Il 10 giugno è arrivato Belve Crime, il primo ospite è stato Massimo Bossetti. La sua storia “nei fatti” è stata introdotta da Stefani Nazzi, che per Il Post cura e conduce il podcast true crime Indagini. È stata un’inception, un crossover episode, e la glorificazione della passione collettiva per il racconto dei misfatti e dei casi irrisolti. Passione, sì, mica ossessione: ché già nell’etimologia del termine rimane tutta la sofferenza di una tensione che fa soffrire. La passione è qualcosa che getta fuori equilibrio e insomma, gli antichi lo ripetevano, un po’ di tranquilla atarassia, assenza di coinvolgimento da stimoli esterni, non farebbe male, in certi casi.
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La passione era stata evidente quando abbiamo cominciato ad ascoltare Veleno, il podcast che, ormai è scritto nei libri di storia, ha creato i podcast contemporanei in Italia. “Scritto da Pablo Trincia e Alessia Rafanelli”, quanto conforto e quanta anticipazione nella sigla che accompagnava nel mistero e nel marcio, quasi bambagia. Era il 2017 e ancora non lo sapevamo, quanto ci sarebbe piaciuto farci solleticare dal male e dal proibito. Cose che si vorrebbero toccare ma che, per paura e morale, giudichiamo mostruose.
Anzi, riscrivo: a dire il vero lo sappiamo benissimo, l’effetto che fa. Lo conosciamo da quando sono iniziate le storie, dalle fiabe (terrificanti nelle versioni originali in tedesco) dei fratelli Grimm al cinema del terrore. Ancora prima, nel Medioevo, il diavolo era ridicolizzato nei fabliaux e in storie assurde, magiche e profane, dove si finisce sempre nello scatologico e, si direbbe al bar, nel cazzaro. Perché questo è quello che facciamo quando abbiamo paura: esorcizziamo. Lo sapevano Aristotele e i suoi compagni tragediografi: alla fine di una vicenda straziante, oscura, pericolosa, deve arrivare la catarsi. La liberazione: dopo essere stati coinvolti fino ai gomiti in vicende scabrose, lasciamo andare. Siamo purgati dei nostri istinti nefandi, una volta viste le conseguenze. Nell’Antica Grecia, andare a teatro a vedere personaggi del mito che si ammazzavano contribuiva a mantenere l’ordine sociale.
Ma nei secoli prima di Cristo non viaggiavano con le cuffiette nelle orecchie, allora un modo per cui siamo arrivati qui, ora, ad accenderci l’ultimo episodio di Elisa True Crime mentre facciamo la lavastoviglie (pochi anni fa la cosa ovvia sarebbe stata accendere la tv, ma anche la radio) evidentemente c’è. La narrazione da podcast per come la fruiamo ora deriva da un game changer, Serial. È americano, prodotto dal New York Times insieme a Serial Productions. La prima puntata è stata trasmessa nel 2014, l’intento: raccontare e indagare storie di crimine e morti ammazzati.
Me lo spiega Andrea Federica de Cesco, giornalista freelance, autrice della newsletter-osservatorio Questioni d’orecchio ed Editorial Lead of Education & Strategy Consultant a Chora Media e Will Media. Che aggiunge che, differenza che nel mondo anglosassone, molto spesso nell’ambiente italiano i podcast true crime si limitano a ricostruire, senza andare ad aggiungere nuove scoperte al materiale già presente.
La chiamo perché pensavo che prima o poi sarebbe sceso, l’hype attorno alle narrazioni (nello specifico, audio) legate al mondo dei delitti e dei castighi. Invece, guardaci qua: il canale YouTube di Elisa De Marco (in arte True Crime) ha superato il milione e trecentomila follower e ha ora una rubrica su La Stampa; ancora Stefano Nazzi continua a registrare il tutto esaurito nei teatri quando recita Indagini; i documentari (di solito Netflix) nello stile di Sampa e Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio scatenano discussioni e minacciano di spezzare matrimoni. E poi, come giustamente mi ricorda de Cesco, i romanzi gialli e thriller vanno alla grande. E poi l’avete vista questa ondata di mostri & accolades al cinema? Una hit parade di successi.
