Perché ci siamo innamorati (di nuovo) delle newsletter? | Rolling Stone Italia
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Perché ci siamo innamorati (di nuovo) delle newsletter?

Hanno alle spalle quasi quarant'anni di storia, ma continuano a rimanere in auge: abbiamo intervistato Dan Oshinsky, fondatore di 'Inbox Collective', per farci raccontare il dietro le quinte di una newsletter di successo

Perché ci siamo innamorati (di nuovo) delle newsletter?

Foto via Unsplash

La maggior parte delle nostre attività online è influenzata da algoritmi di vario tipo. L’unico luogo in Rete dove, per il momento, abbiamo ancora il controllo è la casella di posta elettronica. Uno spazio che possiamo gestire a nostro piacimento, dove entra ed esce solo ciò che vogliamo noi (per tutto il resto c’è la spam, così chiamata in onore di uno sketch del 1970 del gruppo comico Monty Python).

Oltre alle email che ci scambiamo con colleghi, capi, amici e parenti, tra i protagonisti della posta elettronica ci sono le newsletter. Vale a dire, i bollettini digitali che giornali, professionisti della comunicazione, esperti, dilettanti e aziende inviano al loro pubblico di riferimento per informarlo di qualcosa. È già da qualche anno che si parla di boom delle newsletter e continuano a spuntarne di nuove sugli argomenti più disparati.

In questo senso molti le paragonano ai blog, che hanno ormai superato la soglia dei 600 milioni. Le persone sembrano esserne sempre più attratte, anche grazie alla facilità di accesso alla casella di posta elettronica (basta possedere un qualsiasi device ed essere connessi a internet).

«Per chi le invia, le newsletter sono un’opportunità per costruire una relazione. L’email è un modo fantastico per conoscere il proprio lettore», commenta Dan Oshinsky, che dopo avere lavorato come direttore delle newsletter per BuzzFeed prima e per il New Yorker poi ha fondato Inbox Collective, servizio di consulenza per aiutare i brand ad accrescere l’audience, costruire relazioni e ottenere risultati tramite l’email. «L’autore di una newsletter può condividere quello che desidera con i propri lettori e chiedere loro di rispondere. Ho scoperto che è più probabile intraprendere una conversazione profonda via email che sui social network. L’importante è assicurarsi di capire cosa i lettori hanno bisogno dalla nostra newsletter e tenere a mente che la casella di posta elettronica è il loro spazio: dobbiamo guadagnarci la fiducia di chi ci legge». Probabilmente è proprio la loro capacità di instaurare un dialogo diretto e, in qualche caso, intimo con i loro destinatari a spiegare il boom delle newsletter, un medium che alle spalle ha oltre quarant’anni di storia: la prima, EMMS (Electronic Mail and Message Systems), fu inaugurata nel 1977 e sopravvisse fino al 2001. In mezzo al turbinio di notizie, pubblicità, commenti, critiche e riflessioni che affollano i nostri feed sui social, le newsletter rappresentano infatti un rifugio, uno strumento che ci aiuta a individuare ciò che è davvero importante o interessante – a fare ordine, in altre parole.

L’esplosione delle newsletter è cominciata qualche anno fa negli Stati Uniti con la creazione dei primi servizi dedicati, a partire da TinyLetter nel 2010 (presto acquisita da MailChimp, servizio di email marketing). Ed è stata in gran parte merito di donne. Così com’è stata una donna, Dany Levy, a lanciare la prima newsletter di successo, DailyCandy, dove la giornalista dal 2000 al 2014 ha suggerito ai newyorkesi, e poi anche agli abitanti di altre città, i posti più trendy dove andare, i prodotti da acquistare, gli eventi a cui partecipare: quando nel 2008 è stata venduta a Comcast per 125 milioni di dollari contava 2,5 milioni di iscritti. Nel 2012 Danielle Weisberg e Carly Zakin hanno dato vita a theSkimm, newsletter quotidiana con oltre sette milioni di iscritti che offre una selezione delle notizie più importanti della giornata. L’anno dopo è stata la volta di the Ann Friedman Weekly, con una selezione di link che rimandano ad articoli, video, canzoni, podcast e prodotti di vario genere (gli iscritti sono più di 55 mila). E poi ne sono arrivate moltissime altre: da Stratechery di Ben Thompson, analista che si occupa di tecnologia e media, ad Axios, network di newsletter di notizie fondata nel 2016 da tre ex giornalisti di Politico, passando per Morning Brew, newsletter sul business letta da oltre quattro milioni di giovani professionisti di cui Insider Inc. (la società madre di Business Insider) nell’ottobre 2020 ha comprato una quota di maggioranza per 75 milioni di dollari.

