Cos’hanno in comune Chuck Bass, Royal Tenenbaum, Johnny Marco (protagonista del film Somewhere) e i due giovanissimi Zack e Cody dell’omonima serie tv, quella “al Grand Hotel”? Esatto, vivono tutti in albergo. Chuck Bass nella penthouse del suo Empire Hotel di New York, Tenenbaum al Lindbergh Palace Hotel di Manhattan (che in realtà è il Waldorf Astoria), Johnny Marco nel leggendario Chateau Marmont di Los Angeles e i gemelli Zack e Cody all’hotel Tipton di Boston (che non esiste).
Certo, sono personaggi di fantasia, ma tutti noi abbiamo sognato almeno una volta di fare come loro. Per quanto mi riguarda, durante le domeniche più deprimenti mi capita di rifugiarmi in piani immaginifici a tema hotel, i quali prevedono la vincita di un’agognata schedina del Superenalotto e poi l’impiego della relativa somma. Le mie fantasie in questi casi si concentrano sul Carlyle Hotel, storica struttura di New York (alla cui base si trova il celebre Bemelmans Bar), dove alcune camere sono state comprate da fortunati e ricchi privati. Nell’attesa di imbroccare quella giocata vincente, torniamo con i piedi per terra e vediamo nella realtà chi, tra i clienti degni di attenzione, è riuscito davvero a vivere il sogno.
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Il primo esempio non scomoda un grande patrimonio e un albergo famoso, insomma non come una delle mie domeniche. “Una vita in vacanza”, questo devono aver pensato David e Jean Davidson, coppia di pensionati inglesi, quando hanno deciso di trasferirsi definitivamente in un Travelodge. Si tratta di una catena alberghiera, con sedi situate fuori città, in prossimità delle autostrade, dalle cifre contenute e pensata per chi ha poche pretese e cerca una camera con il minimo indispensabile per dormire prima di ripartire per un viaggio, d’affari o di piacere, o di tornare alla vita di tutti i giorni.
Nel 1985 i coniugi ebbero la prima positiva esperienza con la catena, continuarono poi a frequentare questi hotel ogni weekend, in occasione di alcune trasferte per curiosare alle varie fiere dell’antiquariato. Almeno fino al 1997, quando decisero che la cosa migliore fosse stabilirsi permanentemente in una di queste strutture. Nonostante una casa di proprietà a Sheffield, i due scelsero così di vivere nel Travelodge di un’area di servizio, sull’autostrada A1, nelle vicinanze della cittadina di Gonerby Moor, nel Lincolnshire. La scelta fu ben ponderata, infatti seguirono le attività di costruzione dell’intero edificio e furono i primi a soggiornare in quella particolare sede: si registrano il giorno dell’inaugurazione. David, veterano della Seconda Guerra Mondiale, ex marinaio della Royal Navy, commentò così la loro scelta: «Abbiamo tariffe vantaggiose perché prenotiamo con largo anticipo e abbiamo persino una governante personale. Non c’è niente di meglio, vero?». Dopo dieci anni di vita in albergo, la direzione ha deciso di omaggiare la coppia con una placca fuori dalla loro camera, la numero 1, che è stata ribattezzata “The Davidson’s Suite”. Quanto hanno speso per la loro “vita in vacanza”? Centomila sterline circa.
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Ma non bisogna avere paura di sognare in grande, e con tutto il rispetto per il Travelodge affaccio parcheggio-autostrada, le nostre pretese sono più alte. Procediamo quindi con la prossima cliente, che ha avuto a disposizione cifre più cospicue. Tocca all’icona della moda Coco Chanel, la quale ha soggiornato presso il prestigioso Ritz Hotel di Parigi per ben 34 anni, ovviamente in una suite. L’albergo è stato scelto a suo tempo non solo perché elegante e consono al personaggio, ma anche perché il numero 15 di Place Vendôme era molto vicino al suo atelier, al civico 31 di Rue Cambon. Fu così che il Ritz divenne “ma maison” per la stilista, tanto che iniziò ad arredare la suite. Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald hanno qui camere a loro dedicate (il primo ha anche il celebre bar a suo nome), ma quella intitolata a Coco Chanel ha qualcosa di speciale per il fatto che venne eletta a dimora fino al giorno della sua morte, avvenuta il 10 gennaio 1971.