«Il true crime risponde non solo al nostro essere intrinsecamente morbosi, ma è anche uno strumento di catarsi». Proprio come nei teatri dell’antichità. «Potrei essere io la vittima di una storia simile, o il carnefice di una storia simile. Covo questa paura e, ascoltandola, la scaccio. E la narrazione orale, in questi casi, è molto efficace nel creare immaginari, come le storie di paura con gli amici. Abbiamo sempre cercato questo tipo di emozione e di morbosità: che cosa succede quando qualcuno commette davvero fatti tanto gravi e irreparabili?».
Questa passione (eccola, la componente del dolore) si situa in un comparto, quello dei podcast, dinamico. Il che non vuol dire necessariamente sempre roseo o in crescita, però fluido. Facciamo una fotografia: secondo gli ultimi dati Ipsos (li ha citati proprio Andrea in Questioni d’orecchio), relativi al 2024, il 39% degli italiani tra i 16 e i 60 anni d’età ascolta podcast almeno una volta al mese. Si tratta di un dato quasi invariato rispetto al 2023. Il tutto ammonta a circa 12 milioni di persone. Chi ascolta? Il 39% è Under35, il 29% è laureato, il 13% ricopre una posizione di lavoro “elevata”. Gli studenti, poi, ricoprono l’11% del totale. Inoltre, secondo una ricerca svolta da Chora Media e ScuolaZoo, all’interno del comparto giovanile, quindi quello anagraficamente assegnato alle Gen Z, è ben il 46% ad ascoltare podcast almeno una volta al mese. Il 41% lo fa su base settimanale, il 13% su base giornaliera.
Da una grande domanda, quindi, deriva una grande produzione. No? Be’, sì. Anche perché, nei fatti, chiunque potrebbe attrezzarsi di microfono, chiudersi nell’armadio (omaggio a Beatrice Mautino ed Emanuele Menietti e al loro Ci vuole una scienza) e mettere online una puntata sul caso del Mostro di Firenze. Alla prova della realtà, è pure quello che accade. Provo a cercare “Mostro di Firenze” dal mio account Spotify (ricordiamo che non tutti usano la piattaforma svedese per fruire dei podcast) et voilà, parte uno scroll sicuramene non infinito – le particelle dell’universo superano ancora in numero le puntate caricate online – ma abbastanza consistente da tenerci impegnati per le giornate a venire. C’è Zodiac e il Mostro di Firenze, serie prodotta da Lucky Red. C’è la puntata che, nel maggio 2019, vi ha dedicato Demoni urbani (Francesco Migliaccio, perdonami, ti sto lasciando perdere da troppo tempo). Il 19 marzo 2024 la storia usciva su Muschio Selvaggio, un anno dopo o quasi passava anche su Pulp, nuova impresa di Fedez con Mr. Marra. Poi comincia il sottobosco: Direful Tales, Racconti di storia podcast, Crime&Comedy, Trame irrisolte, Italia nera, la lista non posso mettervela tutta qua.
A questo proliferare, se non siete dei fedelissimi della prima ora, magari avete però fatto caso recentemente. Ci spostiamo di regione e arriviamo in Lombardia, a Garlasco. La riapertura del caso legato all’omicidio di Chiara Poggi ha sparigliato le carte dei tribunali ma anche della cultura pop, perché di fatti i cold case che coinvolgono la stampa nazionale entrano nel bagaglio di conoscenze del popolo. Quelle cose di cui chiunque potrebbe discutere al bar. Non serve la canonizzazione: il fatto stesso che ognuno possa avere una versione diversa della “verità” parla per sé. Infatti, Andrea sottolinea che: «Un utente arriva a scoprire un podcast anche attraverso l’algoritmo di Spotify. Si presuppone che siano i migliori ad arrivare in cima alle classifiche, ma di fatto a ogni aggiornamento dell’applicazione, qualcosina cambia. C’è poi un altro tema: alcuni podcast potranno anche essere di scarsa qualità, certo, ma altri sono comunque podcast “con tutti i crismi”, ma che scelgono di spingere sul pathos per parlare di vicende, appunto, di morti ammazzati. Si perde un po’ il trattamento etico della materia, visto che sono coinvolti altri esseri umani. Poi certo, si incontrano purtroppo anche podcast con alle spalle un lavoro di scrittura e di ricerca scarso».