Ma le newsletter spopolano anche nel nostro Paese, dove le legge il 15% della popolazione: sia quelle di giornali e realtà strutturate come Good Morning Italia sia quelle indipendenti (molte fanno parte del network Newsletterati o sono inserite all’interno di Mindit, un’app che raccoglie svariate newsletter indie italiane).

Chiunque, del resto, può realizzare una newsletter. La difficoltà sta nel riuscire a guadagnarci. «Chi lavora su una newsletter deve pensare alla monetizzazione sin dal primo giorno», raccomanda Oshinsky, che tra le altre cose cura Not a newsletter, un documento Google con notizie sul settore che aggiorna ogni mese. «L’obiettivo è fare in modo che i lettori diventino sostenitori paganti, per esempio tramite un abbonamento? Oppure si preferisce monetizzare vendendo prodotti, come corsi, libri o merchandise? Vendendo pubblicità? Usando la newsletter per pubblicizzare i propri servizi?». Friedman chiede ai suoi lettori un contributo su base volontaria, mentre Thompson è stato tra i primi a optare per l’abbonamento. Il modello scelto da Thompson si è diffuso dal 2017 con la comparsa di Substack, Buttondown, Revue e altri servizi simili che consentono di creare newsletter a pagamento. Negli ultimi anni sono stati molti i giornalisti che hanno deciso di lasciare la testata per cui lavoravano per lanciare newsletter indipendenti basate sui servizi appena citati. Con lo scoppio della pandemia, che ha causato una crisi piuttosto forte anche nel giornalismo, gli esempi di questo genere sono aumentati – tra i tanti ci sono quelli dell’ex firma di The Verge Casey Newton, che ha lanciato Platformer, e di Glenn Greenwald, che si è dimesso da The Intercept in nome della libertà editoriale e ha dato vita alla propria newsletter su Substack.

Un fenomeno analogo iniziò quasi un secolo fa, quando Claud Cockburn si licenziò da The Times per divergenze ideologiche e, munito di ciclostile, creò la propria newsletter, cartacea nel suo caso, The Week. Al principio aveva solo sette abbonati, ma col tempo le cose migliorarono: The Week fece diversi scoop (tra gli altri, nel giugno 1936 preannunciò il colpo di stato in Spagna) e arrivò a conquistare decine di migliaia di lettori, tra cui Charles Chaplin ed Edoardo VII. La scommessa, oggi come ieri, è costruire una comunità di persone interessate alla propria nicchia attraverso contenuti di qualità. Non è facile, e peraltro a leggere le newsletter al momento sono soprattutto gli adulti.

La stessa Substack, dopo avere attratto nomi come gli scrittori George Saunders, Salman Rushdie e Chuck Palahniuk, lo scorso giugno ha licenziato 13 dei suoi 90 dipendenti a causa delle «incerte prospettive macroeconomiche». E dopo meno di due anni dal lancio Meta ha chiuso Bulletin, il servizio con cui ha provato a competere con Substack. Sopravvive invece Revue, servizio per creare newsletter che Twitter ha comprato nel gennaio 2021 e che ha poi integrato nella propria piattaforma.

Come insegna Cockburn, per procurarsi da vivere con gli introiti di una newsletter ci vogliono pazienza e costanza. E soprattutto bisogna sperare che i lettori, subissati da newsletter, non cadano vittime della “newsletter fatigue”: il nemico numero uno di chiunque ne cura una è proprio il link “unsubscribe”.