Larger than life: 100 anni di Jack Kirby | Rolling Stone Italia
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Larger than life: 100 anni di Jack Kirby

Oggi, la mano che ha creato X-Men, Fantastic Four o Iron Man avrebbe compiuto un secolo. Tanti auguri, King Of Comics

Jacob Kurtzberg, in arte Jack Kirby. Foto via Facebook

Jacob Kurtzberg, in arte Jack Kirby. Foto via Facebook


Difficilmente, quando si interrogano i creativi che hanno qualcosa a che fare coi supereroi, si chiede loro il perché. Cos’è che li ha portati a occuparsi di questi assurdi metaumani in calzamaglia? Cosa li ha spinti verso superpoteri e identità segrete, verso l’epica ripetitiva e La maggior parte di chi oggi li scrive o disegna nei fumetti, o che li dirige e interpreta nei sempre più popolari cinecomic sarebbe sicuramente spiazzato dalla domanda, finendo per dare delle mezze risposte farraginose e poco eloquenti. Il “King Of Comics”, Jack Kirby, aveva invece le idee molto chiare: lui vedeva in tutte le persone qualcosa in più di quanto non dimostrassero nell’agire quotidiano, cercava di catturarne le qualità più alte e voleva vederle sublimate in una narrativa che ispirasse al meglio di sé, a raggiungere il prossimo stadio dell’evoluzione attraverso l’altruismo, il coraggio, il bisogno di conoscenza. Per sua stessa ammissione, Jack vedeva gli altri come “larger than life” e riusciva a riprodurli solo così, come creature esagerate, dai comportamenti e dai movimenti carichi di un’energia fortissima e irreale, ma coi piedi ben piantati nella realtà quotidiana. Non è difficile trovare questa urgenza nelle sue tavole: zeppe di anatomie impossibili ma efficacissime, di movimenti e posture che sembrano attraversare tempo e spazio in una specie di bizzarra quadrimensionalità astratta, rese vive e strabilianti dall’incredibile e originalissimo gusto estetico con cui componeva costumi, architetture, tecnologie. Il suo stile espressionista e largamente proto-psichedelico tradiva una incontrollabile urgenza di creare, di immaginare e andare oltre i confini del reale non tanto per evaderlo, quanto per apprendere qualcosa di noi stessi e avvicinarci di qualche passo all’utopia. “Tutti sogniamo”, diceva, “ci comportiamo in maniera realistica ma i nostri sogni ci fanno viaggiare oltre quella realtà. I nostri sogni ci fanno crescere, tutti vogliamo crescere e vedere oltre tutti gli orizzonti, credo sia parte della condizione umana ed è questo che voglio riflettere coi miei disegni. (…) Ci metto tutta l’energia che ho.”

Tutti quelli che lo conoscevano ricordano la sua gentilezza, il rispetto e l’accoglienza che offriva a chiunque bussasse alla sua porta. La sua fiducia nell’individuo lo spingeva a vedere in ognuno un valore intrinseco che poteva brillare, e riconoscendo e rispettando questo valore si poteva crescere assieme.

Jack Kirby ritratto da se stesso

Jack Kirby ritratto da se stesso

Non sono molti ad avere colto questi aspetti nel lavoro di Jack. Nelle classiche scazzottate tra supereroi e supercattivi co-firmate con Stan Lee, troppi vedono solo, tristemente, delle scazzottate tra supereroi e supercattivi. Ironia della sorte, allo stesso Stan Lee di allora e alla stessa Marvel Comics non interessava granché sviluppare il potenziale esplosivo dell’immaginazione Kirbyiana quanto coglierne gli aspetti più superficiali e trasformare le sue idee in una ripetitiva macchina da soldi, intrattenimento superficiale per preadolescenti con problemi relazionali. Lee in particolare cercò in tutti i modi di sminuire il lavoro di Jack quanto quello di Steve Ditko (disegnatore e creatore di Spiderman e del Dr. Strange), presentandosi come principale, quando non addirittura unico, creatore di X-Men, Fantastic Four, Iron Man, Thor etc. e scalando le vette dirigenziali della Marvel mentre a Jack venivano negati molti di quelli che oggi sono i diritti basilari di un creativo di fumetti. Ma gli insider dell’industria lo sapevano, e ora fortunatamente anche moltissimi fan hanno un’idea molto più chiara di come siano andate le cose: i due avevano un metodo di lavoro che garantiva a Lee il minimo sforzo e massimo risultato, mentre stava al talentuosissimo Kirby impegnarsi a creare davvero la storia, contribuendo pesantemente allo sviluppo narrativo e dei personaggi, impostando e creando lo svolgimento grafico e persino suggerendo i dialoghi che poi Stan “The Man” editava.

