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Questa ricetta non è tua: breve storia dell’appropriazione culturale a tavola

I francesi non hanno inventato il croissant, gli inglesi si sono presi il curry, e tu stai mangiando hummus senza sapere da che parte sta. Perché la tradizione culinaria è soprattutto una storia di furti e di potere

Chicken Tikka Masala

Chicken Tikka Masala

Foto: Raman su Unsplash

Il cibo è sempre stato un linguaggio di conquista. Per esempio, le spezie che muovevano le rotte dei mercanti erano già un modo per appropriarsi del gusto altrui. Per dirla chiara: l’Impero britannico non ha solo invaso territori; ha inghiottito intere culture alimentari.

Spieghiamo meglio: il curry, oggi praticamente piatto nazionale inglese, è nato come compromesso tra nostalgia coloniale e marketing gastronomico. Il chicken tikka masala, simbolo del comfort food britannico, non esisteva in India. È una ricetta “ibrida”, creata da cuochi pakistani a Glasgow per adattarsi ai palati locali. La cucina è una metafora perfetta per il colonialismo: addolcire, semplificare, rendere digeribile l’altro a una cultura diversa.

Il tikka originale era fatto con spezie forti e yogurt, il tipo di sapore che ai britannici non piaceva. Così si trasformò in crema di pomodoro, panna e burro: un compromesso dolce, morbido e domestico. Oggi è il piatto più ordinato nei ristoranti indiani di Londra, simbolo di una cultura trasformata per vendere al colonizzatore.

Lo stesso destino tocca ad altri cibi migranti. Il kebab, piatto di origine anatolica e mediorientale, diventa “street-food esotico” in Europa: un pasto veloce da consumare in piedi, spesso di notte, magari dopo una serata.
Eppure il kebab non nasce come cibo da marciapiede, ma come tecnica di cottura, antichissima, della carne — arrostita lentamente su spiedi verticali o orizzontali, condivisa nei banchetti ottomani e nelle feste di famiglia. Turchia, Siria, Iran, ogni regione ha la sua variante: döner, shawarma, kebab di agnello o di pollo. È un piatto di comunità, fatto di gesti tramandati, più che ricette scritte.

Quando arriva in Europa, cambia significato. Diventa un simbolo di immigrazione, di marginalità. Chi lo cucina viene guardato con sospetto, come se il cibo fosse un’estensione del corpo straniero. Il kebab diventa una presenza notturna, un segno di chi resta sveglio mentre la città “vera” dorme. In Germania, in Italia, in Francia, è un business spesso tenuto in piedi da seconde generazioni: figli e figlie di chi ha cucinato per gli altri, oggi bloccati tra la memoria dei genitori e il marketing del delivery.

L’hummus segue una traiettoria simile. In Medio Oriente è cibo quotidiano, economico, condiviso: ceci, tahina, limone, olio, aglio. Non è un piatto da chef, ma un rituale domestico, un modo di stare insieme. Nel Levante si discute ancora se sia libanese, palestinese o siriano — una contesa che racconta più di mille trattati sul concetto di appartenenza.

In Occidente, invece, l’hummus diventa un brand. Appare nei brunch minimalisti, nei piatti vegani da fotografia, negli scaffali bio dei supermercati. È la versione “depurata” di un piatto che nasce impuro, mescolato, terreno. Spesso senza limone, senza spezie, senza storia. Industrializzato, sterilizzato, brandizzato. Venduto come simbolo di “cucina sana”, ma dietro c’è una logica di appropriazione che cancella chi lo ha sempre preparato. È il destino di molti piatti globalizzati: prima vengono marginalizzati insieme a chi li cucina, poi riscoperti — e infine ripuliti, repackaged, con un nuovo nome e un nuovo prezzo.

Ogni paese costruisce miti gastronomici. Gli italiani, per esempio, sono orgogliosi di aver inventato la pasta. Ma ormai è quasi certo che arrivi dalla Cina via mondo arabo, diffondendosi poi in Sicilia e in tutta la penisola. Non è un caso che, dati alla mano, il secondo consumatore di pasta al mondo sia la Tunisia, con circa 17 kg all’anno pro capite; l’Italia detiene il primo posto, con circa 23 kg. Questo non toglie nulla al fascino della pasta, ma cambia radicalmente il racconto.

