Che cosa succederà davvero con la nuova legge sul copyright? | Rolling Stone Italia
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Che cosa succederà davvero con la nuova legge sul copyright?

C'è chi ha esultato e chi ha gridato alla morte di internet, ma la verità è che ci sono rischi per tutti, colossi del web, autori, editori e artisti

Che cosa succederà davvero con la nuova legge sul copyright?

Il 12 settembre è stata dunque approvata la nuova legge europea sul copyright. C’è chi l’ha accolta con benevolenza e chi, invece, vi si è opposto con tutte le forze. Eppure mai, come in questo caso, in medio stat virtus. Partiamo da una considerazione semplice: Internet è diventata, letteralmente, un Far West. Viviamo in un’epoca di passaggio, dopotutto, da un vecchio e decrepito mondo analogico a uno sfavillante universo digitale, dove Leggi antiche, spesso legate ad antichi mezzi d’informazione, si son trovate inadeguate innanzi a una rivoluzione fatta di bit.

E, quando la Legge è inadeguata, fioriscono i magheggi. Il punto difficile da comprendere è che, in una situazione simile, non è detto che ciò che non è ancora vietato dalla legislazione sia davvero lecito o giusto. Forse, proprio per l’epoca di passaggio che viviamo, si deve ancora sviluppare la Legge adatta. Lo abbiamo visto, di recente, con la famosa General Data Protection Regulation (GDPR). Che, di fatto, dal 25 Maggio scorso, ha ribaltato la nostra concezione di privacy, sebbene debba ancora palesarsi in tutta la sua forza (e succederà, fidatevi).

Adesso è il turno del copyright e socialmente è una sfida ancora più tosta. Voglio dire, se parli di privacy fai in fretta a mettere d’accordo la maggior parte degli utenti. Dopotutto, si tratta pur sempre di una tutela per il comune cittadino, che difficilmente se ne lamenterà (e infatti le lamentele sono arrivate, più di tutto, da aziende e società che han dovuto o devono adeguarsi). Con il copyright è diverso, perché si va a toccare qualcosa che, da sempre, è stato considerato gratuito. E tutto ciò che, in piccola o grande misura, va a sfiorare la gratuità di un bene, rischiando magari di farci pagare qualcosina, diventa bersaglio di critiche feroci. Non sono qui a questionare se sia giusto o sbagliato, ma è necessario mettere subito le cose in chiaro.

Un settore da ripensare
Di base, c’è un problema da affrontare: il sistema dei diritti d’autore va ripensato. Pensate, per esempio, all’informazione (ma la legge europea considera il diritto d’autore tout court). L’informazione, su Internet, rende poco, pochissimo. Chi crea un contenuto, mettiamo un articolo, può sperare che gli frutti una frazione infinitesimale di euro come provento, derivante dalle pubblicità online. Gli scarsi profitti portano, in genere, a una cattiva qualità dei contenuti. Fatti di fretta per puntare sulla quantità, oppure poco obiettivi perché sponsorizzati in qualche modo. Allo stato attuale le cose stanno così e non c’è scampo: gli editori hanno costi elevati da affrontare, quindi le strategie imperanti sono queste. Da qui, tra l’altro, nasce il fenomeno delle fake news: se un editore deve abbandonarsi a un’informazione di bassa qualità, per far fronte ai suoi costi, per un chicchessia è facile infilare contenuti falsi nel bel mezzo di un settore così mediocre.

Si tratta di un modello economico che si sta contorcendo su se stesso, a mo’ di spirale, e si è probabilmente arrivati al blocco del sistema. Per non parlare della musica, dove ormai passa il concetto che “se gira su Youtube, è di tutti”. Che fa strano da scrivere e da leggere, perché lo diamo quasi per assodato, ma la realtà non è certo questa. C’è, quindi, da ripensare all’economia dell’intero settore del diritto d’autore. Trovandoci in un mondo globale come quello digitale, è chiaro che non può essere una riforma da affrontare a livello di singola nazione. La nostra fortuna, in questo senso, è di vivere in una comunità, quella europea, dove il sistema legislativo funziona molto meglio di ciò che si pensi. E quindi eccoci a questa riforma che, per certi versi, è epocale quanto la GDPR. Si tratta di un totale di 66 pagine, scritte ovviamente in burocratese, che tentano di correre ai ripari per ristabilire, in parte, i delicati equilibri tra chi produce un contenuto (anche musicale) e chi lo distribuisce o pubblica. E perché mai tutto questo, come si diceva all’inizio, dovrebbe interessare il comune utente del web? Perché la direttiva, che adesso passa in mano agli Stati membri, i quali dovranno recepirla in modo adeguato alla propria legislazione, sconvolge i settori creativi alle fondamenta. E questo avrà ripercussioni dirette sul modo in cui fruiamo di determinati contenuti.

