Oggi magari sono gli occhiali di Meta a farci immaginare un futuro in cui digitale e reale saranno una sola cosa – il nome ce lo inventeremo, con buona pace dell’orrido phygital -, ma un giorno, all’origine di tutto, c’è stato Pokémon Go.
Non è una teoria o un’esagerazione, ma quello che mi dice Guido Maria Brera quando mi racconta la nascita di Be Water, la casa-madre, oggi, di realtà come Chora, Will Media e Be Water Film. «Era il primo esperimento che vedeva il virtuale colonizzare il reale. È stato uno studio, come dire. E gli utenti attraverso il gioco potevano scoprire luoghi nel mondo reale. Siamo partiti da lì, da questo concetto, per riempire le piazze e unire questi due universi».
La città d’altronde, per Brera, è una media company. Ma facciamo un passo indietro: Be Water nasce, anche se sembra un’utopia, per dare una forma diversa al presente. E immaginare un’entità, così mi racconta Brera, «per ridisegnare il concetto di media in un mondo che è cambiato e che cambia alla velocità della luce».
Non possiamo insomma, anche se ci potremmo essere abituati, pensare ai podcast di Chora, per esempio, come a una realtà separata, fluttuante nella bolla. Non possiamo pensare solo alle notizie di Will, agli eventi “a marchio”. O meglio, potremmo, ma ci perderemmo tutto il resto del corso (d’acqua, s’intende). Be water come la frase di Bruce Lee. Be water per andare là dove porta il flusso, che in questo senso vuol dire anche “l’attenzione del pubblico”.
Perché il punto sta qui, ma non come si potrebbe pensare. Brera – che conoscerete per I diavoli, per il podcast Black Box, e per la sua precedente carriera nella finanza, forse – non intende inseguire l’algoritmo, l’attenzione da noia e metropolitana. Non si tratta, qui, di contenuti usa e getta, ma di resistenza. Non si può ignorare insomma dove si sposta il corso, e la scelta può essere solo quella di navigarlo in maniera intelligente. Esattamente come l’ispirazione presa da Pokémon Go.
Un momento dei Chora e Will Days. Foto: cortesia
«Il nostro mestiere è raccontare storie. Quando ci raccontano che il futuro sarà mediato da capannoni in silicio che conterranno tutti i nostri dati, ovviamente fa paura, anche perché si tratta di dare in mano a tre aziende tutti i nostri dati. Ecco, sì, questo è un futuro che fa paura, e che al momento è una terra di nessuno, invece, politicamente, dovremmo esserne preoccupati. Ma non è questo quello che abbiamo in mente, tutto il contrario. Viaggiare verso un futuro integrato tra fisico e digitale significa creare l’alternativa a questo sviluppo spaventoso. Le storie sono fatte per aprire le coscienze, per educare e raccontare il mondo giornalisticamente. È questo che può dare a ognuno gli strumenti per evolvere».
Pare quasi un imbuto, un funnel, come dicono. Un buco di coniglio dell’internet, detta scherzando un po’. Cominci dai podcast di Chora, ti piacciono, cominci a scoprire tutto il resto. In meno che non si dica, anche tu sei entrato in questa setta. «La nostra gemma sono i podcast, siamo partiti da lì. Abbiamo sempre lavorato per sviluppare delle grandi storie, anche pensando di farne meno di altri. Ma perché è come Amazon: il loro business model non è mai stato consegnare pacchi, ma raccogliere e vendere dati. Il nostro business model non è mai stato vendere podcast e podcast narrativo in particolare, che sono molto difficilmente monetizzabili. I podcast sono un modo rapido, efficiente, e di qualità alta per fissare una proprietà intellettuale. Da lì si declina per il resto: dall’audio passiamo al video, dal video passiamo al live. Perché il nostro scopo è sempre stato questo: portare i prodotti del mondo digitale in quello reale».
Questo è importante. Lo è perché tanti hanno gridato alla bolla, sull’onda del successo dei primi, effettivamente abbastanza folgoranti podcast di Chora e della rapida escalation del progetto. Malelingue, invidia, legittimi dubbi: la sostanza non cambia. “Era già tutto previsto”. Quello che ascoltiamo oggi potrebbe arrivare in teatro domani.
Un momento dei Chora e Will Days. Foto: cortesia
Ci sono dei temi, comunque. Non che, sbloccata la formula, il resto venga da sé. Un problema, per esempio, è quello del mercato. Non è molto italiano, questo sistema di Be Water. È un bene, è un male. «A livello sistemico l’Italia è ancora a un’impostazione da piccoli staterelli, quindi pensare a qualcosa di grosso spesso è difficile. Non abbiamo un sistema statale di supporto stabile per le azienda. In più, storicamente, siamo stati colonizzati da gruppi mediatici stranieri, non il contrario. Che invece è proprio quello che vogliamo fare noi, perciò ci sono alcune cose da risolvere. La prima è la barriera linguistica. Qui ci può venire incontro l’Intelligenza Artificiale, aiutandoci nella traduzione vocale dei contenuti in italiano».
Dal nostro (cioè mio) punto di vista ce n’è anche un altro: non fanno mica solo podcast narrativi, in casa Be Water. «È vero, il podcast narrativo ha avuto un’esplosione e poi un ritorno. Ma avevamo già giocato d’anticipo su questo, sviluppando un altro filone che sta emergendo molto in questi ultimi tempi, negli Stati Uniti: il podcast di informazione e di politica, nel senso di salotto politico. L’elezione di Donald Trump nel 2024 è stata denominata la “podcast election”, proprio perché la partita sembra sia stata vinta al tavolo di podcast come quello di Joe Rogan, mentre quella precedente l’aveva vinta sui social. Siamo in un panorama diverso insomma. Quello che abbiamo fatto è stato costruire un palinsesto per la giornata, cominciando con le news la mattina e sviluppandolo poi man mano. Di fatto, Will ha contaminato Chora e Chora ha contaminato Will».
Uno degli ultimi risultati di questi sforzi è stato il podcast Urban Echoes, realizzato in collaborazione con Urban Vision. Un modo per entrare nelle piazze con un’offerta diversa, raccontando il luogo attraverso cui si sta transitando e che si sta vivendo da un altro punto di vista: quello delle persone che li hanno frequentati. Insieme a piccole chicche più sconosciute, sempre in ottica di approfondimento e storytelling. La voce è quella di Camilla Ferrario, e grazie agli schermi di Urban Vision sarà possibile “incontrare” il podcast per strada, approfondendo il discorso attraverso un QR di rimando a diverse piattaforma di ascolto. Quindi la piazza nel senso di punto focale di una polis, non solo come indirizzo. Anche qui, nell’ottica di ibridazione tra dentro e fuori dallo schermo.
«Il nostro percorso è questo, può sembrare quasi un’utopia. Dicono che l’esperienza è quello che ottieni quando non riesci a raggiungere i tuoi obiettivi. Perciò, al massimo, faremo esperienza. O spianeremo la strada a qualcuno che ci riuscirà dopo di noi».
Rimane un’ultima questione: dove si posizionerà, politicamente, questa azione? O meglio: chi sarà la parte politica che se la intesterà prima dell’altra? Ma questa, anche per noi, è una domanda aperta. E questa storia, per ora, finisce qui.
