Si sa, il soft power è una cosa seria. Principesse guerriere, streghe, creature magiche. È anche così che la cultura di una nazione fa breccia nell’immaginario di un altra. Ramen ancora bollente, bento appena impacchettati, pancetta che scricchiola in padella. Il cibo è un’arma potente, quando si tratta di sfondare i cuori delle persone. E i film dello Studio Ghibli, povera la nostra immaginazione, sono sempre andati forte in questo.
Naturalmente, da un grande potere… eccetera. E il cibo, dalle parti di Miyazaki & soci, non è mai piazzato lì per puro caso: anche una semplice fetta di pane ha un significato simbolico. Lo stesso, poi, si associa a parametri culturali e sociali tipici del Giappone. Servirebbero corsi universitari per sfogliarli tutti, e invece il cibo ce li fa arrivare direttamente. È una questione di bravura nella tecnica dell’animazione, certo. Ma anche e soprattutto di identità, legami e pratiche culinarie. Senza mai cedere all’erotismo della gola, troppo spessa pornificata.
Nella vita reale il cibo invece, certo, è desiderio. Quello che noi occidentali abbiamo alimentato per molti anni, affollando ristoranti all you can eat con la convinzione di poter così far parte del mondo globalizzato anzi, glocalizzato. Dunque è colpa dello Studio Ghibli se offendiamo i maestri sushi ingurgitando vassoi di hosomaki Philadelphia e cetriolo? Domanda sbagliata. Ecco quella giusta: che cosa farebbe Totoro al posto nostro? Sfrutterebbe consumisticamente l’accessibilità della “cucina giapponese” (virgolette doverose), si riempirebbe il cestino al minimarket orientale di dolcetti a forma (giuro, eh già) di se stesso? Sushi e compagnia bella hanno reso più facile comprendere la cultura giapponese, concediamolo. Il rischio, però, è quello di limitare la propria conoscenza al cibo che più si conosce, quello più mainstream, più commerciale, dimenticando il resto. Rimanere sulla superficie senza affondare il colpo.
In questa partita, lo Studio Ghibli si posiziona, mi pare, come un battitore consapevole: conosce il suo Giappone, ma anche i termini di rappresentazione degli altri paesi. Una presa di coscienza che vuole farsi collettività, perché nei loro film, niente e nessuno è escluso (ed ecco perché parlano a tutto il mondo). Lo studio d’animazione usa il cibo per distruggere i confini culturali, geografici, fisici e politici. Ecco perché ci viene fame quando guardiamo La città incantata, Ponyo o Il castello errante di Howl: conosciamo o crediamo di conoscere tutti i gusti che vengono rappresentati. Cerchiamo di avvicinarci a quell’onigiri, a quel brodo dorato, a quel ricco buffet attraverso memorie sensoriali e immaginarie. La stessa immaginazione che permette, ancora oggi, di trovare negli scaffali del supermercato il riso per sushi, l’olio di sesamo, il wasabi, la salsa yuzu. Inoltre, in ogni titolo Ghibli c’è sempre un diverso modo di approcciarsi al cibo. Lo stesso cibo può diventare nutrimento per i buoni, ma anche per i cattivi, andando anche a influenzare la trama stessa dei film.
La città incantata è l’esempio più rappresentativo di come il cibo muti il suo valore con l’evolversi degli stessi personaggi. Qui il cibo è abbondanza, ricchezza, energia e ricompensa. Il cibo assume in ogni scena un valore nuovo, sia per i personaggi che per lo spettatore. Il cibo come abbondanza, il cibo come punizione. In una delle prime scene, i genitori di Sen (all’anagrafe Chihiro) si abbuffano di cibo in un locale apparentemente abbandonato, in cui ogni prelibatezza è apparecchiata per essere consumata. Difficile tirarsi indietro. Tra queste, infatti, c’è anche il famoso stomaco traslucido di un celacanto (Latimeria).
Dopo essersi abbuffati, i due si trasformano in maiali. Una metafora bodyshaming della nostra vita. Si diventa maiali non per la quantità di cibo consumato, ma per il mancato rispetto. I genitori di Sen ingurgitano senza neanche accorgersene. I sapori, le forme, i gusti si assimilano per diventare un semplice riempitivo (di stomaco). C’è di più: il banchetto, destinato alle divinità e non di certo a due esseri umani, è metafora della bolla economica giapponese degli anni Ottanta, andando così a evidenziare i pericoli dell’avidità e dell’eccesso che condussero a una profonda crisi finanziaria.