Oggi la suite n. 302 oggi non è arredata come al tempo in cui la couturier francese la abitava, ma i cambiamenti sono stati fatti da qualcuno di competente. Nel 2016, Karl Lagerfeld, storico direttore creativo di Chanel, si occupò di ridefinire l’appartamento dedicato alla fondatrice della casa di moda francese, nel rispetto dell’eredità stilistica e della personalità di Coco. C’è anche spazio per un colpo di scena artistico: durante l’attività di ristrutturazione è stato scoperto un dipinto dell’artista Charles Le Brun, Il Sacrificio di Polissena (1647), che è stato poi venduto da Christie’s per 1,88 milioni di dollari. La suite è oggi prenotabile, ma se siete interessati a riservare una notte parigina qui, mi permetto di sconsigliarvelo: la cifra può toccare i 40.000 euro, meglio evitare.
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Continuiamo. Horacio Ferrer, poeta e drammaturgo uruguaiano naturalizzato argentino, un giorno si recò all’hotel Alvear di Buenos Aires per intervistare Joan Manuel Serrat e finì per innamorarsi del posto. Così, appena fu possibile, cioè nel 1976, decise di comprare un appartamento all’ottavo piano e di stabilirsi definitivamente lì insieme alla moglie. «Il grande vantaggio di vivere in un hotel è che tutti i vicini sono residenti temporanei, non sei obbligato a incontrarli». L’albergo è stato costruito nel 1932 in stile Belle Époque e nel corso della sua lunga attività ha ospitato numerose celebrità tra cui Sean Connery, Walt Disney, Orson Welles e pure Fidel Castro. Il Principe Aimone, duca d’Aosta, dopo essersi trasferito in Argentina a seguito della nascita della Repubblica italiana soggiornò in questo albergo fino alla sua morte. Christina Onassis comprò la suite n. 334 e si dice che la usasse solo per telefonare in completa privacy. Insomma, un luogo che avrebbe tante storie curiose da raccontare, come tutti gli hotel del resto. Tornando a Horacio Ferrer, il poeta ha vissuto all’Alvear per 38 anni, anche lui fino al giorno della sua dipartita, nel 2014. Il record di permanenza in un hotel è suo? Penso di sì, ma con un asterisco.
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Facciamo un salto negli Stati Uniti, costa pacifica, California, Los Angeles. Qui di alberghi iconici ce ne sono almeno cinque: Chateau Marmont, Beverly Wilshire Hotel, Hollywood Roosevelt Hotel, Hotel Bel-Air e Beverly Hills Hotel. Quest’ultimo è stata la prima struttura di un certo prestigio dedicata all’ospitalità ad aprire nella Città degli angeli, il 12 maggio 1912, e più degli altri si è accreditato e ha saputo mantenere nel tempo lo status di albergo di lusso; del resto l’adagio che da sempre lo contraddistingue è “se vuoi farti vedere, vai al Beverly Hills Hotel”.
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Tratto distintivo degli hotel losangelini è avere, oltre alle camere, anche dei bungalow in cui poter alloggiare. In particolare quelli del Beverly Hills Hotel, immersi nella folta vegetazione, quasi una piccola foresta, simboleggiano la ricchezza e l’importanza del cliente secondo i canoni dello stile californiano, dove tutto è riconducibile a una scena di un vecchio film di Hollywood e ogni aspetto contribuisce a creare un mito. Howard Hughes, eccentrico miliardario, riservò a suo nome diverse camere e bungalow per un periodo di 30 anni (pur non vivendoci in modo continuativo), creando qualche problema alla direzione. Riservare stanze senza poi presentarsi, celarsi al pubblico, non fare mai servizio in camera (anche se c’è chi dice che invece ogni sera ordinava un sandwich al roast beef ben incartato e poi adagiato su un albero fuori dal suo bungalow) furono side effects tollerati per molto tempo ed etichettati come le stravaganze di un miliardario, ma divennero poi condotte malviste.
