Come si racconta un’azienda vitivinicola? Si potrebbe partire dai numeri. Sessanta appezzamenti dislocati su 4 province: Chieti, L’Aquila, Pescara e Teramo. Due milioni di bottiglie all’anno per 22 etichette e 7 linee, che raggiungono 60 paesi nel mondo. “Appena” 45 anni di vita, ma un palmarès illustre di riconoscimenti a partire dai primi anni Duemila. Siamo, naturalmente, in Abruzzo, l’azienda è Masciarelli Tenute Agricole e il suo fondatore, Gianni Masciarelli, è stato il produttore che ha esportato nel mondo il nome del Montepulciano.
Si potrebbe, poi, ricordare cosa fosse l’Abruzzo sul finire degli anni Settanta, quando tutto ebbe inizio. Come sempre accade nelle regioni a forte vocazione agricola, ogni famiglia aveva un campo, un orto, una vigna. Non facevano eccezione i Masciarelli: il padre e il nonno di Gianni erano i classici piccoli agricoltori, non di rado con un altro lavoro “principale”, che da San Martino sulla Marrucina, paesino in provincia di Chieti, conferivano l’uva alle cantine sociali.
Last but not least, si potrebbe parlare della personalità volitiva di Gianni Masciarelli: «Amava la sua terra. Per questo si era fissato di diventare il numero uno d’Abruzzo, dove però faceva fatica a trovare modelli cui ispirarsi», racconta la moglie Marina Cvetic, oggi a capo dell’azienda che ancora guida con egual caparbietà, secondo la visione del marito, scomparso nel 2008. Il ritratto che ne tratteggia è quello di un autodidatta risoluto, determinato a imparare come gestire la campagna e le persone per concretizzare il suo progetto.
Vero è che la regione detta “forte e gentile” poteva già contare su nomi di rilievo. C’era Valentini, tra le cantine più antiche d’Italia: celebre per il suo blasonato Trebbiano, il vigneron di Loreto Aprutino era apprezzato da Masciarelli stesso, come raccontava qualche tempo fa la wine writer Marzia Pinotti nel blog Vite in Fermento. E c’era Emidio Pepe, fra i padri putativi del movimento naturale nel nostro paese, che aveva iniziato a mettere da parte le bottiglie destinate a costruire l’archivio storico del suo Montepulciano.
In quegli stessi anni, l’azienda Masciarelli muoveva i primi passi come una tradizionale impresa familiare: «Pochi dipendenti, una struttura ridotta dove io e lui facevamo di tutto. Il papà di Gianni, di mestiere autista, quando scendeva dal camion veniva in cantina “agli ordini” del figlio. Con la moglie, e una sporta di panini ripieni di polpette al formaggio, partivano per andare a prendere le bottiglie a Forlì».
Sin dalle prime sei etichette uscite nel 1981 (con il marchio depositato in tutto il mondo dall’84: quando si dice la lungimiranza) Gianni Masciarelli, e Marina insieme a lui, hanno condotto la loro attività con tanto studio, viaggi (soprattutto in Francia), contatti con colleghi produttori da cui mutuare e assorbire nozioni e tecniche da applicare, poi, in vigna, in cantina e sul mercato. Ma, soprattutto, con un sincero e appassionato spirito rivoluzionario.
Chi capisce un po’ di allevamento della vite (sì, la vite non si “coltiva” ma si “alleva”, con cura e dedizione quotidiane, proprio come gli animali) coglie subito l’intento innovatore di Masciarelli nel sostituire il tendone abruzzese, la pergola che da sempre caratterizza il panorama locale, a favore del guyot, il sistema nato proprio in Francia nell’Ottocento che permette di avere un numero maggiore di piante per ettaro, con alte rese di qualità. «Il tendone nasce con il trattore Fiat», spiega Marina Cvetic. «Per il guyot dovevi trovare macchinari tedeschi o francesi, insegnare ai contadini come usarli, far fare loro un vero e proprio percorso accademico».
Del resto, qualcuno ha detto che la rivoluzione non è una mela che cade dall’albero perché è matura: devi farla cadere. Il cambiamento deve essere provocato, e una provocazione apparve, forse, l’introduzione in cantina delle barrique di rovere (sempre Francia docet). Così come l’impianto, nei primi anni Ottanta, di un clone unico, importato da Oltralpe, di Cabernet Sauvignon, vitigno “alieno” in una terra dove fino a quel momento erano esistiti solo il Trebbiano per i bianchi e il Montepulciano per i rossi e i Cerasuoli, rosati.
