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Il massacro in Florida e il silenzio della politica sulle armi nelle scuole

È giusto vietare le armi nei licei americane? O forse sarebbe meglio che gli studenti tenessero delle pistole negli armadietti per le emergenze? Mentre il presidente Trump parla dei disturbi del killer Nikolas Cruz, il movimento Never Again vuole dare voce ai ragazzi, perché le stragi nelle scuole non succedano mai più.

Bob Korn/Alamy Live News/IPA

Alcune delle cose che alcuni insegnanti statunitensi stanno domandandosi dopo che Nikolas Cruz, diciannove anni, il giorno di San Valentino, è entrato alla Marjory Stoneman Douglas High (Florida), la scuola che lo aveva espulso, ha sparato ed ha ucciso diciassette persone: «La scorsa notte ho detto a mia moglie che avrei preso una pistola per i bambini: ci penso tutto il tempo»; «Riuscirò a spostare i mobili abbastanza velocemente da impedire a un ragazzino armato di sparare ai miei studenti? È saggio nasconderli negli armadietti? Farei in tempo a salvarli?»; «Se in corridoio un ragazzo armato insegue un bambino, devo sbarrare la porta e salvare la classe o aprirla e cercare di dare rifugio a quel bambino, con il rischio che entri anche il suo assalitore e spari a tutti gli altri? È una decisione che non posso prendere». Prima che il presidente Trump, ieri, ricevesse una delegazione di sopravvissuti e parenti delle vittime, con il taccuino in mano su cui erano segnati cinque punti – “1) cosa volete raccontarmi della vostra esperienza; 2) come posso aiutarvi a farvi sentire al sicuro; 5) vi ascolto” -, gli insegnanti si erano già rivolti al Congresso chiedendo di vietare le armi, ma pure ai governi statali chiedendo di poter andare a scuola armati.

Washington, il presidente Donald Trump durante l’incontro sulla sicurezza nelle scuole. (Foto di Xinhua/Sipa USA)


A un europeo, sembrano due istanze incompatibili. Negli Stati Uniti, però, il Secondo Emendamento stabilisce che “essendo necessaria, alla sicurezza di uno stato libero, una milizia ben regolamentata, non potrà essere infranto il diritto dei cittadini di detenere e portare armi”: è impossibile prescinderne. Ieri, un’insegnante di storia della Marjory Stoneman ha chiesto alla portavoce della National Rifle Association, durante un incontro pubblico, in che modo un diciannovenne che spara in una scuola possa essere considerato “milizia ben regolamentata”. Risposta: “Il secondo emendamento protegge i diritti di chi è in grado di badare alle proprie armi”. Fischi. Il 20 aprile del prossimo anno saranno passati vent’anni dal massacro della Columbine High School, quando due studenti assaltarono la scuola e uccisero tredici persone: fu uno degli episodi più impressionanti del capitolo school shooting, fra i peggiori della storia contemporanea. Michael Moore ne fece un documentario, Bowling for Colombine, che naturalmente vinse un Oscar; Gus Van Sant ne trasse un film, Elephant, ed Eminem un paio di versi (poi censurati) della sua I’m Back.

Marilyn Manson, all’epoca molto popolare tra gli adolescenti, venne incolpato di incitare il pubblico alla violenza omicida (stessa sorte toccò a qualche regista e a qualche band heavy metal). Allo scrittore Chuck Palahniuk, che gli domandò cosa avrebbe detto ai due assassini, Manson rispose: «Avrei ascoltato cosa avevano da dire, cosa che nessuno ha fatto». Sono passati vent’anni, in molte altre scuole (in larga parte statunitensi) è stato aperto il fuoco (soprattutto da ragazzi, ma non solo: nel 2010, un uomo di 56 anni sparò ai membri del consiglio scolastico della Florida School Board, perché sua moglie aveva perso il lavoro e lui era furioso), sono morti decine di innocenti, le armi da fuoco non sono mai state ritirate dal commercio.