Non che a Jack dispiacesse lavorare così: le sue giornate le passava quasi unicamente a creare e difficilmente riusciva a staccarsi dal tavolo da disegno, restandoci incollato più di dodici ore consecutive al giorno a sfornare tavole su tavole con una prolificità da record. Nei primissimi anni Sessanta riusciva tranquillamente a lavorare a qualcosa come dodici testate regolari contemporaneamente, e lo faceva in una maniera talmente spontanea da lasciare a bocca aperta chiunque si trovasse a osservare da vicino il suo processo creativo. Fumettisti come Lein Wein e Marv Wolfman, che frequentavano casa sua in giovane età, restavano puntualmente sbalorditi dal modo in cui The King componeva una pagina: senza sketch preliminari, senza studiare preventivamente la composizione, ma partendo da un angolo del foglio per poi stendere il dettagliatissimo sistema di vignette, figure, ambienti e interazioni solo e unicamente in base al proprio istinto. Senza fare troppi misticismi potremmo semplicemente dire che il suo potere intuitivo e la sua tecnica erano talmente forti e in comunione fra loro da bypassare la necessità di un ragionamento strutturale. Questo però non lo portava a perdersi autoreferenzialmente nel proprio mondo interiore, anzi, gli dava la forza di costruire storie potenti e capaci di catturare un pubblico vastissimo, lasciando un’impressione fondamentale su tanti che poi, a loro volta, si dedicheranno al medium fumetto. Persino molti i villain di quei fumetti sembravano spesso motivati da necessità di grandezza, di affermazione

Analizzando quegli anni e di quell’estetica, lo scrittore di fumetti e critico Grant Morrison vi ritrova un’anticipazione della psichedelia, dell’LSD che di lì a pochissimo si sarebbe impossessato delle strade d’America. Per quanto in tutta la sua vita non abbia mai fatto uso di droghe, è indubbio che Jack avesse in qualche modo intercettato sul nascere la stessa volontà di espandere i confini dell’immaginazione e delle possibilità dell’umano che si stava iniziando a fare largo nell’immaginario collettivo. Ma le deviazioni più convinte in quella direzione si videro solo quando Jack, con una numerosa famiglia da mantenere, stanco di vedersi negare ciò che gli spettava e, soprattutto, di rosicare appresso a Stan Lee, nel 1970 abbandonò platealmente la Casa Delle Idee per approdare alla storica rivale DC Comics.

Quello che a Jack mancava, infatti, era l’efficacia comunicativa di Lee, la capacità di vendersi che lo aveva reso ricco e famoso mentre The King, per quanto il 90% della Marvel si reggesse ancora sulle sue piccole spalle, veniva ancora trattato da manovale dell’industria. Ma non importava, alla DC lo trattavano da star e, una volta inserito in organico gli permisero di fare quello che voleva. Jack decise allora di iniziare dalla testata a fumetti meno venduta della casa editrice, che al tempo era Superman’s Pal Jimmy Olsen, per iniziare a rivoluzionarne dall’interno il pantheon. Ben presto ai personaggi da lui creati su quelle pagine si decise di assegnare delle testate tutte loro: New Gods, Mister Miracle e The Forever People, un nuovo sub-universo narrativo che un felice errore promozionale soprannominò “Jack Kirby’s Fourth World”.

