Quando abbiamo smesso di capire il mondo (e iniziato a occuparci solo di noi stessi) | Rolling Stone Italia
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Quando abbiamo smesso di capire il mondo (e iniziato a occuparci solo di noi stessi)

Il nuovo saggio di Guia Soncini, ‘L’economia del sé’, parla ‘di noi! di noi!’ (cit., anche se all’autrice non piace che venga specificato). Noi che ci sentiamo speciali, e invece siamo e resteremo dei venditori di prosciutto

Quando abbiamo smesso di capire il mondo (e iniziato a occuparci solo di noi stessi)

Foto: Orkun Azap/Unsplash

Dei libri degli amici non si scrive, lo dico sempre, ma poi se non lo fai non puoi taggarli sui social, e far sapere a tutti che sì, quello (quell*) lì lo (l*) conosci bene, è proprio amico tuo (altri asterischi), e ha pure scritto un libro, e vorrai mica non sfruttare un’occasione pubblica così ghiotta.

Leggendo L’economia del sé. Breve storia dei nuovi esibizionismi di Guia Soncini – ora in libreria per Marsilio, dal titolo si capisce di che parla: di noi, di noi! – mi sono venuti in mente due film, e lo scarto che testimoniano. Nurse Betty (da noi tradotto Betty Love) è del 2000: racconta di una cameriera (Renée Zellweger) che stalkera il simil-dottor Ross (Greg Kinnear) protagonista della sua soap preferita. Ingrid Goes West (da noi Ingrid va a ovest) è del 2017: racconta di una trentenne nullafacente (Aubrey Plaza) che stalkera un’influencer (Elizabeth Olsen) con milioni di follower.

È lo scarto tra quel che esisteva ieri e quel che c’è oggi. Con una sostanziale differenza, certo: la Betty di Renée non voleva essere il dottore della telenovela; la mitomane di Aubrey vuole invece diventare l’influencer. Ma è proprio qui che s’evidenzia il passaggio socioculturale: oggi viviamo solo presso noi stessi, al punto da diventare addirittura stalker di noi stessi – o della proiezione di noi stessi, fa differenza?

“Perché io valgo” (poi pluralizzato in “Perché voi valete”, con l’illusione che ciò sarebbe bastato a levare di torno l’egomania collettiva ormai scatenata) è lo slogan che ha rivoluzionato il nostro tempo. Oggi ha valenza (pardon) anche letterale. Ciascuno di noi vale qualcosa, da quando esistono i social (Soncini qui mi correggerebbe: no, da quando abbiamo tutti una telecamera in tasca). Non parlo dei dati privati regalati alle multinazionali: quelli se li possono pure pigliare tutti, che ce ne frega. Parlo di biografie. «È iniziata coi memoir dolenti: chiunque abbia avuto una qualsivoglia minima difficoltà, invece di farsela passare, ne ha fatto cifra stilistica e retorica», scrive Soncini (per non usare, saggia com’è, la parolaccia “storytelling”). Tutto è memoir, e il memoir ha valore di mercato, in tutti i sensi.

Quando abbiamo smesso di capire il mondo, titola un recente saggio Adelphi di grande successo nella bolla. Ci aggiungo il punto di domanda e rispondo: quando abbiamo iniziato a occuparci solo di noi stessi. Il mondo eravamo noi. Ho visto certe menti (non in partenza le migliori, d’accordo) della mia generazione, ma soprattutto della fascia appena più giovane, diventare divulgatori in un giro di Rolex (vabbè, di scroll) parlando in realtà solo e sempre di sé: sono loro il prosciutto in vetrina e in vendita, come dice Soncini, non i diritti civili di cui cianciano o il film del momento su cui hanno sempre qualcosa da dire – anche se la loro formazione cinefila è cominciata con Lost in Translation.

 

 
 
 
 
 
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Ho visto menti della mia generazione compiere mutazioni genetiche pur di esserci sempre: «Il guaio non è che i nuovi strumenti ci abbiano resi arroganti, o vanitosi, o scemi. È che ci hanno liberati dalla vergogna di esserlo», si legge nel libro. Ho visto menti della mia generazione compiere mutazioni genetiche pur di credere di valere qualcosa, di avere il giusto posizionamento (altra parolaccia, scusate), di accaparrarsi una qualsiasi occasione di lavoro: qualcosa in cambio l’hanno pure avuto, ed è giusto così, dopo tutta la fatica che hanno fatto per presidiare le storie di Instagram sette giorni su sette, ventiquattr’ore su ventiquattro. Ma nulla è cambiato davvero. Possono pure essersi procurati la tal rubrichetta sul tale giornaletto o essersi ammazzati di dirette con esperti di qualsivoglia campo (prima la pandemia, ora la guerra, in mezzo il lievito madre o Alexandria Ocasio-Cortez: va bene tutto): i follower che s’erano procurati uno a uno torneranno lì solo per vedere loro, in vetrina e in vendita, mica quello che hanno da dirci a seconda dell’hashtag in tendenza. «Forse l’economia dell’attenzione è quella cosa lì», scrive Soncini, «il tuo articolo non sono disposta a leggerlo, il tuo libro a comprarlo, il tuo partito a votarlo; ma, se c’è un ego da gratificare, eccomi pronta col mio cuoricino».

