono già molti libri, ma sono tendenzialmente molto noiosi o per addetti ai lavori. Il che mi sembra limitante, visto che la noia è la cosa più universale del mondo. Quindi ho cercato di fare un libro sulla noia non noioso, e di conseguenza utile, come un manuale, uno strumento che si può riutilizzare e rileggere. Questa idea si è incrociata con il tema del tempo: quanto è importante saperlo gestire, quanto è importante perderlo. La mia newsletter Link Molto Belli, alla fine, serve a far perdere tempo alla gente. 

Poi è arrivata la pandemia.
E ha fatto scontrare questi due temi in maniera molto violenta, esatto. La pandemia è un po’ lo spettro che infesta il libro. Durante il lockdown su Link Molto Belli ho fatto delle uscite speciali chiamate “Non fare niente”, in cui proponevo attività assurde – tipo disegnare l’abitazione più brutta possibile o un numero tra il 6 e il 7. Così occupavo qualche attimo di quelle giornate disorganizzate, piene ma allo stesso tempo vuote. Quando mi ha contattato Mario Bonaldi di Blackie Edizioni per chiedermi se avevo delle idee, gli ho detto che non avevo idee, ma soltanto attività inutili. Da questo incrocio è nato il libro. 

Che è a metà tra il manuale e il saggio… Ma lo definiresti anche un libro motivazionale?
Ne ha sicuramente qualche tratto, ma non nasce per quello. È uno strano assemblato di generi diversi: con un’altra casa editrice, altre persone e in un altro momento storico avrebbe preso una forma diversa. È nato in un equilibrio forse non precario, ma di sicuro “straordinario”. Uno strano incastro: è successo perché è successo. 

Entrando nel merito della questione noia: da un lato abbiamo le distrazioni che consumano il tempo libero, dall’altro la noia del lavoro – a cui dedichi un capitolo che significativamente si intitola “Lavorare fa schifo?”. Ma questi due concetti di noia non sono incompatibili? E avere tempo di annoiarsi non è di per sé un lusso?
La noia è qualcosa di molto personale e soggettivo, che dipende dalla variabile tempo. Per questo la paragono a un gas: si espande ovunque e può manifestarsi in qualunque momento, ma ci accomuna tutti. Ce ne sono tanti tipi, a partire dalla noia base (“non ho niente da fare, che palle”), che porta a pensare che per risolvere il problema sia sufficiente impegnarsi, avere degli input. Poi però vediamo che non è così: anche l’intrattenimento – il televisore acceso, lo smartphone, le cuffie, la Play – a un certo punto esaurisce i propri benefici. La pandemia ha polarizzato anche le diverse noie: la noia di chi ha lavorato alla cassa di un supermercato senza poter “staccare” una volta tornato a casa è senza dubbio diversa da quella a cui sono stato costretto io, quella della passività, del silenzio e della mancanza dei contatti umani. Ma l’universalità della noia resta nonostante la pandemia. All’inizio avevo il timore di scrivere un libro “fighetto” per borghesi annoiati: volevo parlare di un’esperienza universale che riguarda tutti, anche se siamo abituati ad associarla a una certa borghesia novecentesca, o alla nobilità. In realtà queste categorie sociali hanno semplicemente avuto il tempo e l’abitudine di riflettere – e lamentarsi – della noia, che per altre non è mai messa in discussione. Così ho cercato di parlare della noia al di là delle differenze sociali. 

Nel libro spieghi anche che annoiarsi “meglio” non significa cedere all’imperativo della produttività e cercare di monetizzare perfino la noia.
In realtà non voglio “combattere” le varie tendenze che ci portano a monetizzare ogni cosa. L’obiettivo è rendersi conto del fatto che queste tendenze esistono, e quindi cercare di riservarsi alcuni spazi. Dire: “Ok, questa è una cosa che faccio per me e che non serve a un cazzo”. Ad esempio ultimamente mi piace l’idea di vivere un momento bello, fare una foto e non pubblicarla online. La forza che ci spinge a farlo ha delle conseguenze, rischia di contaminare i momenti quotidiani. Poi magari non cambia niente nel momento in sé, ma serve per bonificare, costruire dighe – nel libro uso questa metafora – tra me e tutte le varie occupazioni, le ansie, le cose che mi sento di dover fare o che sono portato a fare dalle logiche dei social, o economiche. 

Questo discorso si collega al tema dell’ascetismo: tracci una sorta di percorso ideale che va dai monaci nel deserto al dopamine fasting, il digiuno dalla dopamina, che consiste nell’isolarsi da qualsiasi stimolo per 24 ore, diffuso tra i techies della Silicon Valley.
Gli asceti sono stati i primi a riflettere sulla noia e sui suoi effetti, ovviamente vedendola in maniera mistica e religiosa. Il concetto del “demone meridiano” – che tenta l’uomo nel deserto – mi ha aperto un mondo. A suo modo è divertente pensare a questi monaci nel deserto che vedevano mostri e diavoli tentatori, quando molto probabilmente erano disidratati e affamati. Detto questo, è meglio fare piccoli sacrifici e piccole battaglie per proteggere una parte del proprio tempo nel lungo periodo, piuttosto che affrontare prove ascetiche oggi, e poi magari tra un mese riprendere a fare come sempre. Per questo gli esercizi nel libro sono tutti molto semplici, entry level. Non chiedo di andare in cima a una montagna a riflettere. 

A proposito: ora sei un saggio illuminato che ha vinto la noia o sei ancora in una fase del percorso?
Mi rendo conto che per le vendite del libro farebbe bene se cominciassi a comportarmi da vecchio saggio. In realtà a priori non credo che si possa vincere la noia: semmai la si può addestrare. La metafora della bonifica mi convince sempre di più. Le bonifiche sono un lavoraccio e hanno bisogno di una grande manutenzione, cambiano il paesaggio e la cultura. Diciamo quindi che non sono arrivato, ma ho avviato i lavori, e ogni tanto c’è ancora qualche perdita.

Tra gli esercizi che proponi, qual è il tuo preferito?
Mi piace molto “Fare i flâneur” [passeggiare nel proprio quartiere identificando piante e fiori con Google Lens, e poi annotare un certo numero di cose a cui non si aveva mai fatto caso prima, ndr]: è una cosa che si può inserire facilmente nelle proprie abitudini. Più che un esercizio, è un consiglio di attività. Al secondo posto, “Perdersi su internet” – che è anche un modo per restituire a internet quell’idea fancazzista che ha un po’ perso negli ultimi anni. 

Invece, una cosa che ti annoia tantissimo?
Direi l’attesa, in particolare nella sala d’aspetto del dottore. E poi la burocrazia. Come dico anche nel capitolo dedicato al lavoro, i mestieri che hanno a che fare con la burocrazia sono i più noiosi – ma devono anche essere molto precisi, e questo è micidiale.