Di questo “Quarto Mondo” Jack era, appunto, l’unico artefice: occupandosi sia dei testi che dei disegni, si poteva finalmente permettere di creare personaggi che, più che supereroi, erano dei veri e propri dei, i New Gods, appunto. Divinità bizzarre che abitavano due mondi in perenne contrapposizione: Nuova Genesi e Apokolips. Il primo è una sorta di utopia hippie quasi del tutto priva di autorità, fatta eccezione per uno sciamano globale chiamato Altopadre i cui abitanti dedicano la propria vita alla bellezza, al divertimento, i cui giovani si organizzano in una sorta di comuni libere e vivono in simbiosi con degli strani smartphone viventi chiamati Scatole Madri, le quali gli garantiscono l’accesso alla misteriosa Fonte, la sorgente cosmica del potere della creazione. Il secondo è l’esatto opposto: una sorta di avanzatissimo campo di concentramento globale in cui a vigere è solo e unicamente la legge del più forte, i cui cittadini vengono seviziati, schiavizzati o arruolati a forza nell’esercito dell’onnipotente dittatore Darkseid, che scatena la sua elite di malvagi gerarchi (agghindati come allegorie del peggior passato dell’umanità, tra fantasie neonaziste, edipizzazioni forzate e culti manipolatori stile Manson) sulla terra alla ricerca della Equazione Dell’Anti-Vita, lo strumento che gli permetterebbe di soggiogare tutte le creature viventi al suo volere. Al centro di questo scontro sta Orion, inconsapevole figlio di Darkseid cresciuto su Nuova Genesi, eternamente tormentato tra la sua natura di mostruoso distruttore e l’amore per la pace e la bellezza che ha conosciuto sul suo pianeta adottivo, in poche parole, tra il lato oscuro e quello chiaro della Fonte (o Forza, se preferite, e intanto George Lucas prendeva appunti). Al centro l’umanità, che prova a comprendere queste creature venute dallo spazio e, a seconda dei casi, di fare la propria parte, proteggersi terrorizzata o provare a resistere all’arroganza divina reclamando il proprio posto sulla terra. È il caso del personaggio di Dan Turpin, uno dei tanti alter-ego fumettistici (o “Tute di Fiction” come le chiama Morrison) di Jack stesso, un altro dei quali fu Ben Grimm, La Cosa dei Fantastic Four.

L’epopea rimase però incompiuta causa cancellazione, e lo scontro finale che doveva essere tra Orion e suo padre non si vide mai, e i personaggi furono reintegrati nell’universo DC ufficiale, perdendo gran parte della propria energia primigenia. Jack tornò sull’argomento solo nel 1985 con la graphic novel The Hunger Dogs, che però raccontava la storia di un Darkseid ormai vecchio e superato, rovesciato dalla resistenza dei suoi stessi sudditi, accompagnata da una riflessione sulle armi di distruzione di massa e la possibilità di una guerra nucleare. Ma nonostante le scarse vendite dell’epoca, il culto che il Quarto Mondo riuscì a creare fu incredibile e dura ancora ora: in quei fumetti, Jack dimostrava più che mai di essere in grado di concepire universi dai connotati strabilianti, personaggi dalle fisionomie bizzarre e splendide, ambientazioni mozzafiato ricche di incredibili dettagli, terrificanti macchine aliene dalla tecnologia incomprensibile ma estremamente credibile, e soprattutto di infilarli in storie complesse e sfaccettate, di fortissimo impatto, nascoste dietro una apparente semplicità di fruizione.