In queste ore, moltissimi studenti stanno manifestando contro le armi. Urlano “Mai più”. “La prossima vittima di una sparatoria in una scuola sarà colpa del Congresso”, ha urlato una di loro, Sheryl Acquaroli. A Trump, durante la riunione alla Casa Bianca, Samuel Zeif, diciotto anni, amico di uno dei ragazzi uccisi da Cruz, ha detto di non riuscire a capire come sia ancora possibile entrare in un negozio e comprare una pistola. Altri studenti, la settimana scorsa, hanno fondato un movimento, si chiama Never Again, dispone di una pagina Facebook con decine di migliaia di iscritti. Uno di loro, ha raccontato al New Yorker di aver incontrato Nikolas Cruz in un Walmart: si vantava di aver appena comprato un fucile.

Nikolas Cruz, l’autore della strage. Foto di Mike Stocker/Sun Sentinel/TNS/Sipa USA.

Nessuno di questi ragazzi ha parlato di pistole in classe, di scuole blindate, di giubbotti anti-proiettile, di imparare a evacuare un edificio quando è in atto una sparatoria. Tutti, però, hanno confermato di sapere da sempre di correre un pericolo, di aver convissuto con la possibilità che a scuola accadesse una strage, con il terrore di morire e non solo perché Cruz era stato diverse volte segnalato alle autorità competenti, invano. Si tratta, per loro, di un tratto generazionale, una consapevolezza comune, un dato di realtà. Diversamente dagli adulti, sono ancora capaci di credere che il loro impegno possa spendersi più in attacco che in difesa. «Il primo passo del movimento Never Again è credere a un’idea cui il resto dell’America è diventata troppo cinica per credere: che la Marjory Stoneman Douglas High possa davvero essere l’ultima scuola in cui è avvenuta una sparatoria in America», ha detto uno di loro.

Quando gli insegnanti domandano ai governi statali il permesso di andare a scuola armati, di fatto, negano questa possibilità. La nega anche Trump, che ieri ha parlato di impartire al personale scolastico una specie di addestramento alla difesa in caso di attacco armato. Nessuno sembra voler considerare che la politica possa davvero intervenire e ripensare un diritto piuttosto problematico, sul quale si regge un giro d’affari da miliardi di dollari (i vent’anni trascorsi dalla strage del Columbine, senza che nulla cambiasse, se non in peggio, hanno il loro peso). In questo asserragliarsi in difesa, da parte soprattutto degli adulti, c’è anche l’abbandono dell’idea che si possa fornire ai ragazzi una ragione valida per non sparare. Che la scuola, le persone, le relazioni, il mondo intorno possano non semplicemente disarmare un ragazzino, ma amarlo e destinarlo a un futuro che non gli appaia irrisolvibile.

È strabiliante che il fenomeno degli eccidi scolastici non rientri nelle analisi sociologiche, non costituisca un tratto di lettura della realtà, non incida negli interrogativi che ci poniamo sul futuro, non venga indagato come contraccolpo di qualcosa di più profondo di una terrificante libertà di mercato. «Tutti i paesi stanno migliorando, però a velocità diverse», ha detto Steven Pinker, professore di Psicologia di Harvard, a Slate: dalla sua analisi, così come da quelle degli ottimisti illuminati come lui – ma pure da quelle dei pessimisti illuminati a lui avversi -, come se la passino gli adolescenti è un dettaglio del tutto estromesso. Succede nello stesso Paese dove i college universitari dispongono di aulette di decompressione per studenti che si sentano sconvolti dalla lettura di Ovidio, che ha rinunciato alla complessità in favore della sicurezza.

Dobbiamo, forse, considerare anche questo mentre leggiamo di insegnanti che prendono a ragionare come guardie del corpo – e li capiamo e diciamo “d’altronde, cosa possono fare?” – e si interrogano su quanta forza fisica e quanto coraggio hanno a disposizione, su come maneggiare un fucile, su quante vite potranno salvare. Per dirci come stanno i ragazzini, invece, ci sono splendide serie tv, che ci sollevano, tutti, dall’onere di fare quella cosa che vent’anni fa appariva urgente persino a Marilyn Manson: ascoltarli. Niente che non si possa recuperare, magari, con un bel ministero della solitudine: chiudiamo gli occhi e pensiamo all’Inghilterra.

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