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Maurizio Carucci, Simone Riccioni e il fattore Y

Per il lancio del profumo Y, Yves Saint Laurent Beauté si interroga sulla concezione contemporanea e globale del successo. Per le nuove generazioni sono cambiate le ambizioni, le aspettative e le prospettive: il successo non è più bianco o nero, ma un arcobaleno, una sfumatura, una scala di suoni. Così ci raccontano l'attore e il cantante degli Ex-Otago

Maurizio Carucci, Simone Riccioni per Yves Saint Laurent - Foto di Marco Ruba e Mauro Calvone

Maurizio Carucci, Simone Riccioni per Yves Saint Laurent - Foto di Marco Ruba e Mauro Calvone

«Non so cosa sia il successo e non mi interessa saperlo». Basterebbe questa frase di Maurizio Carucci a riassumere cosa significa il “Fattore Y”, ovvero il nuovo concetto di successo, quell’insieme di sfumature e di piccoli dettagli che ormai definiscono il confine sempre più sottile tra farcela e non farcela. E dire che quest’anno con i suoi Ex-Otago si sta togliendo più di una soddisfazione: Marassi, il loro album del 2016, è stata una sorta di consacrazione definitiva, dopo una vita passata tra un’uscita indie e l’altra – con tutto quello che questo vuol dire oggi –, e la maxi tournée appena annunciata nei luoghi principali della musica italiana («A Milano siamo passati dal Serraglio all’Alcatraz», dice Carucci, per far capire il salto). Eppure non basta, o meglio, forse basta così. Tutta la band ha tenuto un piglio all’insegna dell’understatement, ma in particolare lui ha tenuto il suo vero lavoro, completamente lontano dai vezzi da popstar: vive in campagna, tra la Liguria e il Piemonte, dove coltiva piante, patate e fagioli. «Perché è questa la mia arma per gestire il successo, la terra. Ci fa capire quanto siamo piccoli e ci mette a posto».

Anche perché la vita “di successo” non ha bisogno di avere dimostrazioni tangibili: «Per me il successo è arrivare a tanta gente, le canzoni sono così: possono cambiare la vita alla gente, ma alla fine sono parole di persone per persone. Ed essere accettati è una sensazione rara, ti fa stare bene». Soprattutto è il premio, sudato, di fatiche e costanza. «Non è arrivare», conferma Simone Riccioni, «ma avere la coerenza di non rinnegare il proprio sogno. Bisogna darsi un obiettivo ogni giorno, fare qualcosa per raggiungerlo. Anche perché non è qualcosa di preciso, è un arcobaleno».

Il successo non
è arrivare, ma avere la coerenza di non rinnegare il proprio sogno
Simone Riccioni

Anche Riccioni ha un legame molto forte con la terra, visto che è nato in Uganda, dove il genitori lavoravano per una Ong. E fino ai sette anni è cresciuto in mezzo alla guerra. Forse è anche per questo che ha ben presente cosa voglia dire il lavoro, l’impegno e la fatica. «Non c’è mai stato un giorno in cui ho pensato “È successo! Sono un attore!”, non funziona così. Sono all’inizio della scalata, forse piuttosto mi dico “Bene, ho iniziato a scalare!”». Un’eredità di stampo agonistico che arriva anche dalla pallacanestro, altra passione di Riccioni. «Fino a 23 anni ho giocato per diventare un professionista, poi ho avuto dei problemi alla schiena e ho dovuto mollare tutto. È stato il momento più duro della mia vita»: la sua vita è sempre stata divisa tra la recitazione e la pallacanestro.

Ora, finalmente, le due cose si sono unite. In un film (e in un libro). Tiro Libero è un punto di arrivo: il film – uscito il 21 settembre, regia di Alessandro Valori con Maria Chiara Centorami, Jacopo Barzaghi, Nancy Brilli, Antonio Catania, Biagio Izzo – porta il basket all’interno del grande schermo. «È una storia di cambiamento, una storia per chi vuole capire i valori della vita». Nel film assieme a lui ci sono alcune leggende del basket made in Italy, da Carlton Myers a Carlo Recalcati. «Il basket mi ha insegnato a non mollare. L’ho pensato parecchie volte, ma ho capito che non bisogna mai mollare la presa, bisogna darsi sempre una nuova sfida. Da attore ho iniziato a fare il produttore, a scrivere libri… Sempre in movimento, sempre con la voglia di fare». Quello che accomuna due storie parecchio diverse in mondi parecchio diversi è la stessa partenza: la natura. Da una parte quella ligure, dall’altra quella ugandese. «Quando dovevo andare in campagna ero felice. Da piccolo avevo bisogno di contatti “naturali”, rubavo i gatti, rubavo i cani… In campagna sto meglio che in città. Sono religioso nei confronti della terra, c’è un senso di compiutezza che non esiste nelle città». Le stesse parole, o meglio, lo stesso significato, sono quelle di Riccioni. «Sono nato in una capanna di terra e lamiera», racconta. «È un posto dove non decide l’uomo, ma la natura. Ti dà la carica e l’adrenalina».

il successo secondo me è essere accettati e compresi: una sensazione oggi rara, serve a farti stare bene
Maurizio Carucci

Quindi è meglio creare un contatto vero e profondo, meglio darsi da fare tutti i giorni, anche perché «poi il successo è vissuto come quello di uno tipo Gianluca Vacchi. Cosa fa? Niente, spende soldi e la gente lo segue. Tecnicamente, perché dovrei seguirlo? Siamo trainati dal fancazzismo!», continua Riccioni. È un modo di vivere figlio di questi tempi: «Uno può andare nei campi a raccogliere le patate alle sei di mattina», spiega Carucci. «Poi va a casa a fare una canzone nel pomeriggio e alle 20 di sera ce l’ha pronta da caricare e condividere. È la prima volta nella storia che l’uomo ha questa possibilità di fare più cose insieme, di cambiare rapidamente settore. È vero, “i giovani d’oggi” sono confusi, però hanno anche strumenti e capacità. Vogliono essere riconosciuti per qualcosa, in tutti i sensi». Ma basta essere consapevoli e le cose si possono risolvere. «C’è gente consapevole del mondo a 12 anni, che viene anche riconosciuta dagli altri», continua Carucci. Ed è un peso troppo grande da sostenere. Per fortuna, ogni tanto ce ne rendiamo conto.

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