Gli altri fumetti realizzati da The King in quel decennio rivelano lo stesso spirito progressivo, improntato alla ricerca continua di nuove idee sia in campo grafico che narrativo che sociale. Si prendano il distopico Kamandi, o l’uomo multiplo OMAC, agente di una forza pacifista di uomini senza volto e senza nazione. Ma è, appunto, nel Quarto Mondo che si trova la quintessenza dell’indagine Kirbyiana del’umano e dell’oltre-umano, e la sua voglia di futuro ed evoluzione. In particolare, i personaggi di The Forever People replicano e amplificano un topos che ha accompagnato tutta la sua produzione. Sono infatti un gruppo di superpotenti giovani, divertiti, ottimisti, ma sopra però dell’unione la forza. Anche in maniera piuttosto letterale: grazie a scatola madre i cinque protagonisti sono in grado di unire le proprie coscienze per lasciare posto a Infinity Man, l’unità collettiva che può dove loro non possono. Parrebbe una roba da robottoni Giapponesi, invece è una lezione sui limiti dell’ego.

La dimensione familiare dei Forever People, si diceva, è tutta frutto dell’ammirazione di Kirby (che all’epoca delle Summer Of Love aveva già cinquant’anni) per i giovani e i movimenti giovanili, per la loro capacità di costruire e costruirsi in comunità spontanee fuori dalle regole della società. Una cosa nata già ai tempi dei Fantastic Four e, soprattutto degli X-Men: cos’erano infatti questi ultimi se non una comunità di corpi non-normati, unita dalla necessità di costruire un safe space per la gente come loro e trovare assieme un modo di sfruttare ciò che li rende diversi per influenzare positivamente il mondo? Del resto Jack, cresciuto povero per le strade dei quartieri ebraici di New York, aveva imparato ben presto l’importanza di avere una gang di propri simili per sopravvivere in un mondo ostile, ma nel suo lavoro aveva provato a esorcizzare quella violenza (raccontata in una bellissima storia breve rimasta a lungo inedita) trasformando le gang della sua gioventù in qualcosa di più positivo e inclusivo. Ma la simpatia per i non-umani di Jack non si esprimeva solo in direzione di bellezza e giovinezza; spessissimo erano i reietti, i brutti e mostruosi a catturare il suo interesse e a ritrovarsi protagonisti delle storie, lottando per essere accettati: personaggi che vanno dalla già citata Cosa all’Incredibile Hulk fino agli “Insetti” di Nuova Genesi. Era un senso di empatia che aveva già maturato negli anni Cinquanta, occupandosi del genere “mostri giganti” che andava tanto forte all’epoca e che lui provò ancora una volta a sovvertire. Rientrava tutto nella sua necessità di eguaglianza e libertà. Persino Capitan America, con tutta la problematica ingenuità politica che oggi possiamo riconoscervi, era nato come resistenza ideale a una condizione realmente pericolosa: il nazifascismo e la prospettiva di un’oppressione sistematica.

Non fosse morto di cancro nel 1994, Jack Kirby oggi compirebbe cento anni. Questo secolo di età lo rende più che mai uno di un’altra epoca in campo fumettistico, tanto lontani sono i fumetti supereroistici di oggi dall’energia che Jack aveva voluto indurre nel medium, di fatto rivoluzionandolo e stabilendo dei nuovi canoni essenziali dopo essere passato per tutti gli altri generi possibili all’epoca (a lui si devono anche l’invenzione dei Romance Comics e dei War Comics). Oggi i supereroi sono intrappolati in un auto-cannibalismo grottesco, in una stagnazione di idee che tradisce solo l’età di personaggi. Funzionano al cinema come pretesto per sbalordire con grossi effetti speciali, ma si tratta oramai di gusci vuoti messi lì un po’ per fare cassa un po’ per accontentare masse di “fan” la cui passione è per il puro nozionismo e l’accumulazione. Sono stati in pochi, negli anni e nel mainstream fumettistico, a carpire il vero messaggio di The King, che fu visionario quanto quello di autori più comunemente considerati “per adulti” quali Moebius o Druillet. Ma la grandezza sta ancora lì, per chi la vuole e la saprà capire. Nonostante i tributi, i comics lo hanno di fatto dimenticato, ma dal suo lavoro possiamo ancora apprendere tanto per provare a trascinarci verso il futuro. Tanti auguri Jack. E grazie.

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