La prenotazione trentennale del tycoon texano finì quando decise di togliere il disturbo e trasferirsi insieme alle sue follie a Las Vegas, al Desert Inn, hotel che poi comprò per evitare ulteriori rogne. Eppure, l’uomo dei record dell’aviazione non detiene il primato di permanenza in un albergo, che forse va invece riconosciuto a Irving V. Link. Dico forse perché, a differenza dei precedenti esempi, quest’ulteriore curioso personaggio non aveva una camera prenotata al Beverly Hills Hotel. Ciò nonostante, Mr. Link l’ha frequentato (sicuramente più di Hughes), in special modo la piscina, ogni singolo giorno per ben 42 anni, o se preferite 15.000 volte. Praticamente era parte del mobilio.
La storia di Irving è tornata in auge emergendo dagli archivi del New Yorker grazie a un post su Instagram di alcuni giorni fa. Nel 1993 il magazine americano gli dedicò un bellissimo articolo a firma di Adam Gopnik che fece un dettagliato resoconto del personaggio intervistandolo poco prima della chiusura (temporanea) per ristrutturazione a seguito dell’acquisto da parte del Sultano del Brunei. Ogni mattina Irving arrivava a piedi da casa sua, poco distante, salutava i dipendenti e si sedeva alla Polo Lounge per fare colazione. Dopodiché andava nella sua personale cabana nella zona piscina, indossava il costume da bagno quindi prendeva il sole in una chaise-longue. Pranzava al Patio Club o al Bistro Garden, nella vicina Canon Drive. Poi tornava in piscina e prendeva posto a un tavolo per la sua consueta partita di gin, intrattenendosi con gli ospiti dell’hotel, creando rapporti, conoscendo nuove persone. Rincasava solo per cenare con la famiglia, anche se, negli ultimi anni, rimasto vedevo, preferiva fare il bis al Bistro Garden.
Questa lunghissima routine fu interrotta solo due volte: per la ristrutturazione dell’hotel nel 1993 (i lavori durarono due anni e Irving fu “costretto” a riparare al Peninsula dopo essere rimasto deluso dal Beverly Hilton) e all’inizio degli anni Sessanta quando ebbe uno screzio con Bobby Kennedy il quale lo intimò di collaborare nelle indagini contro Jimmy Hoffa, noto sindacalista legato alla mafia. A riguardo, in breve, la storia è questa: la figlia di Irving aveva sposato un uomo il cui padre gestiva il fondo pensione dei Teamsters (cioè il sindacato degli autotrasportatori di USA e Canada) e il fratello di JFK credeva che il nostro habitué dell’hotel potesse scoprire/sapere qualcosa contro il faccendiere. «Link, fai come ti dico, o sarai nei guai», sentenziò il procuratore generale mentre si trovava alla Polo Lounge. Per un po’ di tempo il signor Link ebbe delle rogne e limitò la sua “esposizione”, per esempio facendo colazione al Fountain Coffee Shop – sempre nell’hotel – anziché alla Polo Lounge, e quando le acque si calmarono tornò alla sua personale quotidianità. Vi state chiedendo che lavoro facesse per avere questo stile di vita? Una persona che sta tutto il giorno in piscina a giocare a carte, al Beverly Hills Hotel di L.A., non può far altro che l’intermediario, cioè mettere in contatto persone facoltose e prendere una percentuale dell’affare che ne nascerà (che sicuramente sarà molto redditizio).
Irving, seppur in modo esagerato, ha fatto qualcosa che è tipico negli States e che ultimamente sta avendo un discreto riscontro anche in Italia, cioè frequentare hotel di lusso per quanto consentito a chi non ha una camera riservata. Nella mia personale esperienza posso dire di aver pranzato alla Polo Lounge con il solo fine di oziare poi tutto il giorno tra i corridoi e le sale del Beverly Hills Hotel senza ovviamente fermarmi a dormire (cifre folli), stessa cosa a Venezia al Bar Longhi del Gritti Palace (anche qui, cifre folli) per godere di una vista privilegiata sul Canal Grande.
Su Foster Magazine si scrive di una nuova vita per gli alberghi, anche attraverso la definizione di “terzo luogo” data dal sociologo Ray Oldenburg – “spazi informali che si collocano tra casa e lavoro”. Il che non solo definisce la vita del nostro ultimo protagonista, ma certifica anche la soluzione al problema iniziale per questi «luoghi di lusso, ma non esclusivi». Per mettere in atto il nostro sogno di vivere in albergo, non ci resta quindi che assaporare l’esperienza da avventori del bar, del ristorante e della piscina, magari non 15.000 volte. Un giusto compromesso, in attesa di quell’anelata schedina.