Se c’è una cosa in cui gli italiani sono campioni, è migliorare le cose: la pasta, la pizza, e pure il panettone. Se c’è un’altra cosa in cui siamo bravi, è dimenticarci di come le cose erano una volta, e spacciare una tradizione – che poi sarebbe meglio dire, almeno in questo caso: modo di fare – per eterna. Per esempio, il gorgonzola è un formaggio sostanzialmente moderno e dopoguerresco. La pizza a Napoli si fa “da sempre”, ma è stato grazie a un movimento di rivalutazione stimolato dall’estero e dagli Stati Uniti che l’abbiamo elevata alla versione 2025 di “pizza napoletana”. Eccetera, eccetera, eccetera.
Sì, pure il panettone ci finisce dentro. Esattamente come pizza e pasta, si tratta di uno spazio vuoto. Uno strumento di espressione, forse creatività, insomma, ditela come volete. All’origine del suo mito moderno fu terreno di scontro dei pubblicitari: la sua immagine fu veicolata, comunicata, manipolata di volta in volta a seconda delle esigenze dell’azienda produttrice. Se il panettone è diventato il dolce sovraregionale, sovranazionale che diamo estremamente per scontato e su cui continuiamo a spaccare il capello in quattro, ma che, in otto, è merito di chi, come Motta e Alemagna, ce lo ha fatto associare alla “famiglia Mulino Bianco” (la figura retorica è evidentemente anacronistica). E voi, quest’anno, che panettone prendete (di seguito, la risposta della Motta del presente)?
Ma se da noi si potrebbe innescare una diatriba – artigianale o industriale, candito o senza, ma ci torneremo -, in Sud America le idee sono cristalline. È da lì che dobbiamo cominciare per renderci conto dell’epopea del panettone, partito dalla piccola Milano come pane della festa bassotto e compatto, evolutosi in un torracchione di alveoli, pasta madre e (si spera) umidità.
Il panettone risale al Quattrocento. O meglio, la sua prima menzione scritta si trova in un manoscritto degli anni Settanta del secolo, redatto da un precettore della casa degli Sforza. Lo ritroveremo nel 1853, scrive il magazine dello Smithsonian, nel Nuovo cuoco milanese economico di Giovanni Felice Luraschi. Salto al 2005, ed ecco le regole che stabiliscono le caratteristiche di un “panettone” secondo l’allora Ministero delle Attività Produttive (oggi Ministero delle Imprese e del Made In Italy): «La denominazione “panettone” è riservata al prodotto dolciario da forno a pasta morbida, ottenuto per fermentazione naturale da pasta acida, di forma a base rotonda con crosta superiore screpolata e tagliata in modo caratteristico, di struttura soffice ad alveolatura allungata e aroma tipico di lievitazione a pasta acida. (…) L’impasto del panettone contiene i seguenti ingredienti: farina di frumento; zucchero; uova di gallina di categoria A o tuorlo d’uovo, o entrambi, in quantità tali da garantire non meno del quattro per cento in tuorlo; materia grassa butirrica, in quantità non inferiore al sedici per cento; uvetta e scorze di agrumi canditi, in quantità non inferiore al venti per cento; lievito naturale costituito da pasta acida; sale». Si citano come elementi accessori «latte e derivati, miele, malto, burro di cacao, zuccheri, (…) aromi naturali, emulsionanti, il conservante acido sorcio, il conservante sorbato di potassio».
A seguire le regole dello Stato, insomma, il panettone prodotto da un certo D’Onofrio non potrebbe classificarsi come tale, in quanto contiene canditi di frutti tropicali (e forse in teoria non potrebbero essere “panettoni” neppure le versioni senza canditi, o con troppa poca frutta, ma questa è lana caprina, no?). Eppure, regolarmente ogni anno e non solo per Natale, la confezione azzurra, con un riconoscibile logo tra la Madonnina e un carattere “andino” (pazientate un attimo…) arriva sulle tavole di milioni di peruviani (eccoci qua). Secondo dati di fine 2023 sono proprio loro i maggiori consumatori di panettone al mondo, mica gli italiani (lo erano, ma sono stati scalzati). Secondo una ricerca dell’osservatorio sui trend di settore Taste Tomorrow, sarebbero 34.000 le tonnellate di panettone consumato in un anno nel Paese: un totale di 1,1 kg a persona. L’Italia si attesterebbe su un umile 29.000 tonnellate, il che significa meno di un chilo a testa (0,8). Secondo invece osservazioni condivise dal marketing di Nestlé (che si occupa anche di panettone), in Perù si mangerebbero 1,3kg di panettone all’anno, mentre in Italia 1,2.