A quel primo outsider saranno affiancati, negli anni, Chardonnay, Merlot, Syrah, Sauvignon e, in ultimo, la Malvasia Istriana. Scelta significativa, quest’ultima. Dalla Malvasia si produce quell’Iskra Marina che parla della capofamiglia e in un certo senso pure di rivoluzione: nelle lingue slave, infatti, Iskra significa scintilla.
Guardare avanti non vuol dire, tuttavia, perdere le radici. Che in Abruzzo si chiamano – anche e ancora – Pecorino, Passerina e i meno conosciuti Cococciola e Montonico. Sono queste le varietà che, insieme alle due classiche autoctone, completano il “portafoglio” vitivinicolo di Masciarelli.
Per immaginare il futuro servono, altresì, solide basi nel passato e piedi piantati nel presente. Una solidità ben rappresentata dal Montepulciano d’Abruzzo Villa Gemma, vino bandiera ed emblema della casa vinicola, oggi seguito nella produzione da Miriam Lee Masciarelli, la figlia maggiore di Gianni e Marina. Primo Montepulciano in assoluto a diventare miglior vino d’Italia per il Gambero Rosso, e da oltre tre decenni ai vertici di classifiche e guide come uno dei 50 migliori vini d’Italia, il successo dell’etichetta è stato una pietra miliare nel percorso della cantina. Il sogno di Gianni Masciarelli si realizzava: «Venivano da tutta Italia a vedere cosa facevamo, persino a prendere da noi le marze (porzioni di vite, nda) del nostro Cabernet Sauvignon per gli innesti: eravamo diventati gli ispiratori», ricorda Marina Cvetic.
È nel solco di quel sogno che l’azienda, anno dopo anno, ha mantenuto e amplificato il suo primato. Soprattutto, dialogando e aprendosi in modo significativo all’esterno. Quindi, non solo producendo novità ed eccellenze, ma anche distribuendo chicche scovate in ogni dove. È la “Gianni’s Selection”, la collezione di etichette selezionate in Italia e nel mondo: i macerati di Dario Prinčič dal Collio friulano, i bianchi della Valle Isarco di Manni Nössing, gli Champagne di Andrè Jacquart fermentati in barrique. E poi, Tokaj dall’Ungheria, Agiorgitiko rosé da Santorini, Riesling dalla Mosella tedesca, Porto Vintage dalla valle del Douro portoghese.
Il viaggio iniziato nei vitigni del nonno ha portato lontano il nome Masciarelli, senza mai interrompere il vincolo con la terra. «Siamo sempre stati molto legati all’Abruzzo. È una terra molto bella, ma siamo frustrati perché come lo vediamo noi non lo vedono gli altri. Non si può spiegare a parole: bisogna venire a visitarlo, dobbiamo portare le persone nel nostro mondo». Da questo intento, e da un dono di Gianni Masciarelli alla moglie, ha preso avvio quello che a oggi è un unicum nel panorama enoturistico abruzzese.
Come ama raccontare Chiara Ludovica, la figlia minore della coppia, il padre sosteneva che ogni regina merita un castello. Fu così che, nel 2004, acquistò il Castello di Semivicoli. «Poi la regina l’ha dovuto restaurare, seguire i muratori, cercare i materiali originali dell’epoca», puntualizza col sorriso la “castellana”. «Solo per i coppi del tetto ci abbiamo messo due anni e mezzo. Abbiamo aperto dopo sei anni di lavori, e non abbiamo ancora finito!».
Il palazzo baronale in cima al borgo, con annessa chiesetta (e relativo passaggio segreto), è diventato struttura di accoglienza, inserita in un circuito presieduto da Alain Ducasse e ricca di un fascino suggestivo. Quando ancora era un work in progress, Marina Cvetic (che seguiva il mercato estero e viaggiava in lungo e in largo) aveva iniziato a portare da Londra un pool di artisti e fotografi, con un ristoratore italo-inglese al seguito per rifocillarli: «Il castello era ancora avvolto dalle impalcature e loro erano affascinati dalle parti diroccate, dai muri sbrecciati, dall’atmosfera decadente. Per circa cinque anni sono venuti, hanno fotografato e disegnato… Purtroppo, non mi hanno lasciato nulla a documentare quel periodo».