Le cucine nazionali sono architetture ideologiche: servono a creare appartenenza, non a raccontare la verità. Dire “questa ricetta è nostra” è un modo per delimitare confini identitari. Ma il cibo non ha passaporto: viaggia, si adatta, muta. L’appropriazione culturale comincia quando si finge che non sia mai successo.

Lo storico Alberto Grandi, nel libro La cucina italiana non esiste, descrive la cucina italiana come «un’invenzione recente e, di fatto, un’efficace trovata di marketing». Parole che fanno scalpore, soprattutto ora che la cucina italiana lotta per il riconoscimento Unesco come patrimonio dell’umanità. Una piccola parentesi: la cucina francese ha ottenuto questo riconoscimento nel 2010, e non possiamo ignorare che la sede Unesco sia proprio a Parigi.

Ma torniamo all’Italia. La carbonara, tanto celebrata come emblema della cucina romana, non è “tradizione millenaria”. Nasce negli anni Quaranta come piatto veloce per minatori e soldati, con gli ingredienti disponibili: uova, guanciale, pecorino e spesso pancetta americana. La versione che conosciamo oggi è un compromesso tra gusto locale e prodotti introdotti dai soldati americani. Un piatto costruito in tempi recenti, rielaborato dai romani con ciò che avevano a disposizione.

La pizza margherita ha seguito un percorso simile. Certo, il mito la lega alla regina Margherita, che nel 1889 assaggiò e diede il suo nome alla pizza con pomodoro, mozzarella e basilico: un gesto simbolico che legittimava Napoli come capitale della pizza. Ma la sua diffusione globale passa per gli italoamericani emigrati negli Stati Uniti. A Napoli esisteva già, ma non era un simbolo internazionale. Chiunque abbia vissuto a New York sa quanto i cittadini americani siano convinti di averla inventata loro.

In sintesi, molte italianissime ricette diventano tali perché qualcuno ha deciso che dovessero esserlo, non perché fossero immortali. A volte anche gli ingredienti stessi — pomodoro in primis — arrivano dall’America dopo la scoperta del Nuovo Mondo.

Potremmo continuare, e quindi lo facciamo. Il croissant, vero simbolo della cucina francese, non è francese. Nasce a Vienna come kipferl, dolce a forma di mezzaluna, già noto nel XVII secolo. La mezzaluna non era solo un motivo estetico: celebrava la vittoria degli austriaci sugli Ottomani, una sorta di simbolo politico messo in pasticceria. Il kipferl era semplice, meno burroso, più denso e spesso aromatizzato con mandorle o semi: un dolce quotidiano, lontano dall’eleganza dei croissant che conosciamo oggi.

Quando Maria Teresa d’Austria entra in contatto con la Francia, il kipferl viaggia insieme ai cuochi e ai rituali di corte. In Francia, la ricetta viene trasformata: più burro, più lievitazione, più leggerezza. La forma a mezzaluna resta, ma la consistenza cambia radicalmente. Il croissant diventa soffice, stratificato, quasi un simbolo di lusso accessibile. È qui che nasce la leggenda francese: oggi il croissant è “nazionale”, ma in realtà è un dolce austriaco reinventato.

In Italia, poi, prende il nome di cornetto. La differenza non è solo linguistica: il cornetto spesso è più dolce, più morbido, e talvolta farcito, adattandosi alle abitudini locali della colazione. Ma la storia è la stessa: un dolce che viaggia, che cambia, che viene risignificato e alla fine rivendicato da una nazione come proprio.

Mangiare, insomma, è un atto politico. Decidere cosa chiamare “nostro” significa scegliere cosa cancellare. Quando un piatto cambia nome o identità per entrare nel menu di chi comanda, qualcosa si perde: gesto, significato, memoria di chi lo ha cucinato per primo.

L’appropriazione culturale a tavola non è solo copyright gastronomico, ma riconoscimento. Chi ha la voce per raccontare una ricetta? Chi guadagna quando una cultura diventa trend? Chi resta invisibile quando un gusto viene globalizzato?

Non serve smettere di mangiare hummus, curry, kebab o croissant. Serve ricordare che non sono nati su Instagram. Ogni piatto è un archivio di viaggi, sfruttamenti e incontri. Conoscerne la storia non rovina la cena — la rende più vera, più complessa e sorprendentemente più gustosa.