La zampino, come si evince dal cognome, è sempre di un italiano. Di Antonio D’Onofrio, casertano nato a metà Ottocento che, nel 1911, sbarcò in Perù per aprire, poco dopo, un’attività di pasticceria a Lima. Il resto è storia contemporanea: il brand D’Onofrio è stato acquistato proprio da Nestlé e trasformato in un colosso alimentare peruviano. Un mito moderno che accompagna il Natale e la Festa dell’Indipendenza della nazione, a luglio. Il panettone, in altre parole, è intrinsecamente parte dell’identità peruviana, e se le cose stanno così è stato anche a causa alla presenza di numerosi immigrati dalla Lombardia e dal Piemonte all’inizio del Novecento. Coloro i quali, insomma, erano pratichi di questa delicatesse.
«Perché?», mi chiede una commerciante al Mercato della Darsena di Milano, quando le indico un panetto D’Onofrio, lasciando intendere che ma lo voglia portare a casa. D’Onofrio si trova anche da noi. È più facile nelle grandi città, o dovunque ci sia una comunità latina sviluppata (è decisamente il caso di Milano). È gnucco, pastosissimo, troppo dolce. Non ha quella vena di alcolato tipica dei lievitati industriali. Contiene canditi di papaya e altri giallo-rossi dal sapore indefinibile, sembrano gelatine. Non è cattivo, palatalmente è soprassedibile. Intellettualmente, per nulla: bisogna mangiarlo per capire. Capire che quella domanda che mi è stata rivolta parte dalla curiosità e termina quasi nel sospetto: ma chi è questa qua, palesemente non peruviana, che mi chiede un panettone prodotto in Sud America? Si verrà mica a lamentare con me se non le piacerà? Ha davvero-davvero capito che cosa ha deciso di acquistare?
Poi ci chiariamo, e mi spiega che il D’Onofrio unisce tutto il Perù. «Su ogni tavola di Natale trovi questo panettone», che poi si chiama panetón. È un discorso vecchio come la cucina: i cinesi se la dovrebbero prendere sul serio se gli italiani ficcano gli spaghetti in tutte le salse? Noi ce la dovremmo prendere se in Wisconsin qualcuno fa un formaggio che non c’entra niente con il Parmigiano che si chiama Parmesan? Se a New York esiste una cultura della pizza indigena al trancio, se lo stesso avviene a Chicago e a Marsiglia? Dov’è il confine tra frode Italian sounding e cultura autoctona? Tutto il mondo è alloctono (e a volte produce aggeggi come il cocatón, panettone con le foglie di coca). Meglio farsene una ragione e tirare innanzi.
Magari fino al Brasile, che non è né il primo né il secondo consumatore di panettoni al mondo, bensì il primo produttore. Anni Cinquanta del Novecento: un certo italianissimo Carlo Bauducco, di Moncalieri, arriva in Brasile. Anche lui pensa bene di fondare un’impresa dolciaria. Già nel 2018, la Bauducco produceva 200.000 tonnellate di panettone, distribuito in 50 Paesi del mondo, per mezzo di sei pasticcerie industriali collocate negli Stati Uniti, acquistate durante l’intero corso dell’anno.
Di chi è il panettone?, scriveva centrando il punto Julia Moskin sul New York Times a dicembre 2022. Di chi sono i croissant, nati come “viennoiserie”, perfezionati in Francia, transitati dal Nord Europa e giunti ipersfogliati nelle bakery di Milano? Di chi è l’avocado toast? Il sushi? La cheesecake basca? L’hamburger? Si potrebbe continuare…
E dato che pure noi ci mettiamo a fare le classifiche dei migliori cinnamon roll di questa o quella città, capendo forse zero di girelle lievitate alla cannella, è solo giusto che “gli altri” facciano lo stesso con noi, e dovremmo forse pure ringraziare. All publicity is good publicity. Il brand internazionale della cucina italiana non l’hanno interamente fatto nascere gli italiani. Molto interessante è la classifica del New York Times, che incorona “miglior panettone 2025” il Classico di Olivieri 1882 e conferisce la corona ad Arzignano (Vicenza). Da segnarsi, lo aggiungo io, è pure il Tre Cioccolati, più compatto nella texture e decisamente goloso. La storia di Olivieri 1882 è peraltro interessante, perché parla della penetrazione artigianale della manifattura alimentare italiana all’interno degli Stati Uniti, avvenuta con programma ma anche per colpo di testa (o di cuore) – e quindi di tutto il circolo di influenza e controinfluenza che si viene a creare. Anche quella dei siciliani Fiasconaro, oggi conosciuti ai più come i firmatari del panettone Dolce & Gabbana, fila su queste righe. Ma l’hanno già raccontata molto bene qui sotto.
