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Queer food, questo sconosciuto

Non teoria ma tanta pratica, per una (nuova) tradizione che parla, in primis, di libertà e sovversione delle convenzioni. Benvenuti nel mondo del cibo queer, dove potreste divertirvi di più
queer food

Foto: Céline Druguet su Unsplash

Il cibo è un atto politico, lo sappiamo. Una presa di posizione determinata e determinante, un mix di ingredienti che racconta una ribellione che vuole farsi rivoluzione. Ma anche la sessualità è un atto politico. Mi chiedo se sia possibile unire i due concetti, per crearne uno ancora più potente. Come un Pokémon di ultima generazione. Cibo e sessualità, cosa potrebbe mai uscirne?

Quando parliamo di cibo e sessualità, parliamo di un qualcosa che esiste da anni. Ma forse non ci abbiamo mai fatto troppo caso. “Fate l’amore con il sapore” è uno slogan che per tantissimo tempo ha cercato di raccontare il legame tra i due, ma l’ha fatto in maniera stereotipata, con una donna simbolo di piacere, da “leccare” come uno yogurt in frigorifero. Poi le cose sono cambiate. Ma non in meglio.

Per accontentare i nostri guilty pleasure, il web si è inventato nuovi tipi di contenuti. Uno tra questi è il mukbang. Video in cui gente random si riprende mentre divora enormi quantità di cibo, spesso senza neanche concedersi il lusso di masticare. Neanche Bruce Pappalardo in Matilda sei mitica si è mai spinto così tanto oltre.

Questi video raccontano di un mondo (peggio di quello di Alien) in cui il legame tra sessualità e cibo passa dal semplice movimento di bocca. I suoni riprodotti, l’ingordigia, il viso sporco di spezie, sono elementi che in un certo senso sono comunque sessuali. Sono, in poche parole, rappresentazione di un corpo. E il corpo è sessualità. Ma ancora non ci siamo: qui stiamo parlando solo di food porn, mica di cibo come rivoluzione queer.

Quello a cui voglio arrivare, invece, è un’idea di cibo diversa, che si allontana dagli scaffali del supermercato, dai contenuti social pensati per le grandi visualizzazioni, per raccontare la propria sessualità. O, in altre parole, la propria queerness. Eh sì, perché il cibo è (anche) queer. Ma andiamo con ordine: che cos’è il queer food?

Spiegare il queer food non è facile. E no, non parliamo delle barrette di cioccolato di Rupaul («It’s chocolate»). No, neanche delle torte arcobaleno. E neanche degli unicorni di marzapane (anche se ne mangerei volentieri uno). Il queer food è un pensiero che stravolge l’idea convenzionale di cibo.

Spesso, parliamo di queer food per riferirci alle pietanze preparate da chi è parte stessa della comunità queer. L’aspetto esteriore dei piatti, dunque, non necessariamente racconta la propria queerness. Ecco perché non basta aggiungere qualche brillantino o un’ostia di Britney Spears sulla propria torta. Il cibo, per farsi queer, deve partire innanzitutto dall’identità di chi manipola il cibo stesso. Anche perché, parliamoci chiaro: pure il peggiore degli omofobi non avrebbe problemi a preparare una torta arcobaleno, se dietro vi è un profitto.

Il cibo, per dirsi queer, deve quindi emanciparsi, sia dalle dinamiche di una food economy spesso maschilista e lineare, ma soprattutto dalle convenzioni che spesso abbiamo inconsciamente accettato. Per farlo, basterebbe ripartire dal concetto di convivialità. Non è un caso che in moltissimi locali, soprattutto all’esterno, i ristoratori abbiano iniziato a esporre la propria posizione queer. Lo fanno attraverso insegne o anche con un semplice messaggio all’esterno dei propri locali. In questo modo, i ristoratori richiamano a uno spazio sicuro, a un luogo in cui sentirsi famiglia. Valorizzando, in altre parole, il piacere di mangiare insieme piatti preparati da chi considera l’altro parte di una stessa comunità, e non un semplice cliente pagante.

Il cibo è queer quando è strumento di lotta contro ogni forma di discriminazione. Il cibo è queer quando diventa raccoglitore di storie personali, che diventano testimonianza. Ludwig Hurtado, scrittore e regista di Brooklyn, ha lanciato recentemente un progetto per una fanzine di cucina queer chiamata PLAY. L’obiettivo è raccogliere ricette e opere d’arte di chef e artisti queer, con i proventi destinati a sostenere i diritti delle persone transgender. L’ispirazione per PLAY deriva dalla rubrica Get Fat, Don’t Die, dedicata alla cucina per persone con HIV/AIDS e pubblicata su Diseased Pariah News tra il 1990 e il 1999. Il cibo queer, secondo Hurtado, non riguarda solo chi lo prepara, ma il modo in cui viene cucinato o servito, sfidando le convenzioni e nutrendo chi spesso viene ignorato. Per lui, è un atto di rottura con gli schemi e un’opposizione simbolica al potere.

Detto ciò, è chiaro che nel panorama queer il cibo assuma una consapevolezza nuova. Il cibo non è semplice fonte di grassi, proteine, zuccheri o carboidrati; è piuttosto nutrimento del proprio senso di appartenenza alla comunità.

Questa comunità ha assunto il cibo come rappresentazione di un sé multiplo e senza barriere. Anche il cinema ne dà dimostrazione. Prendete Ferzan Özpetek. Il cibo è dimensione centrale nelle pellicole del regista turco, che da Le fate ignoranti a Mine vaganti rappresenta il cibo come forma di comunità. Il cibo, in Özpetek, è il collante che unisce le persone intorno un’unica connessione libera. La fame sale, ma sale anche la sensazione di sentirsi al sicuro, senza timore dei titoli di coda.

Un altro caso particolare (ve ne ho parlato qui) è il ruolo che il cibo ha nei film d’animazione Ghibli. Il cibo è qui ricercato come forma di validazione del sé: vuol dire che senza il cibo i personaggi non andrebbero incontro ai propri cambiamenti (e talvolta al proprio lieto fine). L’estetica del cibo nei film d’animazione dello studio nipponico è pura queerness: racconta di un sentimento trasversale, bidirezionale e aperto. Il cibo, insomma, seduce e si lascia sedurre.

Il cibo è queer quando cerca di sovvertire e ridefinire le norme sociali, persino quelle legate al modo di vivere esperienze quotidiane, come mangiare al ristorante. Le persone queer esistono ovunque: in ogni regione, Stato e città, attraversando confini di religione, razza e classe sociale. La nostra presenza ha sempre coesistito con la cultura dominante e a dimostralo è il cibo. Tuttavia, non esistono “zuppe queer” o “panini transgender”. Nessun condimento può rendere un piatto “bisessuale”, né una tecnica di cottura flambé trasforma un’anatra o un gelato in “omosessuali”. Questi termini appartengono alle persone, non al cibo, indipendentemente da chi lo abbia preparato o servito.

Il cibo queer continua la sua lotta contro gli stereotipi, invertendo le regole di un galateo che ormai non ha più niente da raccontare. La carne per gli uomini, l’insalata per le donne. La pasta in brodo per gli anziani, la cotoletta per i bambini. Il queer food disintegra le convenzioni, rivalutando i piatti a partire dagli ingredienti. Maggior spazio ai piatti vegan, più rispetto per i produttori locali e soprattutto nessun giudizio. Il queer food, insomma, alimenta la tua fame e la tua voce, rendendo il cibo una delle (poche) gioie della vita.

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