Per molti, le Marche non esistono. Sono una regione di passaggio, utile per fare rifornimento lungo l’autostrada adriatica: scendi per il sud, sali per il nord, al massimo ti fermi un’ora per un panino all’Autogrill. Una terra difficile da collocare sulla mappa emotiva del Paese. Troppo a est per essere centro, troppo silenziosa per essere sud, troppo riservata per dirsi nord. Eppure è qui che l’Italia si ripiega, come una cerniera silenziosa tra territori diversi.
Guido Piovene, che nel 1957 si mise in viaggio per raccontare il Paese con uno sguardo chirurgico e sentimentale, lo aveva capito bene: «Il viaggiatore non deve lasciarsi ingannare dall’idea che le Marche siano un tutto uniforme. Piuttosto bisogna vederle come un plurale». Ed è questo il punto: le Marche sono plurali, e non solo nel nome. Una regione fatta di frammenti che non si sommano mai a un’unità definitiva, ma restano sospesi in un equilibrio di forze minime.
La geografia lo dice meglio di qualsiasi guida. Dall’alto, il territorio è una partitura ordinata: montagne, colline, fiumi che scendono all’Adriatico come i denti di un pettine. Lo si vede bene in quelle geometrie chiaroscure nelle fotografie di Mario Giacomelli, o in quei paesaggi astratti di Tullio Pericoli. In un’ora puoi passare dal mare alla neve. Lungo il tragitto incontri borghi che non hanno mai voluto eccedere. Non c’è mai stata una Firenze o una Roma che imponesse la propria grandezza: qui nessuna città primeggia sulle altre. «Un’eguaglianza che non diventa mai competizione», scriveva ancora Piovene. Ogni borgo resta misura di se stesso, modesto eppure irriducibile.
La misura è la chiave. Pasolini, in La forma della città (1974), lo aveva intuito: la bellezza dei luoghi italiani non è mai nelle vette eccezionali, ma nel rapporto che una comunità instaura con il proprio paesaggio. Le Marche lo dimostrano con ostinazione. Il rosso mattone delle case si confonde con i gialli del grano, con i marroni spogli dei boschi, con il verde pieno della primavera. Non c’è rottura tra natura e costruzione, tra collina e muro: tutto aderisce a un ordine segreto.
Recanati, per esempio, ha fatto dell’orizzonte la sua poesia — per Leopardi era un limite che diventava infinito, un vincolo che apriva il pensiero. Urbino, invece, ha tradotto la misura in proporzione perfetta: i torricini del Palazzo Ducale sembrano minareti esotici, ma sono la proiezione di un’idea umanistica e matematica, di una città a dimensione d’uomo. Non scenografia, ma forma spirituale.
Il paesaggio marchigiano ha un carattere ambiguo: languido e accidioso, quasi meduseo, direbbe Hofmannsthal. È monotonia e ipnosi: colline che si ripetono ossessivamente, fino a stordire. Ma è proprio in questa ripetizione che si rivela la sua forza: non il colpo di scena, non l’effetto speciale, ma la persistenza. Le Marche ti restano addosso non perché vogliono piacerti, ma perché non ti mollano.
Prendiamo Ancona. Una città che i marchigiani stessi definiscono brutta, con un certo orgoglio autolesionista. Eppure la sua bellezza è nascosta in profondità. Non si concede subito. La devi guardare dal mare. Solo quando arrivi dall’altra sponda, dalla Croazia, e la nebbia si apre, capisci la sua posizione: colline che si tuffano a picco sull’acqua, San Ciriaco in cima come un tempio greco travestito da cattedrale. È la stessa genesi di Atene: un luogo sacro messo a guardia del porto, a dominare e benedire insieme. Ancona è un avamposto, una città che sembra voler resistere più che sedurre.
Alle estremità, la regione sfuma nei caratteri dei vicini. A nord, Pesaro scivola verso la Romagna: lo vedi nei volti, nell’umore, nelle porzioni generose di cibo, in un modo di vivere più leggero, quasi ridanciano. A sud, Ascoli cambia tono: le torri di pietra, i campanili, le rondini che disegnano cerchi in cielo. Una città tellurica, che vibra come l’Abruzzo accanto. È un’Italia diversa che pulsa ai margini, senza mai urlare. È un’Italia che forse le contiene tutte, in una sintesi ripulita dai cliché. È un’Italia ideale perché priva dei picchi che la renderebbero caricatura.