Non sono ragionamenti, sottolinea Andrea, diversi da quelli che si possono mettere in campo nel caso di serie tv o film tratti da fatti realmente accaduti (uno degli esempi più recenti e discussi: Avetrana – Qui non è Hollywood, di Disney+). Un pasticciaccio, perché, come sottolinea anche de Cesco, le storie che funzionano, alla fine, sono quelle che ci coinvolgono emotivamente (e che, lo diciamo spesso, “ci fanno male”, ancora questa passione). Qualche esempio lo faccio io: Il dito di Dio di Pablo Trincia sul disastro della Costa Concordia, E poi il silenzio – Il disastro di Rigopiano, dove ancora una volta è Trincia alla scrittura e narrazione, e poi, come una trinità, ecco Dove nessuno guarda – Il caso Elisa Claps. Trincia è un modello ma soprattutto uno bravo. Che a volte, sembra, agisce per recuperare storie viste anche troppe volte, ma mai nel verso in cui ci si attaccheranno davvero addosso. Perché? Perché i personaggi funzionano. Molte volte, quello che capita è il ragionamento opposto: i podcast di Elisa True Crime funzionano perché, in primis, funziona il suo personaggio, il resto a seguire (e sono i più ascoltati in Italia secondo dati del dicembre 2024).
«Nel suo caso nello specifico c’è il mix con la figura del content creator e dell’influencer, perché nasce come YouTuber. È interessante però vedere che lei non era famosa a priori, e poi si è data al podcast; al contrario, e vale anche per Pablo Trincia e Stefano Nazzi, professionisti di un ambito diverso rispetto a quello di De Marco». Questo, continua de Cesco, è un meccanismo tipico del podcast true crime. Nei podcast talk è molto facile “essere già qualcuno” e poi “mettersi a parlare davanti a un microfono”. «Il pubblico quindi lo si crea attraverso una propria capacità di narrazione. I podcast stringono relazioni parasociali molto forti. Ci sentiamo un po’ amici, anche se a senso unico, del podcaster che ci piace».
Figure, a ogni modo, di riferimento. Si potrebbe pensarli anche come una via facile per raggiungere la tanto, tantissima agognata celebrità dell’era digitale: anche un riconoscimento piccolo, ma che comunque validi. Che faccia sentire staccati dalla folla. Che cosa vede Andrea tra i banchi della Chora Academy, il programma educational in materia di podcast che segue per Chora Media? «Ti dirò: sono molti più quelli che arrivano da noi con l’idea di fare delle inchieste, solo che le inchieste sono molto difficili, senza una preparazione giornalistica di un certo tipo. Altri partono dalle storie personali. Nel true crime non ho mai davvero visto tanti progetti di questo tipo in ambito Academy».
Lo ammetto: io mi infilo nei ranghi degli scettici, quando si tratta di veder sbucare, sponsorizzata o spinta dall’algoritmo, l’ennesima puntata sull’ennesimo caso di cronaca nera. Anche perché anche nei formati, per carità, di successo come Indagini si arriva ad avere esaurito il materiale davvero-davvero forte, intrigante, e allora la palpebra mezza cala, l’orecchio si distrae e ti metti a pensare ad altro con i morti ammazzati in sottofondo. Forse è perché ci arrovelliamo, crediamo che ascoltando ancora una volta, ancora a una versione dei fatti, le cose cominceranno ad assumere un ordine, e come in un gioco di Cluedo potremo esclamare: la signora Green nello studio con il candelabro…
Oppure è che l’evasione di piace davvero troppo, e faremmo di tutto per dimenticarci di noi, giusto per un po’. Uscendone, dicevamo, persino sollevati: vabbè, a me le cose non stanno andando così male, alla fine.
Per citare il poeta (ma un poeta vero), comunque, codesto solo oggi possiamo dire: che i podcast true crime non hanno, a quanto pare, ancora smesso di saziarci, che siano impostati, fricchettoni, caciaroni (avete detto Non aprite quella podcast? L’avete detto voi, mica io), giornalistici, piccoli o grandi. Quella che sembrava una bolla si è sgonfiata, nel senso che non accenna a scoppiare, caratteristica precipua e necessaria, appunto, delle bolle. Quindi che diciamo? Eh, diciamo che forse hanno vinto loro, almeno per ora, loro con tutto il sottobosco.
Ora aspettate un attimo ma torno a ripassare due cose. Tra Falsissimo e Belve Crime, mi si sono accese delle teorie (avete visto quanto è ancora abbronzato, Massimo Bossetti?). E chissà che non venga da accendere il microfono pure a me…