Gli Articoli contestati
In merito a questa direttiva, per esempio, molto si è parlato dei famigerati Articoli 11 e 13. Il primo ratifica il rapporto tra gli editori e le piattaforme di distribuzione dei contenuti nel web, come social network e motori di ricerca. Questi ultimi, insomma, devono garantire il giusto compenso a chi produce i contenuti che loro stessi veicolano. In caso contrario, dovranno farne a meno. Chiaramente, si solleva l’annosa questione dell’importanza, per dire, di Google nei confronti di un editore. È innegabile che Google benefici degli articoli di un sito web, come è innegabile che il sito web goda dei visitatori che gli arrivano grazie a Google. Del resto, il gigante americano non produce quei contenuti e non fa sforzo alcuno per veicolarlo (c’è l’infrastruttura tecnologica, certo, ma anche l’editore, nel suo piccolo, deve gestirne una, quindi tenderei a eliderla dall’equazione), quindi è ideologicamente corretto riconoscere dei quibus all’editore.

Ma, secondo l’Articolo 11, Google potrebbe anche decidere di non pagare e rinunciare ai contenuti di quell’editore. Quell’editore, a quel punto, rimarrebbe tagliato fuori dal più grande e utilizzato motore di ricerca del mondo, che copre il 90.88% del mercato. Siamo sicuri che questo Articolo faccia davvero il bene degli editori? Non è facile rispondere. Forse, occorre tapparsi il naso, dimostrare coraggio, in qualche caso diventare vittime sacrificali, e concorrere e invertire la rotta. O, forse, occorre accettare il doloroso compresso? L’Articolo 11 prende anche in considerazione i così detti “snippet”, vale a dire i brevissimi sommari di un articolo, che Google News, per esempio, raccoglie in modo automatico per confezionare una sorta di quotidiano online. Di fatto, si può consultare Google News e avere una panoramica delle principali notizie del momento senza nemmeno cliccare sui link di un editore. Zero traffico per lui (e zero euro), tutto il traffico a Google.

A rischio la libertà?
L’Articolo 13, invece, vuole obbligare i grandi colossi del web, sempre loro, a dotarsi di strumenti per il riconoscimento dei contenuti protetti da diritto d’autore. Anche questo è un Articolo controverso e il motivo è che, a detta di molti, incluso Tim Berners Lee (uno dei creatori del world wide web) e Jimmy Wales (fondatore di Wikipedia), introdurrebbe un filtro col quale dotare governi e aziende della possibilità di controllare i contenuti degli utenti e ammazzare il concetto di libertà su cui si fonda Internet. Anche in questo caso siamo di fronte a un tema complesso.

L’Articolo 13 non parla assolutamente di “filtri”, vuole semplicemente inserire delle tecnologie in grado di comprendere se, per esempio, un video inserito in un articolo è coperto dal diritto d’autore, di modo da riconoscere un equo compenso al suo creatore. Ma questo, tecnologicamente, richiede un certo controllo del contenuto. E poi, nel caso fosse necessario bloccarlo? Chi, cosa e come decide il blocco? Non si rischia che lo strumento sia utilizzato, per esempio, per bloccare la diffusione di proteste nei confronti di qualche tiranno che mina la libertà della popolazione? Se l’Articolo 11 pone dei risvolti economici mica da ridere, con il 13 si vanno a toccare argomenti ancora più sensibili, come i diritti umani.

Prospettive future

Cosa succederà, adesso? Innanzitutto, occorre aspettare l’approvazione di questa legge, a Gennaio 2019. Se fosse confermata in toto, così com’è, si prospetterebbero alcune mosse clamorose. Google, per esempio, potrebbe decidere di disattivare il servizio Google News in Europa. Lo aveva già fatto con Spagna e Germania, che avevano anticipato su questo frangente la legge sul copyright, a livello nazionale. Per Google, il servizio “News” è tutto sommato secondario, per gli editori nazionali no, quindi è un tema che va bene soppesato da loro stessi. Google, dal canto suo, ci metterebbe due secondi a pigiare il tasto “Off”. Sul versante dei controlli automatici, non sono così disfattista, ma è chiaro che occorre essere più chiari in merito alle tecnologie da utilizzare e alle casistiche da affrontare (cosa difficile, per una legge che deve mettere d’accordo così tanti paesi e così tante situazioni diverse).

Viviamo in un’epoca di passaggio, già, e si tratta di un passaggio enorme. È chiaro che c’è moltissimo da fare e che molto si sbaglierà. Spesso avremo la sensazione che si vada a tentativi, e sarà così. Spesso, avremo la sensazione che si tratti di tentativi goffi e sbagliati, e sarà così. Ma lasciare tutto com’è rischia di restituirci un mondo dove un artista non può vivere d’arte, dove un giornalista non può vivere di giornalismo, dove il lavoro non viene retribuito e dove c’è un’inesorabile corsa al ribasso sulla qualità dei contenuti. Un crollo inesorabile nella mediocrità a cui occorre dire stop. E, come tutti gli stop, a molti non piacerà. Servirà tempo, servirà provare e correggere il tiro, servirà tapparsi il naso. Le rivoluzioni, storicamente, richiedono sempre sacrifici.

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