C’è una frase di Sebastião Salgado nel Sale della terra, il documentario candidato all’Oscar che Wim Wenders gli ha dedicato nel 2014, che è – credo – la sintesi più efficace per comprendere il fotografo brasiliano: «Ogni volta che ho sollevato la macchina fotografica, ho sentito il bisogno di essere parte di ciò che stavo fotografando». Non è solo una dichiarazione programmatica, è il senso ultimo di un’intera esistenza passata a osservare il mondo da dietro una lente, sì, ma senza mai nascondersi.
Salgado era più di un fotografo, era un testimone che prima di tutto ha deciso di vedere e poi di immortalare il pianeta come fosse un corpo ferito: con una pietas e insieme con una rabbia che non lasciavano spazio all’indifferenza. I suoi scatti, densi come carbone e scolpiti nella luce, hanno raccontato il dolore, l’ingiustizia, la bellezza e il collasso con un’etica radicale. Lontano dalla pornografia del dolore, ma anche dalla contemplazione sterile. Dentro, mai sopra. Di fianco, mai dall’alto.
Insieme al figlio Juliano Ribeiro Salgado, nel film Wenders lo dipinge come un viaggiatore dell’umanità – e della disumanità. «Ho visto cose che un uomo non dovrebbe mai vedere», afferma Salgado davanti all’obiettivo. Si riferisce alle guerre, alle carestie, al genocidio in Ruanda. Ma in fondo parla anche di noi, dei nostri occhi assuefatti, dei nostri scroll distratti. Il sale della terra è un film silenzioso, ipnotico, costruito sulle foto e sulla voce di Salgado che racconta i suoi viaggi come fossero sogni o incubi. «Non si può fotografare con distacco», dice. «Bisogna diventare parte del soggetto». Non è empatia, è militanza.
Nato in Brasile nel 1944, economista mancato, esule politico, Salgado è stato molte cose, ma prima di tutto è stato uno modo di guardare e di stare nel mondo. Lo ha girato con una Leica in mano e un’urgenza negli occhi. Dai minatori di Serra Pelada, che sembrano salire verso l’inferno invece che scavare l’oro, ai bambini denutriti del Sahel, dai migranti in fuga a piedi nudi fino ai ghiacciai incontaminati della Patagonia: il suo è stato un atlante della specie umana, ma dalla parte dei sommersi. «Mi sentivo come se l’essere umano fosse una specie malvagia», ammette ancora nel doc, ricordando il suo ritorno proprio dal Ruanda. Era il punto più basso, il momento in cui smise di fotografare: tornò nella fattoria del padre nel Minais Gerais e la trovò arida, secca, completamente disboscata. E allora scelse di piantare alberi, milioni di alberi. Decise, insieme alla moglie Lélia Wanick, di riportare la foresta atlantica dove c’era il deserto.
Quel gesto – sanare la terra invece di abbandonarla – è un’altra sintesi perfetta del suo sguardo sul mondo. Non solo denuncia, ma cura. Da lì nacquero prima l’Instituto Terra, dedicato al rimboschimento e alla conservazione ambientale, e poi Genesis, il suo progetto più luminoso: la ricerca della purezza, del non contaminato, dell’intatto, del primordiale. Dopo aver guardato l’apocalisse, voleva ricordarsi (e ricordarci) che da qualche parte esiste ancora l’Eden. Non più le ferite del mondo, ma le sue sopravvivenze: gli animali, le tribù isolate, le montagne inviolabili. Per ricordarci che, sotto la coltre del disastro, esiste ancora qualcosa che vale la pena salvare. E che non tutto è perduto, almeno non ancora.
C’è una scena bellissima nel film di Wenders: la camera indugia sul volto di Salgado immerso nell’ombra mentre guarda le sue stesse fotografie proiettate sullo schermo. Non dice nulla, ma la sua espressione cambia leggermente, ogni immagine è una ferita che si riapre e si richiude. Perché c’era una forma di amore profondo nella sua ostinazione a documentare la sofferenza: un amore feroce per l’essere umano, anche quando è all’apice della sua crudeltà. La sua visione artistica era politica. E la sua politica era quella dell’umanità. Wenders lo osserva con timore e tenerezza, come si osserva un veggente stanco. Salgado forse aveva visto troppo e, anche grazie a questo, aveva imparato a vedere meglio. Non era un artista della compassione, era un militante del reale. Il suo bianco e nero non era una scelta estetica, ma morale: perché la realtà non ha bisogno di colore, il colore distrae, mentre il contrasto tra luce e ombra è già tutto: estetica, etica, verità.
Le foto che restano sono monumenti. L’uomo che urla con il machete in mano tra i profughi di Goma. Il volto scavato del piccolo sopravvissuto del Sahel. Il cratere umano di Serra Pelada. Il bacio tra due leoni marini sulle coste delle Galápagos. Sono immagini (uso una parola bruttissima, ma tant’è) iconiche, certo, ma Salgado sopra ogni altra cosa voleva farci guardare dove nessuno voleva più guardare, senza scampo, senza vie di fuga. «La fotografia è stata la mia vita. Ma la vita è qualcosa di molto più grande», dice verso la fine del Sale della terra. E ora lo salutiamo sapendo che ci ha lasciato in eredità molto più che immagini straordinarie: ci ha lasciato un modo di vedere. Un modo di non voltarci dall’altra parte.