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Ma alla fine il caviale ci piace?

Il mito di quello russo e iraniano, storioni "born and raised" in Brescia e una domanda doverosa: crediamo davvero che mettere queste uova di pesce su un po' tutto renda migliore il piatto?
caviale

Foto: courtesy of Calvisius

Il caviale, l’apostrofo nero tra piatto e gourmet. L’ingrediente che nobilita preparazioni altrimenti banali, e giustifica scontrini sostanziosi, entusiasma gli appassionati ma lascia indifferenti altri con palati meno “nerd” che, semplicemente, non ne comprendono l’utilità, quando proprio non ne apprezzano gusto e consistenza. Dove sta la ragione? Aggiunge un twist raffinato o non aggiunge altro che se stesso? Ci piace o non ci piace?

Chi lo ama lo percepisce come croccante ma cedevole e cremoso, esplosione di umami e salsedine, mare all’ennesima concentrazione. Aggettivi e locuzioni superlative si sprecano per i tanti estimatori del caviale. Di contro, chi lo odia lo paragona a palline viscide e salmastre, a granuli gelatinosi e limacciosi, e c’è finanche chi lo declassa a “perle del bubble tea, però salate” (letto su Reddit). Qualche altro detrattore sostiene che l’unico motivo per cui è apprezzato è perché costa un botto e quindi fa figo. Nel bene e nel male, c’è un po’ di verità in tutte queste affermazioni – tranne forse nel paragone con il bubble tea.

Se ve lo state chiedendo – perché, magari, non avete avuto la fortuna di assaggiarlo o al contrario, colti da epifania gastronomica, non vi siete soffermati sull’analisi sensoriale – è corretto dire che il caviale sa di mare, ma non di pesce. Pare scrocchiare sotto i denti, ma basta schiacciarlo con la lingua sul palato per svelarne la burrosità. È sapido, senza tuttavia lasciare la bocca riarsa. Certo, purché si tratti di caviale di qualità. Qualità che si paga: dai circa 2-3 euro al grammo (ripeto, al grammo) fino ai 10, anche 15 delle varietà più leggendarie, come il mitologico Almas iraniano, bianco crema, ottenuto da pesci albini.

Senza arrivare a tanto, anche nelle versioni più accessibili il costo non è indifferente, considerato che il taglio “minimo” degno di essere degustato da una coppia gourmand sono 30 grammi (forse sufficienti per 4 neofiti). Anche il minuscolo mucchietto di uova su un amuse-bouche o una tartarina incide sul food cost del cuoco e, di conseguenza, sul conto del cliente.

Foto: courtesy of Calvisius

Ora la domanda è: vale la pena spenderli, questi soldini? Sono giustificati per quantità comunque minime? Per assaporare un attimo di libidine, intensa quanto si vuole, ma a che prezzo? Tanto per capirci: un ristorante russo a Milano vende una bruschetta (sì, una bruschetta) con 5 g di caviale a 15 euro. Origine non meglio specificata. Mentre l’origine, come le dimensioni, contano.

Nell’immaginario collettivo, c’è l’errata convinzione che il caviale migliore arrivi dall’ex Unione Sovietica o dall’Iran, storicamente “culle” di questo prodotto. Eppure, per chiarire l’equivoco, basta soffermarsi sulla sua abbondanza nei mercati occidentali, così come sulle tavole più raffinate da New York a Dubai, e sulle immaginabili problematiche che le esportazioni da quei Paesi stanno attraversando in questo periodo storico. Oltre a ciò, come riporta uno studio dello scorso anno del Sis, istituto di ricerca internazionale, al momento la legge russa permette esportazioni per solo 150 chili all’anno: difficile che una parte di questi sia finita su un crostino a Milano.

Prima di rispondere a quel “ne vale la pena?” occorre dunque approfondire di cosa stiamo parlando. Cominciamo con il dire che, secondo la definizione del Codex Alimentarius (il compendio stilato da Fao e Oms che regola le produzioni alimentari mondiali), per caviale si intendono esclusivamente le uova ricavate da pesci della famiglia Acipenseridae, storioni per gli amici, opportunamente lavorate e salate, con un contenuto tra il 3 e il 5% di sale. Entro questi limiti si ha il cosiddetto “malossol”, non trattato termicamente e quindi “fresco” (sebbene tecnicamente sia una semiconserva), la migliore espressione di questo prodotto.

Caviale Beluga. Foto: courtesy of Calvisius

Sulla regolamentazione dice la sua anche il Cites, la convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione che, dal 2006, ha posto il bando sulla pesca degli storioni selvatici stabilendo che la produzione possa avvenire esclusivamente da esemplari allevati. Un colpo di grazia al mito del caviale selvaggio di cui si favoleggiava nei banchetti di zar russi e scià persiani. E una fortuna non solo per i pesci del Mar Nero, del Mar Caspio, del lago Baikal o (strano ma vero) dell’Adriatico. Ma anche per chi, con una felice lungimiranza, nei primi anni Duemila era già avanti nell’allevamento di queste specie.

