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Quel giorno in cui arrivai a Rolling Stone

'Rolling Stone' non è mai stata una rivista solo musicale, figuriamoci il sito. Eppure in Italia la sua anima pop è vista come un tradimento, e la colpa è della donna scelta per dirigerlo.

Quel giorno in cui arrivai a Rolling Stone

Il 14 dicembre del 2017 è stato dato l’annuncio del mio arrivo alla guida della sezione web di Rolling Stone. Sembrava una notizia come tante infilata nel frullatore quotidiano delle news, ma certo non di quelle destinate a raccontarci qualcosa degli equilibri mondiali, e invece fu la notizia del giorno per un bel po’. E il 14 dicembre – voi non lo ricorderete, ma io sì – non era una giornata qualunque. Accadevano due cose, in quella data lì. Una seria e una scema, ma entrambe importanti nel loro segmento. Quella seria, serissima, è che veniva approvata la legge sul biotestamento. Dopo anni di battaglie dei radicali e di ipocrisia di un Parlamento che girava la testa dall’altra parte, diventavamo un paese più civile. La notizia scema è che c’era la finale di X Factor. L’edizione del programma più social, quella dei Maneskin, quella della tensione tra Fedez e Levante. Insomma, di carne sul fuoco, sui social, ce n’era per organizzare un barbecue per tutto il paese. La questione più discussa però, quel giorno, divenne io-direttore-di-Rolling-Stone-web. Rolling Stone e Selvaggia Lucarelli trend topic (a ondate) per due giorni di seguito. Più di #XFactor, più di #biotestamento, per molto tempo.

E no, non sto scrivendo per autocelebrarmi, anche perché quello che mi faceva essere più chiacchierata di questioni più rilevanti, era l’odio.

Un odio su più livelli. Attenzione. Non sto parlando di dissenso o di semplice perplessità (pure comprensibili, per carità).

Ma di odio. E uso questa parolina semplice, protagonista del nostro tempo, perché gli argomenti avevano quella matrice lì: quella del sarcasmo becero per sminuirmi (ho visto uomini con una storia nella musica e i capelli bianchi fare i bulli sulle loro bacheche con il loro gruppetto), quella dell’offesa gratuita e poi quella più radicata e inconscia del tema femminile. Del mio essere donna. Non sono una che si lagna spesso sull’argomento. So che se fossi un uomo l’atteggiamento nei miei confronti sarebbe molto diverso, ma me ne sono fatta una ragione da tempo. Non ho MAI visto, però, quando un uomo è stato nominato direttore di qualcosa (e spesso di qualcosa di molto distante dalle sue occupazioni precedenti) una sollevazione popolare. Ci sono stati direttori arrivati a dirigere quotidiani di calcio da settori distanti anni luce, direttori piazzati a dirigere emittenti radiofoniche senza mezzo minuto di esperienza in radio e così vale per posti da dirigenti in tv e in grandi aziende. Con me è stato tutto un “Chi ce l’ha messa?”, “A chi l’ha data?”, “Il paese sta sprofondando”, “L’editoria è morta”, “Selvaggia direttore di Rolling, Ilona Staller del Sole 24 ore!”. Il tema pornostar associate a me, per fare accostamenti ridicoli, è stato, non a caso, il più utilizzato. Non che mi offenda essere associata a Sasha Grey, ma mi divertirebbe di più se accadesse in altri contesti.

Eppure, sono in pochi a potere definirsi pionieri della comunicazione sul web come me. Sono stata la prima persona in Italia (insieme alla Ferragni, in segmenti diversi) ad affermarsi in altri settori grazie al web. Scrivo di web su Il Fatto e altri quotidiani da anni, ho le pagine d’opinione più seguite sui social. E mi fermo qui, che sembro uno di quei personaggi che si mettono i like da soli. Non credo, però, che se fossi stata un uomo qualcuno avrebbe avuto delle perplessità sulla mia nomina. Sì, magari un qualche sparuto “Che c’azzecca questo con la musica?” ma poi qualcun altro avrebbe risposto “Non deve scrivere lei di musica, deve occuparsi di come si comunica e di fare numeri”.

Quello per cui vengono chiamati che so, gli ad di Alitalia a cui nessuno ha mai domandato “Eh, ma tu lo sai come si pilota un aereo?”. Anche il fatto che Rolling Stone si sia allargato a politica, attualità e costume viene (in alcuni frequenti commenti su fb) imputato “alla direzione della Lucarelli che sta contaminando una rivista musicale con le SUE cazzate”. Sono spesso invitata a tornare a parlare di smalti e di gossip. Rolling Stone non è mai stata una rivista solo musicale. Figuriamoci il sito. “Rolling Stone è un periodico statunitense di musica, politica e cultura di massa”, recita Wikipedia. Non sono io che rendo Rolling Stone pop, è Rolling Stone ad essere nato pop e ad aver dedicato copertine a cantanti e band, ma pure ad attori tv, comici, registi, principesse, personaggi dei fumetti e modelle.

Del resto, che il problema sia più femminile che musicale, trova conferma nel fatto che una delle cover più contestate di sempre in America sia stata quella con Kim Kardashian. Una delle donne più ricche e influenti del pianeta. Una che conta più della maggior parte degli uomini del pianeta. Riviste importanti commentarono che lei su Rolling rappresentava la morte del rock. Ci finirono pure Zac Efron o il killer della maratona di Boston sulla copertina di Rolling, ma erano le tette della Kardashian a sancire la fine del rock. Nessuno, comunque, ha mai scritto al direttore di Rolling Stone che doveva occuparsi di bricolage e “Chi ce l’ha messo a dirigere…”.

Chiudo questa lagna femminista (vi anticipo) ricordando a tutti e tutte che essere donne è sempre un po’ più faticoso. Essere donne e occupare posti “di potere” è ancora più faticoso. Devi sempre dimostrare qualcosa, anche quello che hai già dimostrato. E’ fonte di pregiudizi, ostilità e attacchi che arrivano da un posto chiamato “ radice culturale”. E quella maschilista, in Italia, ha delle radici belle profonde. Più di quanto ce la raccontiamo nei salotti buoni e negli editoriali da festa delle donne. E ora vado che ho il pranzo sul fuoco, il centrotavola ad uncinetto da finire e il french da ritoccare.

Buon 8 marzo a tutti.

p.s.
A febbraio il sito di Rolling Stone ha raddoppiato le visite di gennaio. Grazie.

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