Bisogna tornare a collegarsi con le persone. A intrecciare relazioni, a discutere, a scontrarsi, a parlare. A Matias Perdomo, è lui che me lo dice, viene piuttosto bene. È uno di quelli che in gergo giornalistico si definiscono generosi: non si trattiene e, se è bravo a recitare, ti dà l’impressione di non tenersi dentro nulla. Altrimenti, non si tiene dentro nulla.
Non è la prima volta di Perdomo, su Rolling Stone. La precedente risale a circa tre anni fa, quando in una cover story si giocava tra i manzi bolliti e quelli che invece, sex-symbolicamente, lo chef venuto dalla fine del mondo incarnerebbe nel linguaggio dell’attrazione. Meno male: così io, acchiappandolo per una chiacchierata con la scusa dei dieci anni (urrà!) del suo ristorante a Milano, Contraste, posso lasciar perdere l’argomento, ed evitare proprio di impantanarmi. Non mi interessa molto la physique du rôle, quando la mole della cucina la sovrasta, ma forse sono io. Perdomo è uno che su una copertina di sicuro figura bene, come mi confermerà l’amica commensale che mi accompagnerà a una delle quattro cene di compleanno di Contraste, però, ecco: possiamo andare oltre.
Anche se il mio intervistato, ora mi viene da dire, forse non approverebbe. Questo discorso sul procedere oltre, dico. Infatti ci metteremo a ragionare di come il presente scappi sempre e che non dovrebbe, e che allo stesso tempo non ci si può esimere dal pensare ai prossimi dieci anni di vita di Contraste.
Che iniziano dalla fine, e da uno scontrino consegnato ancora prima di sedersi a tavola. Poi, un Fondo di caffè (caffè alla liquirizia, brodo di patate americane e sake) e Sobremesa, piccola pasticceria, per cominciare: Arachidi all’avocado e mandorla; Fragola di peperoni, zucca e castagne; Ciliegia al lardo e pop corn. “Quello che resta del dessert” è già servito in tavola, con il vino versato, i tovaglioli arrotolati e pesanti tende rosse da quinta teatrale a coprire tutto: Buccia di banana farcita di indivia al whisky, mais e yogurt. Condivideremo tutti un unico tavolo, cena di famiglia. Il regalo sarà quello di stupirsi a ogni portata, anche se il gioco è dichiarato dall’inizio, menu speciale che si chiama Contrario e che, appunto, partirà dal dolce e terminerà con gli amuse-bouche.
Sembra un riassunto di quello che Contraste è stato finora. Ovvero un solo menu però mobile, Riflesso, e recentemente l’aggiunta di un secondo, Riflessioni. Due stadi di attività ludica, Riflesso per ritrovarci nell’inaspettato (il piatto-simbolo, forse: il donut alla bolognese, pasta al ragù in veste di ciambella fritta) e infilare una serie (paradossale) di piatti del buon ricordo; e Riflessioni per galleggiare in uncharted waters e lasciarsi guidare con un livello di consapevolezza, e fiducia, in più. Tra forme che ingannano senza dolo, e una nuova veste, decisamente wow, del ristorante, passata da uno ristrutturazione che ha reso gli spazi già distintivi, come dire… ancora più Perdomo.
Contrario replicherà per ancora un’altra sera, il primo dicembre 2025. E, prime di giungere all’Aperichao, cocktail di gamberi e Negroni, rimangono ancora alcune tappe: Fonduta Flambé (Champignon, fonduta di Gorgonzola, grue di cacao e granita di anguria), Fino all’osso (Petto di quaglia al profumo di rose, platano e zafferano), Bouquet di mare (Rombo in conti, chorizo, fichi e consommé di gelsomino), Domenica scorsa (Wellington di pasta al ragù di coniglio con gallinella, riduzione di melograno e gelato alla galanga), Sortie (Fiori di porcini, cachi e provolone del monaco, capesante, arachidi e fiore d’arancio).
Nell’attesa, io a Matias Perdomo, ritrovandoci nel Sottosopra di un In-Contrario, abbiamo fatto un esercizio d’astrazione: dalle idee, dalle etichette, dai preconcetti. Essendo, senza tante paranoie.

Matias Perdomo. Foto: press
Tre anni fa ti dedicavamo una cover di Rolling Stone. Che cosa è cambiato in questo tempo?
Un sacco di cose. Ma il tempo a Milano è relativo, vola via. L’esercizio che faccio è quello di staccarmi dal flusso, dalla routine, per guardarmi indietro e intorno. Capire, nella velocità di questo tempo, che cosa siamo riusciti a fare. Significa stare nel premete quando tutto, attorno a noi e dentro di noi, è in relazione con il futuro.
Andiamo nei dettagli.
C’è stata la rinascita del ristorante stesso, di Contraste. Esteticamente in primis perché abbiamo ristrutturato gli spazi. E poi, a un cambiamento esteriore se n’è accompagnato uno interiore, spirituale. Volevo che fosse un segnale importante per noi stessi, a prescindere del resto. Volevo che ci facesse capire che eravamo ancora vivi. Proprio perché tutto a Milano sembra passare in fretta, nel briciolo della moda, e invece quando si costruisce qualcosa in maniera personale e intima, ecco, lì arriva un valore diverso. Si rimane nel tempo, si è contenti di quello che si è fatto. Ecco, solo per dire che questa ristrutturazione era nell’aria da un po’.