Siamo a Calvisano, nella bassa bresciana, piccolo comune che negli anni Settanta era noto per la sua acciaieria: uno stabilimento imponente con un surplus energetico e idrico che uno dei soci, Giovanni Tolettini, pensò di reinvestire in un impianto di itticoltura, grazie a un’intuizione anticipatrice dei moderni concetti di sostenibilità e gestione delle risorse.

La neonata Agroittica Lombarda poteva sfruttare le acque sorgive che sgorgavano nei pressi del complesso industriale, particolarmente pure e adatte a creare il giusto habitat per lo storione bianco, introdotto all’inizio degli anni Ottanta, dalle carni bianchissime (appunto) con un apprezzabile valore gastronomico.

Da qui alla produzione del caviale il passo è stato, relativamente, breve: in un decennio – il tempo necessario perché le femmine raggiungessero la maturità sessuale – si iniziò a produrre dalle uova il primo caviale dell’azienda. Al momento dell’entrata in vigore delle normative Cites Calvisius, come era stata battezzata l’impresa, era già una realtà internazionale, poi inserita nel più ampio progetto denominato Italian Caviar insieme ad Ars Italica, realtà insediata nel Parco del Ticino.

Foto: courtesy of Calvisius

Fast forward: oggi, a poco più di trent’anni dall’inizio della storia, il nostro Paese – con un numero di aziende che si conta poco più che sulle dita di una mano – si attesta come il secondo produttore al mondo e il primo in Europa, a livello globale dietro solo alla Cina. E più della metà del caviale italiano è “made in Brescia”, rigorosamente malossol, con la minore percentuale di sale ammessa dal disciplinare.

Nelle vasche di Calvisano e del Parco del Ticino nascono, crescono e nuotano svariate specie di storioni, a ognuna delle quali corrisponde una qualità specifica di caviale: dal “gigante” ladano (può arrivare a 9 metri di lunghezza) si produce il Beluga, dal russo l’Oscietra (o Asetra), dallo stellato il Sevruga. Ci sono il siberiano, il bianco (il “grande vecchio”, che può arrivare a 100 anni di età), lo storione dell’Adriatico, il cui caviale è stato battezzato Da Vinci, e lo sterletto. Quest’ultimo è un pesce albino che dà un caviale color oro denominato 24 K.

Proprio il colore è, insieme al calibro, tra le caratteristiche organolettiche su cui soffermarsi per poter dire di aver speso bene i propri soldi. Va da sé che il caviale è tanto più pregiato quanto più le uova si avvicinano o superano i 3 mm, come nei migliori Beluga. Mentre, per quanto riguarda il colore, sorpresa: il caviale non è banalmente nero.

Qui apriamo un inciso per stendere un velo sul più famoso dei succedanei (termine di legge per definire tutte le preparazioni di uova di pesci che non siano storioni), ovvero le uova di lompo: nere come la pece o, peggio, rosse fluorescenti, quelle sì salaterrime, hanno la tendenza a lasciare – letteralmente – l’amaro in bocca. Difetto che solo un caviale mal conservato o di bassa qualità presenta.

Per fortuna, c’è di meglio: la salagione delle uova di pesce è tradizionale in diverse parti del mondo e applicata alle più svariate tipologie ittiche, tanto che vi sono prodotti più che egregi tra uova di salmone (ikura per i giapponesi), di trota, di aringa, di merluzzo, mentre sono assai comuni i sushi guarniti con tobiko, uova di pesce volante, e masago da pesce capelin, una sorta di acciuga dei mari del Nord.

Di caviale però stavamo parlando e del colore che, secondo le varietà, può andare dal grigio chiaro perlescente del Beluga all’antracite del Sevruga al marrone ambrato dell’Oscietra, sempre con nuance e riflessi vividi, mai piatti e artificiosi.

Ma alle fine, ‘ste perline scure e lustre, di che sanno? Neanche a dirlo, il gusto varia da una qualità a un’altra. Il più soft, adatto a chi si vi avvicina per la prima volta, può essere quello di storione bianco, come il Tradition di Calvisius, descritto “leggermente fruttato con note di nocciola e di burro, ricorda il mare solo nelle sue componenti più delicate”. Via via i sapori si fanno più netti: da arachide, ostrica e alghe che caratterizzano il siberiano, al riccio di mare che fa capolino tra gli aromi dell’Oscietra, dal tannino del Sevruga all’umami spinto di sua maestà il Beluga. Contribuisce all’esperienza gustativa la texture: in bocca, le uova si devono percepire come sgranate, il “guscio” sufficientemente “teso” da scrocchiare appena, giusto un istante prima di liberare il saporito contenuto.

Foto: courtesy of Calvisius

Stabiliti i parametri di riferimento per dimensioni, aspetto, gusto e consistenza, dovrebbe diventare più facile distinguere le produzioni eccellenti, che possono valere la spesa, da quelle qualitativamente modeste tra cui annoverare anche il caviale cosiddetto “etico”.