A rimanere, il desiderio di fare della location la sede di un progetto artistico permanente – il Masciarelli Art Project, appunto – che ogni anno invita scultori, pittori, creativi e collettivi (quest’anno, Anotherview con le loro “finestre digitali”), a raccontare la loro identità in relazione al luogo che li ospita. Dando vita a un «connubio perfetto tra territorio, vino e arte: una storia che va oltre la nostra cantina, abbracciando l’intero Abruzzo e l’arte di fare vino», come ha avuto modo di commentare Miriam Lee a proposito dell’ultima performance. Ogni edizione lascia al castello un’opera e crea l’etichetta per una tiratura limitata di Villa Gemma.
Non solo arte contemporanea: il variegato côté culturale di Marina Cvetic spazia dalla musica rock alle vite dei santi. «Quando ho preso le redini mi è stato consigliato di circondarmi di persone di fiducia e delegare. Io sono una leader forte, ma da sola non posso andare da nessuna parte. Per questo ho creato una tavola rotonda con otto manager e, per prima cosa, ho dato a tutti loro una copia della Regola di San Benedetto». What? «Sì, perché il management è nato nelle abbazie benedettine: l’abate poteva dirigerne decine solo grazie alle deleghe, a chi fa cosa, alla fiducia». Ora et labora, sorella! Ma anche… «Satisfaction! facevo iniziare ogni riunione con la musica dei Rolling Stones. Come partivano le prime note, catturavo attenzione e silenzio. E poi, tutti noi dobbiamo avere soddisfazione nel nostro lavoro, no?».
In fondo, è tutta questione di equilibrio. Fra tradizione e modernità, legame con il territorio e apertura verso il mondo, produttività e pratiche sostenibili, non da oggi tra le priorità dell’impresa, impegnata a promuovere un modello di agricoltura rigenerativa.
Anche nell’offerta, la cantina si è evoluta conservando, senza rinnegarne alcuna, le diverse anime e anzi valorizzandole. Se da un lato, come diceva Gianni Masciarelli, «una grande azienda si riconosce dal suo vino quotidiano», motivo per cui le prime etichette degli anni Ottanta ancora vivono nella linea classica, dall’altro si portano avanti progetti incentrati sull’eccellenza più rara. Come la limited edition La botte di Gianni, un Trebbiano d’Abruzzo Riserva e un Montepulciano d’Abruzzo Riserva vinificati e affinati per 30 mesi in due tonneau di rovere francese da 700 litri: acquistati da Gianni ma mai utilizzati e dimenticati in cantina, nel 2010 furono trovati per caso da Marina, che ebbe la felice intuizione di farli “vivere”.
«Il vino è lavoro, passione, amor di natura, intuizione», diceva del resto Gianni Masciarelli. L’elenco continuava con «socialità e convivialità. E qualche volta, rara e preziosa, anche profonda amicizia». L’amicizia che lo legava, tra gli altri, a Luigi Valori, vignaiolo filosofo entrato a far parte del gruppo dal 2003. Da quest’anno, i suoi Cerasuolo e Pecorino (vinificato in anfora) non sono filtrati. Una scelta che parla a un consumatore moderno, e lo fa presentandosi con un’etichetta dal nome poetico: Chiamami quando piove. Che quando il tempo è clemente si sta a lavorare tra i filari e non c’è tempo da perdere in chiacchiere.
Ce n’è tanta di poesia, nel mondo Masciarelli. La vedi nel firmamento di decine e decine di lucine scintillanti che costella il soffitto della Bottaia dal Cielo stellato, dedicata al fondatore e tappa irrinunciabile per chi visita la cantina. La senti nel “Pensatoio”, il suggestivo, piccolo rustico ristrutturato, affacciato sui filari, dove Gianni Masciarelli amava trascorrere buon tempo. La trovi nelle mini installazioni dorate disseminate nelle stanze del Castello: insettini, api, chiocciole, germogli, alveari creati da Marcantonio, artista e designer ospite della seconda edizione dell’Art Project.
Su una brochure del Castello, è riportata una frase di Gianni Masciarelli: «La mission: diffondere ovunque nel mondo le autentiche emozioni della storia, della cultura, della terra e della gente d’Abruzzo, con la fervida passione del bravo contadino, per la sperimentazione del nuovo». Non si sarebbe potuto scrivere meglio.