Ma il cibo è anche rigenerazione e consolazione. Dopo essere rimasta sola, Sen può affidarsi solo all’aiuto di Haku, che in una scena le dona degli onigiri, per risollevarle il morale. Che cosa ci sia dentro non è dato saperlo. Sappiamo solo che sono confezionati in una foglia di bambù essiccata (takēnokawa). Potremmo supporre la presenza dei fagioli rossi azuki: l’anko, la classica marmellata di fagioli, è tra i ripieni più popolari in Giappone. Sta di fatto che questi onigiri sembrano avere un potere magico. A ogni boccone Sen rinasce, fino al momento in cui si lascia andare a un pianto rigeneratore.
Di più: procedendo nel film, il cibo diventa uno strumento di scambio per accontentare il Senza Volto e ottenere in dono il suo oro. Lui ingoia ogni prelibatezza, tra sushi, calamari e patate dolci per riempire un vuoto (non a caso il suo stomaco è trasparente). Un vuoto a cui si oppone Sen, che continua a rifiutare i doni della creatura. Ed ecco emergere la rappresentazione consumista del cibo. Il Senza Volto è consapevole di non aver bisogno di tutto quel cibo, ma il suo consumo è funzionale: è l’unica via di uscita per ottenere le attenzioni di Sen. Arriva a ingoiare anche alcuni dipendenti dei bagni pubblici. Basterà una polpetta magica per far ritornare tutto come prima. In fin dei conti, La città incantata mostra al mondo il valore trasformista del cibo: prima come punizione, poi come dono, infine come riconoscenza verso l’altro.
Andiamo oltre. Ne Il castello Errante di Howl il cibo assume il ruolo di negoziatore, nel senso che nutre se stessi ma anche gli altri, in un vortice di ruoli che cercano una forma. C’è Sophie, la protagonista del film, che attraverso il cibo nutre Markl e Howl, mentre cerca di affrontare la maledizione lanciata dalla Strega delle Lande. Poi c’è Calcifer, il fuoco che alimenta la mega struttura trasformista nel quale i protagonisti si muovono. In una delle prime scene, Sophie cerca di preparare la colazione, ambientandosi nel disastro polveroso lasciato da Markl e Howl. A malapena riesce a trovare due posate pulite. Sophie cerca di convincere Calcifer, ma lui non sente ragioni: non vuole mica diventare un fuoco da cucina. Alla fine Sophie ci riesce: prima le fette spesse di bacon, poi le uova fritte. Qualche fetta di pane, direttamente dalle mani per niente pulite di Howl (ipocondriaci, statene alla larga). E poi il formaggio, che rimane lì in bella vista. Il profumo è forte, ma anche la gioia di Markl, che sembra consumare, per la prima volta, una vera e buona colazione. Una colazione che strizza l’occhio all’Occidente, ma che in realtà riesce a raccontare bene le tante forme del viaggio e dei luoghi affrontati dalla protagonista. Nella sua forma più pura, il cibo diventa una delle magie più potenti, in un film in cui dalle magie è meglio starsene alla larga.
Ne Il mio vicino Totoro il cibo assume, invece, una funzione più familiare. È convivialità tra persone che condividono un dolore, una mancanza, come quella della mamma delle protagoniste, in ospedale per un problema di salute. Non un riempitivo, piuttosto un modo per riavvicinarsi. Tutto intorno la campagna giapponese e le risaie. Il mio vicino Totoro unisce poi la complessa tradizione culinaria giapponese, rendendola visibile e appetitosa. Un rito di gesti, di ingredienti posizionati non a caso, ma con rigoroso ordine e precisione. Una delle due protagoniste, Satsuki, lo sa. Prima il riso bollito, poi il pesce shishamo (l’acciuga giapponese), gli edamame, la sakura denbu (condimento rosa a base di pesce) e infine l’umeboshi, la famosa prugna fermentata giapponese. Nella cultura giapponese, il bento è la schiscetta da portare a lavoro o a scuola, anche se preparata con più attenzione e calma. Non è ciò che rimane di un’insalata di riso, per intenderci. I gesti sono lenti e misurati. Il bento racconta di un Giappone funzionale e misurato, forse anche un po’ controllato. La suddivisione dei vari cibi è anche una suddivisione delle proprie energie, da spendere nell’arco dell’intera giornata.