E poi c’è il mare. L’Adriatico marchigiano non è mai stato pensato per piacere. Non ha il fascino cinematografico del Tirreno, non Capri o Positano da esibire. È un mare piatto, apparentemente monotono, che pochi imparano a decifrare. Piovene lo descriveva così: «Certi verdi freddi, grigi traslucidi, azzurri striati di rosso, che ricordano i marmi pregiati e le pietre dure. A differenza del Tirreno, l’Adriatico ha colori rari ed eccentrici, il gusto dell’anomalia». Un mare che non si dà e ti obbliga a stare, a guardare. Un mare da compagnia.
Il Conero è la sua rottura. Una montagna di pietra bianca interrompe la distesa piatta della costa, con sassi e alberi che si buttano nell’azzurro. Un’anomalia geografica che diventa rivelazione visiva. In un tratto di litorale dove tutto è sabbia e stabilimenti, il Conero sembra un corpo estraneo: un promemoria che la bellezza non è mai lì dove la aspetti.
Forse è questo il senso del viaggiare nelle Marche: accettare di perdersi. Non cercare lo stupore, ma abbandonarsi a un’ignoranza salutare, come la chiamava Piovene. Lasciarsi attraversare da un territorio che non vuole spiegarsi e non vuole compiacere. Pasolini diceva che la forma della città è sempre un gesto politico: il modo in cui un popolo decide di abitare il proprio spazio. Le Marche hanno deciso di non urlare, di non eccedere, di non primeggiare. Senza concedersi subito, senza piacere per forza.
Per ricomporre questo mosaico frammentato e plurale conviene passare anche dalla tavola, non in quanto parentesi turistica, ma continuazione naturale del paesaggio.
E allora, per assaporare davvero l’animo delle Marche, eccovi alcuni indirizzi — tra riti quotidiani, sapori contadini e invenzioni contemporanee. Non una guida, ma un invito: buon appetito.
Fattoria Mancini
Strada dei Colli, 35, Pesaro (PU)
Vigne sul promontorio del San Bartolo, con radici che sfiorano il mare. Il Sangiovese che nasce da queste colline porta con sé vento e sale: un rosso che racconta un territorio sospeso tra acqua e terra. È consigliato andarci d’estate, quando è possibile sorseggiare un calice tra le vigne guardando il sole che tramonta sulla Romagna.
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Osteria Zanchetti
Corso Garibaldi, 68, Fossombrone (PU)
Rifugio per chi cerca piatti di casa: baccalà, paste al forno, carni in umido. Porzioni generose e ricette tramandate, dove mangiare significa entrare in una comunità più che seguire mode. Storia della cucina tradizionale riproposta con un boost di fantasia e peripezie sperimentali.
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Sot’aj Archi
Via Armaroli, 31, Ancona (AN)
Sotto le arcate del porto, pesce lavorato con asciuttezza e rigore: tavoli stretti, bicchieri spaiati, piatti essenziali che riflettono l’Adriatico visto d’inverno, freddo e ipnotico. La vera anima portuale di Ancona qui si rivela in tutta la sua magnifica veracità.
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Ristorante Dario
Via Colombo, 11, Porto Recanati (MC)
Mentre nel 1969 l’uomo andava sulla Luna, nonno Dario e nonna Nora aprono questa piccola attività a Porto Recanati. Una tradizione marinara che si tramanda da tre generazioni e che racconta della vita semplice e dolce dell’Adriatico. Pesce cucinato, grigliata, fritto a volontà.
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Contrada San Savino
Contrada San Savino, Civitanova Marche (MC)
Osteria agricola condotta da giovani ragazzi che si sono messi alla prova, tra orti e campi coltivati direttamente. Piatti semplici e diretti, verdure di stagione, carni locali e vini naturali: la concretezza contadina delle Marche senza filtri.
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Caffè Meletti
Piazza del Popolo, 2, Ascoli Piceno (AP)
Dal 1907 veglia sulla piazza più elegante della città: anisetta e stucchi liberty, eleganza e popolarità che convivono in un sorso. Una sosta rituale, ripetuta da generazioni. Un inchino a uno dei migliori caffè d’Italia, senza esagerazioni.
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Azienda Agricola Valter Mattoni
Contrada San Pietro, 36, Castignano (AP)
Il vignaiolo Valer Mattoni è soprannominato “Roccia”, perché produce bottiglie ostinate e selvatiche: piccole quantità che condensano in bottiglia i frutti di un territorio scabro. Il risultato è un vino naturali che converrebbe sempre tenersi in cantina.
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