Oiza Q. Obasuyi ci mostra che il razzismo sistemico è un problema anche in Italia | Rolling Stone Italia
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Oiza Q. Obasuyi ci mostra che il razzismo sistemico è un problema anche in Italia

"Corpi estranei" è il primo saggio di Oiza Queens Day Obasuyi, ed è l’esperienza di una donna italiana afro-discendente che guarda all’ipocrisia della cultura bianca di questo paese, chiedendo un cambiamento

Oiza Q. Obasuyi ci mostra che il razzismo sistemico è un problema anche in Italia

Questa primavera il nostro orgoglio antirazzista si è risvegliato dall’assopimento durante le proteste del Black Lives Matter negli Stati Uniti. È servito – nuovamente – un evento eclatante come l’uccisione spietata di George Floyd da parte della polizia americana per ricordarci che il razzismo è qui, ora, ovunque, per ricordarci che la nostra società è una società razzista e che il nostro sistema è un sistema razzista. Ma cosa rimane di queste scese in piazza italiane quando l’attenzione mediatica inevitabilmente si allenta?

Corpi estranei (edito da People) è il primo saggio di Oiza Queens Day Obasuyi, ed è l’esperienza di una donna italiana afro-discendente che guarda all’ipocrisia della cultura bianca di questo paese, chiedendo un cambiamento. Un percorso culturale e storico dentro una cultura che minimizza il proprio passato coloniale e il proprio retaggio razzista. 

Il saggio di Oiza è un libro semplice e palese, chiaro e limpido. È un inno all’ascolto di quei colpi estranei che la nostra società ha spesso ammutolito o, forse ancor peggio, ha spesso raccontato solo attraverso la voce di una generazione di uomini bianchi di mezza età. Perché il razzismo altro non è che un collage di pregiudizi sociali che possiamo decostruire, destrutturare, ed eliminare dalla nostra cultura. Quello che rimane dopo l’attenzione mediatica è la presenza di queste voci forti, decise, vere, che vogliono e pretendono il nostro ascolto.

Vorrei iniziare con una domanda banale, ma che penso sia fondamentale per il discorso che affronteremo. Perché hai sentito il bisogno di scrivere questo libro?
Il razzismo non è facile da comprendere e per questo è sempre importante spiegare il modo in cui agisce. Perché quando ci troviamo di fronte all’episodio eclatante è facile che si crei il caso mediatico, ma la situazione è molto più complessa di così. In Italia è mancata una decostruzione, su più livelli, del razzismo. Soprattutto per quanto riguarda la nostra storia coloniale. Questo è ancora evidente nelle nostre leggi come la Bossi-Fini che costringe i migranti a sopravvivere in un limbo di irregolarità, o negli accordi con la Libia. Per me era importante raggruppare i vari livelli culturali, legali, storici, del razzismo.

Secondo te qual è il motivo di questa grande resistenza nell’affrontare seriamente il nostro passato coloniale? 
Credo sia dovuto ad un pensiero autoassolutorio di noi italiani. Non essendo stati conquistatori spietati come altri paesi europei, abbiamo plasmato la narrazione della nostra campagna militare come quella di conquistatori che hanno portato la civiltà in Nord Africa. È quella retorica del “abbiamo portato le strade, abbiamo costruito palazzi”. La nostra campagna militare in nord Africa è considerata, oggi, alla stregua di una goliardata. Non si parla dei massacri o delle donne stuprate e utilizzate come oggetti di desiderio sessuale coloniale della conquista della donna. C’è una mancanza di voglia di approfondire, di accettare la realtà che l’Italia ha preso parte in questa missione coloniale al pari di Inghilterra, Francia, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna. Sui media se ne parla sempre dal punto di vista del colonizzatore e mai del colonizzato, come nel caso di Montanelli. In televisione o sui giornali sono sempre uomini bianchi, eterosessuali, di mezza età a parlare di corpi neri. Il libro si chiama proprio Corpi estranei proprio perché parla di un soggetto che si fa rimanere muto e per cui c’è sempre qualcun’altro che parla a suo nome.

