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Non facciamo schifo solo online

Quello di Tiziana Cantone è l'ultimo caso di slut-shaming finito in tragedia, e sappiamo tutti chi è responsabile. Ma non è solo dietro una tastiera che le persone danno il loro peggio quando si tratta di colpevolizzare una vittima.

Non facciamo schifo solo online

Tiziana Cantone si è suicidata dopo la diffusione online di alcuni video in cui aveva rapporti sessuali con dei partner, a causa dei quali è diventata oggetto di derisione (nella migliore delle ipotesi) e insulto. Cantone aveva denunciato nel 2015 la pubblicazione dei video in cui era ripresa e che dovevano restare privati, e in attesa che la giustizia facesse il suo corso (oltre a individuare i colpevoli della pubblicazione, si doveva anche imporre ai gestori di contenuti come Facebook, Google e Youtube di cancellare le tracce del video) ha tentato il suicidio, poi ha fatto richiesta per cambiare nome e cercato di rifarsi una vita, fino alla notizia di ieri sera. È stata vittima di revenge porn, la pratica di pubblicare video o foto intime da parte di ex-partner per vendetta, e di un successivo slut-shaming, ovvero un attacco estremamente offensivo contro una ragazza per dei comportamenti giudicati «da puttana» («slut») e per i quali dovrebbe vergognarsi. Questa forma di bullismo, esclusivamente diretta verso le donne, è stata più volte causa di suicidi.

Ci sono due esempi di slut-shaming recenti particolarmente celebri: quello di Belen Rodriguez, quando è stato pubblicato un video privato di un rapporto tra lei a 18 anni e il fidanzato dell’epoca, e il caso delle foto intime di Jennifer Lawrence – e di altre celebrities, ma quelle di Lawrence sono state le più discusse – scaricate dal suo iCloud. Mentre per il caso di Rodriguez non è stato identificato chi ha caricato il video, da luglio 2016 il cosiddetto Celebgate ha un responsabile, Edward Majerczyk, un 28enne che tramite phishing è riuscito ad accedere alle password degli account di iCloud delle vittime e a scaricare le foto, arrivando ad hackerare circa 300 account iCloud e Gmail. Majerczyk ha patteggiato la condanna, e la sentenza verrà confermata in tribunale il 27 settembre. Grazie al patteggiamento, Majerczyk rischia solo 9 mesi di carcere – ma non è stato accusato di aver pubblicato online o venduto le immagini, di questi fatti un responsabile non c’è ancora.
In Italia, la notizia del Celebgate (noto anche come Fappening, da «fap», l’onomatopea per le seghe) è stata pubblicata su qualsiasi testata, mentre cercando su Google quella dell’individuazione del responsabile si trovano articoli su una testata di news (Internazionale) e su siti legati alla tecnologia (Punto Informatico, Smartworld, MacCityNet, Hackblog e altri).
Di fronte a qualsiasi crimine, il primo dato che cerchiamo è quello del colpevole. È così quando capita un attentato terroristico, un furto in appartamento o un omicidio per strada. In casi come quello di Lawrence, Rodriguez, Cantone, e in generale di qualsiasi donna vittima di questo genere di reati, il nome del responsabile è un dato accessorio di scarso interesse, perché quando un crimine ha a che fare con la sessualità di una donna la responsabilità diventa un concetto fluido, in cui il crimine A non viene commesso da B contro C, ma viene commesso da B e da C, che lo subisce ma allo stesso modo ha creato le condizioni perché quel crimine si consumasse – soprattutto quando stiamo online. Così Jennifer Lawrence merita i leak delle foto private in atteggiamenti sessualmente espliciti semplicemente perché li ha avuti, Belen Rodriguez vede le persone che l’hanno apostrofata gratuitamente come “zoccola” darsi ragione tra loro perché ha deciso di farsi riprendere dal suo fidanzato quando ancora non aveva una carriera nello spettacolo, Tiziana Cantone merita di diventare un meme per quello che dice in un video, cosa importa che sia stata violata la sua privacy in un momento che non doveva essere reso pubblico, finendo in pasto al popolo del web – un blob composto da dita, bile ed ettolitri di sburra.

Eppure sarebbe quasi positivo se facessimo schifo solo online. Ho sentito ragazzi in metropolitana dire che Jennifer Lawrence meritava il leak perché era una troia, o un redattore dire che bisognava accompagnare un testo su di lei con una di quelle foto. Ho letto di persone esultare per il suicidio di Tiziana Cantone. E per scavare ancora di più nell’orrore, una signora intervistata davanti a una telecamera a Melito di Porto Salvo, dopo la denuncia di una bambina di 13 anni violentata per anni da nove persone, ha detto: «Sono vicina alle famiglie dei figli maschi. Per come si vestono, certe ragazze se la vanno a cercare», mentre i cittadini del paese non partecipano a una fiaccolata in sostegno alla vittima. Lo racconta bene un articolo de La Stampa, che fa i nomi e i cognomi degli stupratori, ma non della vittima, che merita oltre a giustizia anche la privacy. Il trattamento da «caso di costume» e non «da caso di cronaca» – come ha scritto Peter Gomez sul Fatto Quotidiano, ammettendo le colpe del giornale nell’aver trattato con leggerezza il tema – ha fatto sì che sapessimo tutto di Tiziana Cantone, dalla scuola che ha frequentato all’oggetto con cui ha scelto di uccidersi, e nulla dei colpevoli della pubblicazione del video. Ma tutti sappiamo chi l’ha portata a quel gesto.

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