Arriviamo a Kiki consegne a domicilio. Qui, il cibo è raccontato come forma di convivialità. È un invito a mangiare insieme. Sarà la panetteria, sarà quella deliziosa torta al cioccolato, ma in Kiki il cibo si fa deliziosamente bello, per essere ammirato e amato. In una delle sue spedizioni, l’aspirante streghetta finisce nella casa di un’amabile vecchietta, che le chiede una mano per una ricetta da consegnare alla nipotina. La donna è sola, tranne per la presenza di un’altra anziana. Il cibo e tutta la sua preparazione assumono un ruolo quasi consolatorio. È attraverso il cibo che la vecchietta affronta la sua solitudine: rappresentata da uno sformato di aringa e zucca butternut, con la pasta sfoglia dorata a coprire il tutto. Kiki rimane ad assistere la vecchietta, ritardando anche a un appuntamento. Questo gesto (non a caso) racconta molto di una cultura in cui il rispetto intergenerazionale è fondamentale. Se in Italia aiutare un’anziana è cortesia, in Giappone è un obbligo morale. Così tanto da rinunciare all’appuntamento con il tipo che ti piace. Kiki riesce a consegnarlo, quello sformato (ma si becca un brutto raffreddore), ma a quale risultato? La nipotina sembra disinteressata a ricevere quel regalo dalla nonnina, che snobba precisando alla protagonista che quella ricetta non le piace. Un’ingratitudine che offre lo spazio per raccontare il cibo come tenerezza non ricambiata ma anche il materialismo dei gusti, in cui non c’è spazio per l’altro. Il cibo, insomma, come gesto d’amore non ricambiato.

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Porco Rosso è invece più conosciuto per la sua famosa citazione antifascista, e non a caso è ambientato lungo la costa adriatica italiana. Porco Rosso è un ex pilota di caccia della Prima Guerra Mondiale, trasformato da una maledizione in un maiale antropomorfo. Qui il cibo rappresenta l’eleganza di certi gesti, che non mutano neanche dopo essere stati colpiti da una maledizione. Nonostante sia diventato un maiale, il protagonista assapora la cucina mostrando un certo charme e attenzione ai gesti. In una delle scene del film, Marco Pagot sta degustando un piatto di salmone al burro bianco, poi lo ritroviamo di fronte a un piatto di spaghetti. Qui il cibo, dunque, asseconda la volontà di un maiale di sentirsi ancora umano. Almeno nell’anima. Il cibo diventa spiritualità, come forma massima di cura fisica e morale.

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Quel benessere che, ne La principessa Mononoke, è ben rappresentato dall’okaju, un porridge di riso giapponese, di solito dato ai bambini e alle persone malate per le sue proprietà curative e per la facile digeribilità. Il cibo degli dèi, letteralmente parlando. Racconta molto della tradizione culinaria giapponese, che non è fatta solo di sushi e sashimi. Yusoku, honzen e kaiseki sono forme tradizionali di una cultura culinaria spesso poco conosciuta, ma che con lo Studio Ghibli trovano un modo per essere rappresentate. Anche attraverso piccoli riferimenti, come lo è il semplice riso cotto (anzi stracotto). Durante il suo viaggio, Ashitaka incontra Jiko, un monaco che dice di essere un Dio della foresta, e insieme consumano una porzione di okaju. La sua consistenza molliccia (ben visibile sullo schermo) nasconde in realtà potenti effetti curativi. Non è così diverso dal nostro tradizionale riso in bianco. Qui il cibo è raccontato nella sua veste più primitiva, quasi selvaggia e senza filtri. Ed è questa caratteristica a rendere La principessa Mononoke uno dei successi più importanti dello Studio Ghibli. Ma non è l’unico.
Immaginate di dovervi nutrire per essere più umani. Per diventare umani. Immaginate, poi, una fetta di maiale che galleggia su un brodo caldissimo. È questo il ramen di Ponyo sulla scogliera. Tradizionalmente preparato con fette di carne (pollo, manzo o maiale) o solo verdure, il prosciutto cotto assume qui un valore esoterico. È questo l’ingrediente che Ponyo desidera per diventare finalmente un umano. Un cibo letteralmente trasforma.