Il ristorante Contraste di Matias Perdomo, a Milano. Foto: Serena Eller
A volte sembra che gli entusiasti vogliano fare una moda anche del tuo nome.
Ah, così mi fai venire l’ansia! Sono il contrario della moda, non seguo le mode. Nemmeno perché non mi piacciano, ma perché non le capisco. Non saprei bene dove collocarmi, onestamente. Durante una giornata so che cosa mi piace e che cosa no, anche di me stesso. So che cosa voglio portare avanti e che cosa voglio lasciare indietro. Il resto è stimolo e ammirazione, perché le cose fatte bene, e la bellezza, mi ispirano sempre.
Che cosa succede quando la moda arriva nella gastronomia?
Succede che si perde l’essenza, che per me è il rapporto di fiducia che si crea con il cliente e anche verso il cliente, dal punto di vista del ristoratore. Ci danno fiducia e noi diamo loro fiducia. Perché il punto è questo, moda o non moda, il ristoratore e il ristorante devono essere un punto fermo, costante. Non parlo di riferimenti come se ci fosse una mappa o che so io, ma di un’evoluzione e di un percorso ragionato, costante. Bisogna trovare il modo di collegarsi con le persone, tornare a fare il lavoro dell’oste.

Matias Perdomo. Foto:
Hai trovato un modo per viverlo, questo attimo che fugge?
Capita quando sei davvero attratto da qualcosa. Mi sento tra il romantico e il pensionato a fare questi discorsi. C’è questa cosa – vedo le persone qui, fuori da Contraste, alzare il naso verso il cielo e guardare le rondini che migrano. Si emozionano, ci emozioniamo, no? È paradossale: quando si tratta di “farti star bene”, come nell’industria dell’ostilità, tutto è banale, e vogliamo tornare alla natura per stupirci. Con un bel cielo rosso infuocato al tramonto, che non sai se è davvero così o se è colpa dello smog.
Che cosa emoziona, te, al ristorante? Era girata qualche tempo fa una tua “recensione” su Instagram di D’amatOsteria ad Arceto, in provincia di Reggio Emilia, ne parlavi benissimo…
La famiglia D’amato è super, ha fatto la storia della ristorazione italiana. Gianni, Federico, … era il compleanno di mia figlia, che abita a Reggio Emilia con sua madre, e dovevo per forza andare a pranzo da loro. Sono stato divinamente, soprattutto per le persone. E qui mi collego alla tua domanda, perché a me fa stare bene la condivisione delle storie a tavola. Il mondo tende, mi sembra sbagliando, a ricordare le persone per quello che fanno e non per quello che sono: ecco un caso in cui l’ordine dei fattori altera il prodotto. Chi siamo è importante, influenza il risultato. Dietro ogni singolo esempio di esecuzione c’è una persona. Sono le persone a manipolare la materia per cavarci fuori l’arte, o un piatto al ristorante. È una comunicazione non verbale che dice molto più delle parole. Ecco, questa è la gastronomia. A volte mi sembra che, quando noi cuochi apriamo la bocc, rischiamo solo di rendere banale il nostro lavoro. Mentre fare cibo per gli altri è un atto d’altruismo, ed essere coccolati quando si va a mangiare fuori, è un miracolo.

Matias Perdomo. Foto:
Solo che spesso, poi, il pubblico recepisce solo quello che è presentato nelle guide. È quello squilibrio tra essere e fare che dicevi?
Viviamo in un momento storico di velocità estrema, e sotto questo cappello finiscono anche i vari ranking. Che hanno valore anche perché siamo nella globalizzazione. La competizione invece quella no, appartiene all’uomo da sempre. La differenza è la concentrazione estrema su questo tipo di “gara” nello specifico, che fa perderei focus sull’essenza della vita. Mentre il succo dell’essere qui, è ora, è percorrere il viaggio fino in fondo. E poi, dobbiamo sempre ricordare che non c’è un metro oggettivo per questi premi. I cento metri sono innegabili, uno arriva prima. La gastronomia è fatta anche di altro, per questo non bisogna ossessionarsi.
Perché si cucina, o meglio, perché tu cucini?
Per il piacere di manipolare la materia e poterla usare per avere un’interazione immediata con chi viene a mangiare da me. Questo è il motivo per cui non ho fatto il pasticcere, avrei dovuto aspettare troppo. Finendo la riflessione sulle guide, quando ho iniziato a cucinare nel mio Paese natale, l’Uruguay, non c’erano nemmeno le scuole di cucina, figurati le guide o i premi. Invece ora i libricini sono un metro di giudizio, un paragone che fa felice chi ci finisce e s-felice chi non ci figura. È un gioco di parametri con i tuoi colleghi. Ma gli ingredienti del vero successo anche professionale sono altri.

