Ma quindi come si mangia sugli aerei di lusso? | Rolling Stone Italia
se il cielo sa di burro

Ma quindi come si mangia sugli aerei di lusso?

Una tratta Milano-New York e ritorno per sentirci un po' come negli anni Sessanta (ma senza il prosciutto tagliato a coltello) e per rispondere alla domanda: come siamo finiti a farci servire pasti da mensa sugli aerei?

la compagnie

Foto: Mike Tamasco

C’è stato un tempo in cui il cielo aveva il profumo del burro fuso. Nessuno di noi lo ha vissuto veramente, sia per questioni anagrafiche, sia per ragioni geografiche (la grande mitizzazione riguarda i voli americani), ma come le volte succede online, qualche tempo fa tutti sembravano impazzire per fotografie d’archivio in cui si vola tra poltrone larghe come divani, hostess sorridenti, guanti bianchi e piatti di roast beef serviti su porcellane. Un sentimento collettivo, dolce e vagamente ridicolo, quello di una nostalgia per un tempo che non si è vissuto, sensazione che le persone colte chiamano “anemoia” e i cinefili da salotto chiamano “quella cosa di Midnight in Paris”.

È la nostalgia degli anni d’oro dell’aviazione, quando si mangiava bene, c’era spazio per le gambe e l’idea stessa di volare aveva qualcosa di mondano, persino esotico. Quelle immagini — i carrelli d’argento, i bicchieri di cristallo, le aragoste a bordo della Pan Am — che raccontano di un’epoca in cui l’aria era spazio per navi da crociera sospese.

Guardando quelle foto idilliache non possiamo che sentirci amareggiati dalla nostra cattiva sorte da generazione Erasmus, figlia della grande crisi dei Subprime e delle piccole e medie crisi successive a cui ci siamo perfino stancati di dare nomi fighi. Noi siamo quelli cresciuti nei decenni delle low cost, tra trolley sempre a dieta e democratizzazione del disagio. Il cielo è diventato un’anticamera scomoda, un’attesa pressurizzata.

E anche quella volta all’anno quando prendiamo un intercontinentale per la Thailandia, New York o per il tanto agognato Giappone, ci troviamo a fare ore con le ginocchia incastrate, sentendoci addirittura dei privilegiati per essere perlomeno nutriti con dei pasti sigillati sotto alluminio.

Già, i pasti in aereo. Mediamente hanno bei nomi e pessimi risultati culinari, essendo alla fine cibo da mensa in vaschetta da porzione singola, come lo definiva Edward Norton in Fight Club in un discorso non particolarmente motivante sui voli (che non vi consiglio di guardare se state leggendo questo articolo nell’attesa di imbarcarvi).

Fight Club - L'amico porzione singola più interessante

Ogni tentativo di nobilitarlo non fa che per scivolare nel tragicomico, e quando ci troviamo a riguardare le storie Instagram dei nostri pasti ad alta quota finiamo per sentirci come Tom Hanks, che in The Terminal per conquistare Catherine Zeta Jones organizza una cena romantica nel terminal chiuso a base di pasti pronti delle varie compagnie aeree spacciandoli per gourmet (curiosità non richiesta, da quel film è nata una bislacca ricetta chiamata i “Cannelloni alla JFK”, che però a giudicare dal numero di versioni presenti online pare ormai ufficialmente codificata dalle casalinghe annoiata sui due lati dell’oceano).

Tom Hanks la porta fuori a mangiare cibo da aereo | The Terminal | Clip in Italiano

Ma detto questo, purtroppo la verità è che la colpa non è dell’epoca storica, e non sono le brutte e cattive compagnie aeree che hanno deciso di lucrare sui 30€ del vostro biglietto facendoci la cresta e non dandovi da mangiare.

La verità è che anche all’epoca di quelle foto volare non era un’esperienza per tutti. Il volo commerciale ha cominciato a democratizzarsi negli anni Settanta, ma la vera rivoluzione arriva negli anni Ottanta e Novanta, con l’introduzione del già citato modello low cost. Prima, viaggiare in aereo era un’esperienza elitaria: costava quanto uno stipendio, richiedeva abiti formali e spesso si prenotava tramite agenzie o uffici di compagnia come si prenotava un transatlantico. Negli anni Cinquanta e Sessanta — l’età d’oro dell’aviazione civile — chi volava apparteneva a una fascia medio-alta o era in viaggio di lavoro per grandi aziende. Le famiglie si spostavano ancora in treno o in nave, soprattutto in Europa. Le tratte intercontinentali erano dominio dei ricchi, dei diplomatici o dei militari. I jet civili (Boeing 707, Douglas DC-8) erano nuovi, i biglietti cari e quindi logicamente l’esperienza costruita per essere una sorta di salotto sospeso.

Tutto cambia con la deregulation del trasporto aereo negli Stati Uniti (1978) e poi in Europa (anni ’90), che permette alle compagnie di fissare liberamente i prezzi e alle nuove realtà come Southwest, Ryanair ed EasyJet di nascere con modelli a basso costo. Da quel momento volare smette di essere un rito e diventa un servizio: economico, standardizzato, impersonale.

Ma se esistono le Low Cost, perché non esistono le High Cost? Le risposta è: esistono, sei solo troppo povero per conoscerle, e giustamente loro hanno scelto di farsi chiamare con più garbo. In Europa la più famosa è senza dubbio La Compagnie, una piccola realtà francese che ha deciso di rimettere la parola “piacere” dentro il verbo “volare”, creando una compagnia fatta solo in business, per tutti i passegeri. Non a caso ha deciso di mutuare la parola al mondo dell’hotellerie, definendosi una “boutique airline”.