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Altri, invece, desiderano essere parte del mondo. È questo il caso di Pioggia di ricordi e dell’ananas che da semplice frutto diventa racconto di un Giappone che ha bisogno di sentirsi continuamente al passo con i tempi. Contesto: nel film ci troviamo di fronte a un Giappone anni Ottanta, in cui non era così comune trovare cibi o frutti esotici. L’ananas è un frutto nuovo per la famiglia della protagonista, Taeko. Nessuno in famiglia conosce il suo gusto e neanche come servirlo. Tutti, però, sono emozionati e non vedono l’ora di assaggiarlo. Al primo morso, però, il colpo di scena: il gusto aspro e forte non piace a nessuno. Interviene l’anziana nonna, che ricorda che i capricci non servono a niente. In generale, in tutto il film, il cibo è qualcosa verso cui portare strettamente rispetto (come accade anche ne La città incantata). Taeko si rifiuta di mangiare i sottaceti, e quando la mamma scopre i resti in uno dei suoi tovaglioli, le ribadisce che non bisogna far storie quando si tratta di cibo e che una brava bambina mangia tutto. L’ananas, quindi, è solo uno dei tanti elementi utilizzati per raccontare le varie forme del rispetto, verso sé, verso gli altri, verso il cibo che sembra quasi consacrato alla storia che viene narrata.
Sacralità raccontata anche ne La collina dei papaveri. Yokohama, anni Sessanta. Umi, ragazza di sedici anni, vive con nonna e fratelli dopo la perdita del padre in guerra. È lei ad assumersi una delle più grandi responsabilità: cucinare. Cucina prima di andare a scuola, preparando i bento, ma anche dopo i pomeriggi passati a salvare il Quartier Latin dalla demolizione. In una delle scene più appetitose, Umi frigge l’aji, che in Italia è conosciuto come sugarello. Dopo aver aperto i singoli pesci in due e averne tolto i visceri, li impana nella farina, nell’uovo e poi nel panko. Ed ecco che friggono, pian piano, fino a doratura. A uno a uno finiscono nel grande vassoio che Umi tiene tra le mani, impegnata con le bacchette a voltare i filetti non ancora completamente dorati. In lei è vivo l’amore verso gli altri. Questi gesti d’amore sono diventati oggi parte dell’idea che abbiamo del Giappone. Nei tanti video che raccontano il Giappone, c’è sempre un elemento che ogni volta mi colpisce. L’amore. L’amore per la cucina. L’amore per un piatto preparato non per sé, ma per l’altro. Anche nei semplici konbini (negozietti), il cibo è sempre presentato deliziosamente. Il packaging ha sostituito l’allegria umana, ma ogni volta che qualcuno viene ripreso mentre cucina, sorride. O almeno sembra felice. Certo, lavorare senza sosta, con il rischio di disumanizzarsi è il pericolo principale in Giappone. Ma per ora, lasciatemi sognare.
Come ultimo esempio, non posso che prendere in considerazione uno dei miei film Ghibli preferiti, ma anche il più bistrattato. Diretto da Hiroyuki Morita, La ricompensa del gatto racconta la storia di una ragazza, Haru, che dopo aver salvato un gatto per strada si ritrova a doverlo sposare. D’accordo, il film manca di quella tradizionale magia che solo Miyazaki può regalare, ma non raggiungerà mai i livelli di delusione di Earwig e la Strega (andava detto). Il titolo merita di essere in questa lista per il semplice fatto che è il cibo a creare le prospettive per il lieto fine. Da piccola, infatti, Haru offre a una gattina randagia i suoi cracker al pesce. Lei li divora, guardandola piena di riconoscenza. Una riconoscenza che è gratitudine autentica. Arrivato alla conclusione di questo articolo, mi rendo conto che non esiste un’unica visione di insieme. Lo Studio Ghibli tratta il cibo come figlio prediletto, però uno anche ribelle e difficile da comprendere. Alimenta una cultura nuova, in cui il cibo asseconda i cambiamenti sociali e l’evolversi dei vari personaggi. Il cibo sacro, il cibo profano. Il cibo che nutre, il cibo che lascia a stomaco vuoto.
Ripartire dall’animazione Ghibli vuol dire ripartire da una concezione nuova del cibo, che nonostante gli anni sembra ancora adattarsi alla visione che tutti abbiamo (apparentemente) del mondo. Lo Studio Ghibli ci nutre di ingredienti sempre nuovi, di storie che sembrano essere anche un po’ le nostre. Tra queste storie, c’è sempre spazio per uno spuntino. Per nutrirci, per nutrire.