Gnocchi, burro e salvia, dal menu Riflesso. Foto: press
Torniamo a parlare con il Matias che esce fuori a mangiare. A Milano?
Giro molto, mi piace andare dai colleghi, stellati e non, mi piace esplorare… Ma ci sono tre posti in cui torno sempre come in un rifugio: Stadera, Razdora, dove quel pazzo di Matteo Monti fa paste fresche strepitose, e una lingua incredibile, e poi poco lontano da Contraste c’è Osteria Grand Hotel con il suo oste Fabrizio Paganini.
Ma questa Milano ti sta stretta? Ti fa venir voglia di rimetterti in movimento?
No, no, per carità, ho già dato. Vent’anni fa ho percorso 15000 chilometri, da qui non mi sposto. Alla fine sono uno pigro, io, uno di routine. Questa città va veloce per i fatti suoi, cambia tutto velocemente, è una vertigine con tutte le sue problematiche. Ma ogni volta che atterro qui, so che sono tornato a casa. Milano è la mia città ed è una città di opportunità, bisogna saperla ascoltare e cogliere.

Piselli, pomodoro, albicocca, fiori di borragine e ostrica, dal menu Riflessioni. Foto: press
Senti, torniamo alla fama: i cuochi sono diventati delle celebrità, li riconoscerebbero per strada. Ti fa strano?
Ne parlavo l’altro giorno con un amico, diceva una cosa che mi è piaciuta molto. Che i cuochi, cioè, hanno credibilità, che il pubblico li vede come figure di cui ci si può fidare. Creano connessioni attraverso la gastronomia. È assurdo, perché sono persone che non conosci che ti danno da mangiare cose che a volte non conosci. Probabilmente sembriamo innocui perché i clienti pensano, “ah, questa è una pagnotta, anche io potrei farla a casa, non è pericolosa”. Questo ti fa puntare i riflettori addosso, e lì si apre un altro capitolo. Perché bisogna capire come usare questa notorietà per fare qualcosa nel proprio piccolo. Io non penso cambierò il mondo, ma posso cambiare i miei dintorni, a cominciare della cultura che tengo in cucina con i ragazzi.
Il menu Contrario è stato una sorta di Ritorno al Futuro della tua cucina, quasi un reset per muovere innanzi. Che cosa farai, dopo?
Lo userò come ulteriore stimolo per uscire dagli schemi. Avevamo il bisogno di fare questa cena e di farla al contrario, non solo perché non avevamo mai festeggiato un compleanno in un decennio, ma anche perché era un sogno nel cassetto, ci siamo ispirati alle opere del pittore Daniel Spoerri, che purtroppo è morto l’anno scorso senza darmi il tempo di conoscerlo di persona. Lui lavorava sul concetto di consumato nel senso di mangiato, vissuto, e non deteriorato. Dipingeva delle tavole in disordine, come alla fine di un pasto. E da lì siamo partiti per Contrario. Togliendo la routine del servizio, attivi uno spettacolo più grande. E poi, torni ai veri valori, al portare le persone attorno a un tavolo e basta.

Mandorle, lardo, avocado e cavolini di bruxelles, dal menu Riflessioni. Foto: press
Non sembra un’impresa facile, detta così.
Non lo è stato, abbiamo composto tutto per l’occasione. Il tavolo in stile imperiale, le luci, la musica. Fino a una spettacolarizzazione esagerata, che si vede poco nella gastronomia di oggi. Ecco, questo mi interessava: fare qualcosa di diverso, tornare al cuore di quello che facciamo, cioè alla teatralità, al gioco, allo spirito creativo e di condivisione. Perché un ristorante dovrebbe essere etichettato in un modo e non cambiare mai? Perché non posso fare cinque cene all’anno del tutto diverse, con attivazione estrema dei cinque sensi, e invece quando entri a teatro ci vai per uno spettacolo sempre nuovo? Lo schema di Contraste, lo dice anche il nome, è questo. Fare sempre quello che non ti aspetti, rifiutare l’etichetta. E allo stesso tempo, spero che poche persone siano venute al mio ristorante solo per la cena al contrario, perché di Contraste non avrebbero capito nulla.
Mi sembra che abbia sempre a che fare con l’equilibrio tra le cose da lasciare indietro e quelle da portare nel futuro.
Sì. Su questo posso dire di star provando a fare qualcosa all’interno del ristorante in primis. Mostrandomi come persona e non come personaggio, e coinvolgendo attivamente i ragazzi in quello che succede. Non è un approccio che mi viene naturale, spero un giorno di poterlo definire “normalità”. Anche questo è un buon esercizio per lasciar perdere il futuro, che ha a che vedere con il controllo. Una volta che deleghi, puoi stare fermo e assaporare il momento.