Visto che hai citazione quell’episodio, vorrei chiedere la tua opinione sulla questione relativa alla rimozione, o meno, della statua di Indro Montanelli a Milano.
Le statue vengono erette per celebrare le gesta eroiche di qualcuno. In Belgio, ad esempio, è stato il governo a comprendere e decidere di rimuovere la statua di Leopoldo II per il genocidio commesso in Congo (si stimano 10 milioni di morti). Per le persone afro-congolesi quello è stato un genocidio e la statua di Leopoldo II non era la statua di un eroe. Lo stesso è avvenuto a New York dove l’amministrazione ha fatto rimuovere la statua di James Marion Sims, il padre della ginecologia moderna, perché per raggiungere i suoi risultati aveva torturato donne nere afro-americane. Questi sono esempi di governi e amministrazioni che sono riusciti a fare un salto nella comprensione.

Non vedo la rimozione delle statue come qualcosa di sbagliato. Il Italia la discussione sulla rimozione, o meno, della statua di Montanelli è stata trattata in maniera davvero superficiale. La domanda da porsi era: cosa rappresenta e cosa significa per noi, oggi, la statua di Montanelli? Non possiamo separare il fatto che, oltre ad essere stato un grande giornalista, Montanelli è stato anche un grande colonialista. Nella discussione pubblica è mancata questa decostruzione e tutto è stato ridotto all’apparenza. È assurdo poi che si sia pensato di risolvere questa diatriba mettendo tra le braccia della statua un bambolotto nero, come se la questione potesse essere risolta così, mettendoci una pezza sopra senza approfondimento. Penso a Beppe Sala che ridusse la questione ad un triste “tutti commettiamo errori”, utilizzando il termine “errore” per spiegare l’esperienza di violenze coloniali e fasciste. O a Severgnini che liquidò la scelta di Montanelli come qualcosa fatto “tanto per”. Questo è sminuire. Bisogna veramente iniziare ad approcciarsi con serietà alla decostruzione di quel periodo storico e pensare a cosa rappresentano certi simboli, certe statue. Questo è l’unico modo per fare un salto di comprensione, di pensiero. 

Prendo un altro episodio critico della contemporaneità: l’omicidio di George Floyd. L’eco di un avvenimento così eclatante è giunto con potenza fino a noi, portando attenzione sul movimento Black Lives Matter. Nel racconto dei nostri giornali, e nella discussione pubblica, si è però subito cercato di differenziare il razzismo italiano da quello americano, etichettando quest’ultimo come sistemico e riducendo il nostro ad una serie di episodi singolari. Questo modo di parlare del nostro razzismo mi è sembrato un tentativo maldestro di continuare quel percorso auto-indulgente di cui facevi riferimento poco fa. È giusto parlare di razzismo sistemico anche per l’Italia e l’Europa?
Dopo la morte di George Floyd, sono rimasta sbalordita da quante persone hanno manifestato nelle nostre piazze in segno di solidarietà. Ma quante di quelle persone sono davvero coscienti del razzismo sistemico italiano? Siamo abituati a conoscere la storia degli Stati Uniti, sappiamo cosa sono stati i movimenti per i diritti civili negli ’60 e chi sono Martin Luther King e Malcom X. Per noi, che siamo decisamente esterofili per le battaglie altrui, quello è diventato il razzismo: la segregazione razziale, la schiavitù. Qui non c’è consapevolezza di esser dentro un razzismo sistemico proprio perché, come dici, si tende a ridurre ad episodi sporadici.

Si parla di razzismo sistemico quando, a livello legislativo, una persona di una minoranza non viene trattata allo stesso modo rispetto ai suoi corrispettivi della maggioranza. In l’Italia penso alla Bossi-Fini, una legge che non permette a persone di origine straniera, soprattutto migranti, di condurre una vita serena perché non permette di regolarizzarsi vincolando il permesso di soggiorno al contratto di lavoro, alla questione delle spese dei rinnovi, al fatto stesso che se nasci e cresci in questo paese da genitori non italiani non sei italiano quanto chi nasce da genitori italiani. Come se l’italianità fosse una questione di purosangue. Sono cresciuta con mia madre costretta a pagare i continui rinnovi del permesso di soggiorno anche per me che in Italia sono nata e cresciuta. Anche il nostro è un razzismo sistemico perché discrimina certe persone a livello di diritti fondamentali come la cittadinanza e il diritto ad aver i documenti per vivere una vita dignitosa che non conduca allo sfruttamento, come succede continuamente con braccianti e caporalato.