Ma torniamo a noi. Al secondo posto del New York Times finisce il panettone alto di Ferrara, storico café-pasticceria di Little Italy a New York, aperto a fine Ottocento dall’impresario teatrale e gourmand Antonio Ferrara (un giro tra le foto online darà l’impressione di trovarsi in un preambolo al Boss delle Torte di Hoboken, Buddy Valastro). Terzo classificato l’italiano Luigi Biasetto. Nel resto della lista si trova anche il classico Bauli in confezione rosa, Una Panettone by Una Pizza Napoletana (eletta la migliore pizzeria del mondo, siamo sempre a New York), ma pure la creazione di Roy Shvartzapel, ex studente di Iginio Massari.
Nato in Israele e adottato dal Texas, Shvartzapel è il nome dietro From Roy, bakery basata in California da cui il panificatore è partito per lanciare la sua visione globalizzata di panettone. Shvartzapel infatti ha preso gli insegnamenti del “Maestro” e li ha piegati alla sua visione: quello di un profano, diremmo noi, che proprio per questa ragione vede meglio quella duttilità del panettone di cui parlavamo all’inizio. Allora Shvartzapel allunga gli alveoli, spinge la lievitazione quasi all’estremo, quasi allo sport da combattimento. Alza la cupola del panettone a dismisura, lo propone tutto l’anno, e ne fa il suo marchio di fabbrica, curiosamente. In questo momento, sul suo sito internet gli ordini per Natale e Capodanno sono chiusi in quanto “sold out”. Tre le versioni di panettone proposte: Lemon Poppy Mascarpone, Chocolate, Candied Orange Raisin (il “tradizionale” italiano), ogni singolo panettone è venduto a 109 dollari. E sono tutti sold out. Che ganzo questo panetùn, eh?
Nazionale, nazionalpopolare, internazionale. Dice Laura Lazzaroni, giornalista e consulente di panificazione italiana, basata a Roma, al New York Times: «Non ci siamo mai disamorati della pizza, ma non la consideravamo molto. Poi le persone hanno cominciato a tornare dall’America dicendo, “ho mangiato una pizza in California che era migliore di quella a- inserire un nome di città italiana a scelta. Allora siamo corsi ai ripari». Lo stesso, secondo Lazzaroni, sarebbe avvenuto per il panettone, spalancando ufficialmente le porte ai “grandi lievitisti” e ai creativi, ma anche solo a chi voleva distanziare il proprio prodotto da una logica di produzione (e da una qualità) industriale. O meglio, facendoci interessare di più a loro. Perché non solo Massari, ma anche Emmanuele Forcone, Andrea Tortora. I modelli già c’erano, Bisognava solo creare le condizioni per farli esplodere. Eccoci rientrati all’inizio della solfa: la tradizione italiana, come ci ripetono da parecchie stagioni i bravi autori di D.O.I. Podcast, Alberto Grandi e Daniele Soffiati, è la storia della rivalutazione di una cucina povera, o con picchi di ricchezza (come quelli del panettone) lasciati al loro corso. Ora, invece, siamo noi che corriamo dietro, e che rincorriamo chi ci sta ri-spiegando chi siamo.
Questo significa naturalmente inventarsi un nuovo mercato di lusso. In soldoni, nell’ultimo lustro il panettone è regolarmente aumentato di prezzo, anno su anno. Arrivati a questo Natale, i dati raccolti dall’Osservatorio Panettone della società di ricerca Maiora Solutions evidenziano una media prezzo al supermercato di 8,58 euro, e una in pasticceria di 44,74 euro. Non succede solo in Italia. Anche nel Regno Unito, per esempio, c’è chi sta cominciando a notare che il panettone ha cambiato i vestiti, rifacendosi un look posh: «Un tempo era appannaggio delle gastronomie chic, ma il panettone è rapidamente diventato un caposaldo delle festività britanniche: i supermercati registrano vendite in forte crescita e i clienti sembrano disposti a spendere somme sempre più elevate per il dolce lievitato italiano. Qualche decennio fa il panettone sarebbe apparso decadente ed esotico, ma oggi è un elemento imprescindibile del Natale britannico, al pari di classici come i mince pie e il tacchino». Il Guardian cita poi dati di tre catene di supermercati britannici, Waitrose, Fortnum and Mason, Selfridges. Le quali indicano un aumento dei prezzi dei panettoni del 40%, 11%, e 30% rispettivamente. I clienti? Continuano a comprare. Perché il panettone è il dolce di Natale che unisce tutto il mondo, o almeno tutto l’emisfero occidentale, anche per la provenienza e il “lusso originario” dei suoi ingredienti.
