Ci sono hotel che si prenotano e hotel che si ereditano. La Louisiane, al 60 di rue de Seine, appartiene alla seconda categoria: non tanto per diritto di sangue, ma per successione culturale. Da due secoli, chi entra qui finisce, volente o nolente, per lasciare una frase, una canzone o un’idea appesa alle pareti. È l’unico albergo di Parigi dove la storia non si espone: la si respira.
Fondata nel 1823 da un ex colonnello di Napoleone I — tornato arricchito da un’avventura alla Nouvelle-Orléans e deciso a fondare un hotel “in onore dell’America” — La Louisiane è diventata col tempo una specie di capsula spazio-temporale di Saint-Germain-des-Prés. Mentre Parigi si reinventava tra Haussmann e Airbnb, questo edificio un po’ storto e un po’ geniale ha continuato a fare quello che gli riesce meglio: accogliere chi non sopporta di dormire troppo a lungo.
Simone de Beauvoir scriveva: «Jamais aucun de mes abris ne s’était tant approché de mes rêves». Non c’è bisogno di tradurre: in sintesi, nessun letto era mai stato così vicino ai suoi sogni. Jean-Paul Sartre, dal canto suo, dormiva poco e scriveva molto, spesso con la finestra aperta per farsi passare il giornale direttamente dal marciapiede. Insieme, nel 1943, trasformarono due stanze contigue in un avamposto dell’Esistenzialismo. Qui nacquero Les Chemins de la liberté, La Nausée, e le famose “fiestas” di Michel Leiris: lunghe notti di discussioni e alcol che rendevano il Flore il giorno dopo un prolungamento del salotto della Louisiane.
Negli stessi corridoi si aggirava Juliette Gréco, musa del quartiere, che divideva la stanza con Anne-Marie Cazalis e Anabelle Buffet, tra tende di velluto rosso e risate fino all’alba. Al piano di sopra, Boris Vian provava i suoi brani, mentre Miles Davis e Chet Baker trasformavano le stanze in jam session improvvisate. Il jazz americano, appena sbarcato nella Parigi liberata, trovò qui il suo epicentro, la sua cave sospesa tra due secoli.
Più tardi, negli anni Sessanta e Settanta, quando il jazz lasciò spazio al rock e la rivoluzione sessuale si tradusse in dischi e pellicole, La Louisiane continuò a essere il suo habitat naturale. Jim Morrison ci passò notti rumorose, i Pink Floyd ci composero parte della colonna sonora di More (che Barbet Schroeder girò proprio qui), e Quentin Tarantino definì i corridoi dell’hotel psychédéliques. Forse non aveva tutti i torti: sembra di camminare dentro un film a pellicola lenta, dove ogni porta potrebbe nascondere un romanzo o un vinile.
C’è anche un capitolo egiziano in questa storia: Albert Cossery, il dandy della pigrizia, visse qui per quarant’anni, scegliendo la Louisiane come dimora permanente. «La paresse se mérite», diceva: la pigrizia va guadagnata. Scriveva solo quando proprio non c’era niente di meglio da fare. In pratica, l’esatto opposto di Sartre, ma con lo stesso affitto.
Negli anni Ottanta, mentre Saint-Germain perdeva un po’ della sua aura bohemien per diventare più boutique che bistrot, La Louisiane resistette. Niente spa, niente minibar, solo pareti cariche di storie. Keith Haring ci disegnò, Giacometti ci passò a lasciare sculture in regalo, Dali arrivò con Amanda Lear, e gli studenti delle Beaux-Arts continuavano a suonare sui tetti con il jazzman Ronald Baker.
C’è un’ironia sottile, quasi parigina, nel fatto che un luogo così immobile sia rimasto vivo mentre il quartiere cambiava volto. La Louisiane non è mai stata “ristrutturata”, è stata stratificata: ogni generazione ha aggiunto un colore, un suono, un vizio. Oggi, gli ospiti che vi soggiornano non cercano comfort ma complicità. Qui si dorme male e si sogna benissimo.
«Je ne supportais pas ces bains de chaleur contre la dureté du ciment mais, le soir, j’aimais m’asseoir là-haut, au-dessus des toits, pour lire et pour causer», scriveva ancora de Beauvoir. È un’immagine perfetta di ciò che resta della Louisiane: un tetto, una vista, una conversazione infinita con il passato.
A Parigi tutto finisce per diventare un museo: anche i bistrot hanno le didascalie. La Louisiane, invece, no. È un archivio vivo, un laboratorio di memorie in corso, dove ogni camera è una scena ancora aperta. «La vie d’hôtel est idéale, pour qui veut rester libre et qui ne veut rien faire», concludeva Cossery. Lui parlava di sé, ma avrebbe potuto descrivere perfettamente l’anima dell’albergo.
E forse è proprio questo il suo segreto: La Louisiane non è mai cambiata perché Parigi ha bisogno che qualcuno, almeno qualcuno, resti uguale a se stesso.