Il razzismo sistemico non è solo italiano, ma europeo. L’ipocrisia sta nel fatto che non se ne parli. Spesso crediamo che il razzismo sia esclusiva dei partiti populisti di destra, ma gran parte delle leggi in tema di immigrazione arrivano da governi democratici di centro o di centrosinistra. Penso, ad esempio, ai respingimenti illegali di migranti sulle coste di Ventimiglia del governo francese di Macron, una violazione del principio di non-respingimento. L’antirazzismo performativo è questo: governi e politici che si dipingono come anti-razzisti e che non fanno nulla per superare leggi obsolete e razziste pur di non perdere voti. 

Perché la sinistra italiana non sta lottando su questi temi? 
Negli anni la sinistra ha fatto qualche timido tentativo, ma ogni qualvolta che una sua proposta naufragava, abbandonavano la battaglia. Non è una priorità perché noi siamo ancora troppo pochi in termini di voti. E tutto è sempre e solo una questione di consenso elettorale.

Nel tuo libro fa sorridere, ma con amarezza, l’idea che l’integrazione passi attraverso lo stereotipo, attraverso la pasta al pesto e la lasagna.
In Italia piaci se sei una persona che si è spogliata delle proprie origini e fai sfoggio di un’italianità stereotipa, a dimostrazione di un tuo personale impegno nell’integrazione. Al cous cous devi preferire sempre la pasta al pesto. I neri vengono invitati in televisione per parlare esclusivamente di ius soli, razzismo, colore della pelle e mai per argomenti che rispecchiano una loro competenza. L’integrazione parte da questo, non essere visti e utilizzati solo per il proprio colore. 

Pensi sarebbe utile, in Italia, un movimento nero unitario come negli Stati Uniti?
Forse potrebbe rischiare di diventare auto-ghettizzante. La situazione qui è più eterogenea che in altri paesi e penso sarebbe più utile un movimento aperto a tutte le minoranze. Credo nella pluralità di voci che si supportano piuttosto che ad un gruppo etnico che forma un movimento. 

Come si decostruisce il razzismo sistemico? Cosa può fare il singolo per superare i propri pregiudizi razziali?
Sicuramente nelle scuole bisognerebbe iniziare a parlare della nostra storia coloniale, ma con la voce dei colonizzati. Nella quotidianità bisognerebbe domandarsi se il proprio approccio con persone di altre etnie sia legato a qualche pregiudizio sociale. Aprire il dialogo con persone di etnie diverse, ascoltare, imparare. Ascoltare chi subisce queste cose in prima persona. Leggere, informarsi, mettersi in discussione senza erigere muri. Chiedersi: perché questa cosa offende? Perché quella persona si è offesa? Il razzismo non è solo quello di estrema destra, è una serie di sfumature in continua evoluzione che possiamo imparare solo ascoltando e confrontandoci. Non esiste una definizione univoca da vocabolario.

E aggiungici che, comunque, la definizione sul nostro vocabolario è stata scritta da una persona bianca, quasi certamente uomo, eterosessuale, di mezza età.
Considera che la Dichiarazione universali dei diritti umani è stata scritta nel 1948 quando il continente africano era ancora sotto colonizzazione e negli Stati Uniti c’era ancora la segregazione razziale. Su queste cose bisogna rifletterci. 

Consigli ai nostri lettori cinque libri fondamentali per un approfondimento su questi temi?
Donne, razza e classe di Angela Davis; E poi basta. Manifesto di una donna nera italiana di Espérance Hakuzwimana Ripanti; Pelle nera, maschere bianche di Frantz Fanon; Ladri di denti di Djara Kan e Afropean: Notes from Black Europe di Johny Pitts.