Quando abbiamo smesso di capire il mondo? Quando – e torno alla tesi principale del saggio – ci siamo tutti ritrovati con una telecamera in tasca: da allora il mondo mica esiste in quanto tale, siamo noi a confezionarlo a nostra immagine. C’è un passaggio in Serge, l’ultimo romanzo di Yasmina Reza appena uscito per Adelphi, in cui i tre fratelli Popper sono in visita ad Auschwitz. Li accompagna la figlia di Serge, Joséphine, che «fotografa (per la cinquantesima volta) i vagoni, fotografa la villetta color ocra. Fotografa incessantemente ogni cosa da stamattina. Che ci fai con tutte quelle foto? Alza le spalle». Tutti alziamo le spalle, ma tutti siamo pieni di foto (e di selfie) che un giorno posteremo. Per vendere un’idea di mondo – e di noi – a chiunque ci sia dall’altra parte. Per dire che c’eravamo davvero: «Vedi, amico mio, come diventa importante che in quest’istante ci sia anch’io», recita una frase (sapete di chi) messa da Soncini in epigrafe.

Nel libro di Soncini c’è tantissima gente: Chiara Ferragni e marito, Federico Rampini, Mike Bongiorno, Carlo Calenda, Brian Cox, Gianluca Vacchi, P.T. Barnum, Sophia Loren, Giorgio Mastrota, Barack Obama, Vittorio Gassman (inteso come Bruno Cortona), Ugo Tognazzi (inteso come Gigi Baggini), Sergio Castellitto (inteso come Giancarlo Iacovoni), Paul McCartney (con il memorabile teorema sulle canzoni memorabili), Niccolò Contessa (con una canzonetta che un poco memorabile lo è anche lei). C’è «un’overdose informativa», la stessa che c’investe ogni giorno, per cui è cronologicamente impossibile collocare il solito uovo e la solita gallina: «Nasce prima il meccanismo per cui vale la pena pubblicare tutto, o il declino di ciò che vale la pena pubblicare? Prima le piattaforme e la moltiplicazione dell’offerta, o la rarefazione del talento?». E parlando di rarefazione del talento («Se è mediocre […] la protagonista di Instagram, allora la mia mediocrità va bene»), allora ammettiamolo una volta per tutte: in questo libro ci siamo soprattutto noi. 

Tutti, leggendo L’economia del sé, penseranno a ogni pagina: ma questo sono io! Anch’io ci sono sempre, anch’io sono tutti i personaggi in scena. Ma, più di tutti, sono quello che vuole lasciare Twitter (e tutto il resto) perché mi fa schifo tutto il prosciutto che vedo ogni minuto, e mi fanno schifo tutti i salumai sempre lì pronti ad affettartelo (peraltro a fette grossissime). Probabilmente è una mutazione genetica anche la mia. Sono quello che prima postava qualsiasi penzierino (non è un refuso), che centordici anni fa scrisse addirittura l’instant-prosciutto L’amore ai tempi di Facebook (povero scemo) e che ora non pubblica più niente o quasi, e perciò si sente migliore degli altri, e vende questa nuova immagine di sé (perché nel frattempo ovviamente sui social è – sono – rimasto). Sono come Grace Dent nel 2011 e Caitlin Flanagan l’anno scorso: entrambe, citate nel libro, hanno più o meno annunciato che volevano mollare tutto (la prima in How to Leave Twitter, la seconda sull’Atlantic con You Really Need to Quit Twitter). Sono ancora lì, hanno ancora qualcosa da vendere, hanno ancora sé stesse da vendere.

Ma tanto, anche a volersene andare, l’economia del nostro tempo ci dice che sempre lì staremo. Nella testa degli altri resteremo a gestire il nostro prosciuttificio a vita, come il Rana dei tortellini, come l’Amadori dei polli. Due esempi recenti m’hanno convinto che nulla cambierà. Discutevo con una tizia su WhatsApp e lei, che giustamente sa di vivere nell’era dello screenshot, a un certo punto mi ha scritto: «Poi pubblicali su Twitter, mi raccomando» (ho già detto poche righe fa che non posto praticamente più nulla, figuriamoci le conversazioni private; ma a lei pareva impossibile che quel dissing così gustoso non diventasse di pubblico retweet). Nei giorni del Festival, un’altra amica mi ha domandato: «Dove commenti Sanremo?» (ho risposto: «A casa mia»; ma a lei pareva impossibile che, come tutti, non vendessi aggratis i miei fondamentalissimi status su Ana Mena).

Ho capito che nulla cambierà, che ha ragione Soncini, che siamo tutti Ingrid, che resteremo venditori di prosciutto per sempre. E adesso vado a postare il link di questo articolo: ho una scrittrice da taggare, ho un crudo fino fino da offrire ai miei clienti più affezionati.

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