La domanda quindi che ci facciamo collettivamente, puntuali, ogni giro di rivoluzione – ma qual è il panettone migliore dell’anno? – lascia il tempo che trova. Un po’ perché la verità è che ogni panettone è bello a mamma sua, un po’ perché, evidentemente, non si tratta di un prodotto sottovuoto – nemmeno quelli industriali lo sono… -, ma di materia viva culturale. È più interessante tracciare e rintracciare una mappa direzionale.
In cui al primo posto troveremmo “gli impastatori”: a Frosinone ma anche a Roma c’è Dolcemascolo (con la terza generazione di pasticceri, Matteo Dolcemascolo, alla guida), sfogliatura perfetta, naso equilibrato e una bella vaniglia, persino più accattivante (il che non accade spesso) quando va sulle varianti: cioccolato e pere, cioccolato e lamponi, frutti di bosco, pistacchio.
Stesso campionato quello di Daniele Campana, pizzaiolo che dalla provincia di Cosenza si è divertito, con profitto, a lavorare una versione di panettone con origano selvatico del Pollino e canditi belli e pieni (lo chiama U Sibbaresi), consiglio: irrorare con olio per la degustazione perfetta. Nel repertorio di Campana anche l’Amarena, cioccolato 75% e nduja. Rollercoaster.
Il panettone di Daniele Campana. Foto: press
La stessa scuola è quella della famiglia Bizzarri, che dal 2001 governa il forno della Pasticceria Ranieri in via Alessandro Volta, a Milano. Zitti-zitti, senza sbandierare nulla, Roberto e il figlio Riccardo capovolgono panettoni gialli e profumati, alti ma non altissimi, incredibilmente buoni. Non sono mai riuscita a finire un Bauli alla prima apertura; non si avrebbero difficoltà con il Ranieri.
Il panettone della pasticceria Ranieri a Milano. Foto: press
Lascia la bocca buonissima anche il panettone di Ricci, fornai di famiglia a Montaquila, provincia di Isernia, dal 1967. Mattia Ricci oggi ha 31 anni ed è la terza generazione di una famiglia che ha sempre fatto di testa sua e che, nel grande piccolo di un paese di 3000 abitanti (oggi), ha fatto la rivoluzione. Dando vita e comunità al borgo sfornando pane, prima; mettendosi in testa di lanciarsi nel panettone artigianale dopo, vent’anni fa. I canditi sono selezionati in casa e il burro è belga (quando dicevamo tutto il mondo qui dentro…).
Scavallando di regione si arriva dalle parti di un’altra campionessa: Anna Belmattino, salernitana, nuovo “nome chiacchierato” nei circoli degli appassionati – sì, avrete notato dai numeri: il Centro e Sud Italia sono spesso più “forti” del Nord, quando si tratta di fuoco e lieviti. Belmattino sembra vivere in simbiosi con il suo lievito madre, gestendolo per intuizione magica. D’altronde era quello che si faceva da sempre, la nonna con il suo “criscito” le aveva trasmesso le basi stregonesche del mestiere. Dopo un periodo sfortunato che l’ha costretta a letto a seguito di due coma e un trombo ischemico, Belmattino capisce che è meglio ascoltare quell’istinto. E dedicarsi a impastare panettoni da leccarsi i baffi. Assaggiare per credere.
Last but not least (ma sapete che quasi si fanno puramente esempi), torniamo in Lombardia e a Treviglio per la precisione. Dove il giovane, autodidatta, e già premiatissimo Mattia Premoli segue la linea di grandi lievitati Madre alla pasticceria La Primula. Più pieno in bocca, profumato, che ve lo dico a fare? Fatevi una passeggiata da queste parti e anche qui andrete sul sicuro.
Il panettone di Mattia Premoli a La Primula di Treviglio. Foto: press
Questa è la nuova scuola della pizza. Quella casertana, ampia, generosa nella pasta. Poi c’è la vecchia scuola, che con ottimi ingredienti decide di fare il suo senza misurare gli alveoli, e generalmente (ma ci sono le eccezioni) proporre prodotti più “contenuti” sull’altezza e la stazza.