Fondata negli anni 10 del 2000 da Frantz Yvelin, imprenditore con il curriculum di un ex pilota e la nostalgia di un viaggiatore del secolo scorso, La Compagnie opera con due soli aerei — due Airbus A321neo— che fanno la spola tra Parigi e New York, Milano e New York o Nizza e New York. Tutte rotte simboliche, scelte con l’occhio di chi sa che metà del fascino di un volo è la città da cui si parte e l’altra metà è quella in cui si atterra. A bordo ci sono solo 76 poltrone completamente reclinabili, disposte in configurazione 2-2, rivestite in pelle, con prese elettriche e USB, Wi-Fi gratuito e schermi più grandi di quelli di certi salotti.

Ma il vero punto è l’atmosfera. Le cabine, silenziose e immerse in una luce color champagne, somigliano più a un salotto volante che a un mezzo di trasporto. E siccome sono francesi, l’ossessione non poteva che essere il cibo. Il menu, curato da chef stellati, cambia a seconda della stagione e della tratta.

Ho avuto l’opportunità di volare con loro in direzione New York, e vorrei potermi addentrare in tecnicismi sull’aeromobile, sulla differenza tra la qualità dei cuscini di questa compagnia rispetto ad altre Bussines Class, ma purtroppo il mio ambito elettivo di scrittura resta l’enogastronomia, e quindi, parafrasando il buon Angiolieri “S’i’ fosse Cecco, com’i’ sono e fui, vi racconterò cosa si mangia a bordo, e a parlar di spazio per le gambe lasserei altrui”.

Come si mangia in volo?
Seduto al mio comodissimo posto, dopo aver velocemente scorso la lista dei film e apprezzato la possibilità di stendere le gambe, attendo impaziente il primo servizio del volo partito da Milano.

Impaziente, è vero, ma non a bocca asciutta, perché ciò che decisamente non manca è lo Champagne, servito prima del decollo, durante i pasti su richiesta, e volendo in qualsiasi momento del volo.

la compagnie

Foto: Mike Tamasco

Sul menu di bordo è presentato un servizio in quattro portate firmato dallo chef Christophe Langrée, che devo dire la verità non conoscevo prima di partire, ma che ho potuto costatare grazie al Wi-Fi ad alta quota essere stato il cuoco che in passato ha guidato le cucine de l’Hôtel de Matignon, ovvero la sede del Primo Ministro francese. Si, parte, ma non prima che una gentilissima hostess mi abbia passato un asciugamanino caldo e umido per pulirmi le mani prima.

Il menu si apre con tartare di pesce spada affumicato, purè di avocado, mele verdi e nocciole tostate, piatto veramente di livello. Segue la scelta della portata calda, tra il Mac&Chicken al tartufo con jus di volaille o il filetto di merluzzo con carote gialle e risotto allo zafferano. Come da miglior tradizione francese, si chiude con fromage — Parmigiano e Asiago, affiancati da sedano e uva passa — e dessert, un tortino caramello e burro salato.

Il livello di tutto è decisamente alto, ovviamente non ci sono i flambè e i prosciutti tagliati al coltello davanti al cliente come nei leggendari voli degli anni Sessanta, ma forse il fatto che si sia impedito fiamme libere e coltelli giganti sugli aerei non è poi un peggioramento. Secondo servizio del volo: prima dell’atterraggio viene servita una colazione, con due alternative: crostatina al limone accompagnata da yogurt ai mirtilli rossi essiccati oppure panino al tonno servito con zuppa di peperone rosso e crema di mandorle.

la compagnie

Foto: Mike Tamasco

Dopo una settimana da questo primo volo, con in corpo qualche decina di hamburgher, pizza slice e hot dog di troppo, mi appresto a rientrare e a fare la mia seconda esperienza gastronomica ad alta quota. Il menu ripartendo dagli States è ovviamente completamente diverso: si comincia con una zuppa fredda di zucca butternut, mele verdi e cocco tostato, che dopo una settimana di cibo cotto nel burro mi fa sentire come se mi stessi facendo del bene da solo.

Segue di nuovo una doppia opzione: insalata di trota salmontata affumicata con punte di asparagi verdi e crostini di brioche o insalata di petto d’anatra con fichi freschi e zucca speziata. A completare il menu, una selezione di formaggi, questa volta americani — Beecher’s Flagship di New York e Bleu de Vermont —, una torta alle prugne come dessert. Niente vini in plastica monouso, soltanto eleganti bottiglie sversate nei bicchieri logati. Soddisfatto e appesantito, mi concedo di dormire 6 ore molto comode in attesa del mio ultimo pasto prima di rientrare in Italia e mettermi a dieta fino a natale come minimo. Per la colazione, la scelta tra clafoutis di patate, peperoni tricolore e pomodoro alla provenzale o brioche alla maniera del pain perdu con frutti rossi e formaggio fresco.

Atterro a Milano con la sensazione, rara e vagamente anacronistica, di essere tornato da un viaggio in cui il volo è stato parte integrante dell’esperienza, non solo un mezzo per arrivare da qualche parte. E anche se Malpensa è di nuovo la normalità, e nessuno mi accoglie con un Martini Dry e una sigaretta accesa, e bello sapere che, volendo, si può ancora attraversare l’Atlantico senza sentirsi un pacco Amazon. Certo, resta il rischio di scendere dall’aereo con una certa alterazione glicemica e la convinzione di poter pronunciare “pain perdu” con accento francese credibile, ma sono effetti collaterali sopportabili. In fondo, se il cielo non profuma più di burro fuso, almeno per qualche ora può tornare a sapere di caramello salato.

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