I panettoni del Forno di Calzolari, sull’Appennino bolognese (a Monghidoro), sono esattamente questo: prodotti di un forno che tale è rimasto senza “evolversi”, ma approfondendo un naturale rapporto di estrema cura verso i propri ingredienti. Montanaro con noci di Tolè e pere candite dell’Emilia Romagna IGP; Classico con uvetta di Zibibbo di Pantelleria e scorza d’arancia candita; Due Cioccolati, pezzettoni di cioccolato fondente di Modica e cioccolato al latte; Cioccosale, con burro di zangola delle Vacche Rosse, pezzettoni di cioccolato fondente di Modica leggermente salati, copertura al cioccolato con aggiunta di biscotti; San Petronio, con impasto dolce e salato con burro di zangola delle Vacche Rosse, Parmigiano Reggiano del Caseificio Rosola e prosciutto crudo dell’Az. Agricola Canè di Loiano. Una geografia territoriale racchiusa in un chilo di lievitato. Dicono di conoscere di persona chi macina loro il grano, chi porta loro il burro, eccetera eccetera. La bellezza è che in montagna funziona proprio così.
I panettoni de Il Forno di Calzolari. Foto: press
Lo stesso vale per i veronesi di Infermentum, progetto cominciato da quattro amici, come tradizione vuole, nel garage di casa e trasformatosi (era il 2021) in un’azienda che esporta i propri prodotti nel mondo, con una produzione annuale già ragguardevole (intorno alle 150.000 unità di dolce tutto compreso). Sempre nel veronese vanno forte anche i vicini di casa Lorenzetti, recentemente storica pasticceria fondata nel 1970 e alla seconda generazione famigliare, che propone un panettone leggero e da più di una fetta, specie se vi piace sentire il burro, che arriva bello deciso.
Chiudiamo la mappatura con le carte matte. Quelli che fanno a modo loro e prescindono più o meno da tutto. Come la Sóppa del pasticcere Luca Porretto, ovvero un panettone a tre impasti: cuore al cioccolato con chunk di fondente 58%, parte centrale all’alchermes con gelatina di alchermes, impasto esterno classico con chunk di cioccolato fondente e farcito con crema pasticcera e ricoperto da una glassa al cioccolato fondente e alchermes. Chiaramente, l’ispirazione è la zuppa inglese tipica di Bologna e di tutta l’Emilia. Un dessert: non mangiatelo a colazione.
A Rezzato (Brescia) invece, Carlotta Filippini della pasticceria Dolce Angolo ha preso il cocktail-simbolo del capoluogo infondendolo nel panettone: ecco il lievitato al Pirlo (che è una metà strada tra lo Spritz, l’Americano, e insomma il mondo Campari). Per rubare la scena a tutti e lasciar perdere qualsiasi precetto, come anche tutto quello scritto finora, meglio guardare a Matias Perdomo, da Contraste a ROC (Rosticceria Origine Contraste), e portarsi a casa una torta delle rose (chi sa, sa) in versione natalizia: cinque monoporzioni da spruzzare con diversi profumi e aromi, e ti risolvo il Cenone.
Per divertirmi e chiudere in bellezza, ho chiesto un parere anche a Emiko Davies, food writer, autrice e food photographer nippo-australiana in Italia da vent’anni. «Il mio panettone preferito lo fa un forno di Trento, il Panificio Moderno. La lievitazione naturale lo porta a crescere lentamente nell’arco di 48 ore».
Emiko è proprio una di quegli osservatori esterni che vi dicevo prima. Perciò, il suo parere sul panettone mi interessa molto. «Anche se sono in minoranza rispetto alle persone che mi circondano, io personalmente sono una fan del panettone, soprattutto di quello classico: punteggiato di agrumi canditi e uvetta. Per me questo è il panettone definitivo, anche se ormai se ne trovano di sempre più fantasiosi. Queste varianti, a mio avviso, sono sopravvalutate: quando si tratta di panettone, sono una purista». Ottimo: ci troviamo d’accordo. Le chiedo poi un’impressione di primo pugno sullo status del panettone oltre i limiti italiani.
«All’estero credo che il panettone sia molto amato, soprattutto nelle comunità italiane oltreconfine, dove ha un forte valore nostalgico e, non da ultimo, rappresenta una tradizione facilmente accessibile ovunque ci si trovi. Qualche anno fa, lo chef del Noma René Redzepi ha creato un geniale toast utilizzando del panettone avanzato, cosa che — se chiedete a me — è stata una ragione più che sufficiente perché persone di tutto il mondo corressero a comprare panettoni: ha farcito le fette di panettone avanzato con (piuttosto scandaloso) formaggio francese».
Allora rimane solo da dire: «Il panettone è un rito e un simbolo tanto quanto è un cibo consumato a Natale: è una di quelle cose che si portano come regalo quando si è invitati a una festa natalizia, o anche come dono tout court». Buon Natale.