Facciamo un passo indietro. Il caviale si ottiene dalla lavorazione dell’intero ovario, estratto dalla femmina post mortem. Astenersi anime belle, negli anni si è tuttavia provato a studiare il modo di salvaguardare le (mancate) madri, ovvero ricavare le uova senza uccidere chi le aveva prodotte. La tecnica esiste ma risulta nettamente più crudele dell’originale: detta terra-terra, si stimola (tramite ormoni) l’ovulazione nella “storiona”, che rilascia le uova nel ventre, quindi viene sottoposta a una sorta di taglio cesareo per recuperare il prezioso contenuto, poi ricucita e ributtata in acqua. Questo per diverse volte nel corso di una decina di anni, al termine dei quali la femmina “esaurita” smette di fare uova e diventa, fatalmente, carne.

Se non bastasse la scarsa o nulla eticità, tra cure ormonali e ripetuti interventi chirurgici, il metodo dà un prodotto organoletticamente peggiore: la “pelle” delle uova è sottilissima, la massa avvolta da una patina collosa, difetti da correggere con l’aggiunta di svariati additivi. Così, da un lato il Codex ha sancito che questo tipo di prodotto sia etichettato come “caviale da uova ovulate”, appunto, per non dare adito a fraintendimenti. Dall’altro l’Unione Europea ha vietato la tecnica. E il caviale viscoso e imbottito di farmaci, almeno da queste parti, ce lo siamo evitato.

Ora che sappiamo (quasi) tutto sul caviale, resta una domanda fondamentale: qual è il modo migliore di gustare questa prelibatezza? La risposta più corretta sarebbe in purezza. Il vero amateur si diletta con il caviar bump, mangiandolo dalla mano: si preleva una noce di uova direttamente dalla lattina con un cucchiaino in madreperla, si depone sul dorso della mano chiusa a pugno, alla base di pollice e indice, si avvicina alla bocca e… bump! giù in un colpo solo. Nota a margine: il fichissimo cucchiaino apposito è in madreperla perché, si dice, il metallo può alterare il gusto del caviale. La lattina è di metallo. Tanto vi dovevo.

Tornando al caviar bump, per alcuni potrebbe risultare un po’ hardcore. Più facile scegliere un supporto mangereccio. Magari, non una bruschetta, ma un elegante canapè, un triangolino di pane tostato o, come tradizione russa vuole, un blini, a metà tra focaccina e mini pancake di sapore piuttosto neutro, con un velo di panna acida. Sempre in cerca di basi che non sovrastino ma accompagnino, bene la patata lessa o, grande classico, l’uovo morbido, il concetto sublimato nel Cyber Egg di Davide Scabin. Se invece di uovo su uovo fosse mare su mare, via libera ai crudi: tonno, ricciola, gamberi, scampi. Non è un caso che sia la guarnizione preferita per maki e nigiri di alta cucina jap. Per andare sul sicuro, insomma, niente che copra e niente già molto salato di suo.

La regola da cui davvero non si può prescindere è il divieto assoluto di sottoporlo a cottura. A essere super rigorosi, si dovrebbe anche evitare di posarlo su cibi cotti molto caldi. Ecco allora la genialata scaturita, nel 1980, dalla fervida mente del Maestro Gualtiero Marchesi con la sua Insalata di spaghetti al caviale, erba cipollina e un pizzico di scalogno. Oggi, sembra nulla. Ma negli anni Ottanta nessuno chef stellato (allora il ristorante in via Bonvesin de la Riva contava due macaron) cucinava la pasta secca. Men che meno fredda.

«Il signor Marchesi (chi ha lavorato con il Maestro ne parla ancora oggi con deferenza, ndr) scelse la strada più intelligente», è il commento di Daniel Canzian, tra i suoi ultimi pupilli. «Lo mise sopra il piatto più nazionalpopolare. A proposito di quella ricetta, mi disse che il caviale, il principe degli ingredienti, alla fine doveva ringraziare gli spaghetti per averlo enfatizzato».

Se la perfezione è nei dettagli, nella ricetta di Marchesi anche quel nonnulla di scalogno ha un sottotesto filologico non da poco, richiamando l’abitudine russa di accompagnare le scorpacciate di caviale, un tempo assai salato, con cipolla cruda – e vodka alla goccia. Con la medesima logica Canzian lo usa come garnish di casunzei ampezzani, ravioli di patata e barbabietola, altro ingrediente affine alla tradizione russa. Semplice ed efficace.

A guardare l’interpretazione di un altro grande, Giancarlo Perbellini, viene invece in mente l’abitudine nordeuropea di sottoporre a fumo di legna le specialità ittiche conservate. Il fresco tristellato completa infatti il suo zabaione ghiacciato con caviale affumicato. Ancora, grande semplicità, il caviale posato sul ghiaccio, che è poi il modo classico di servirlo in tavola, in una coppa annidata su un letto di crushed ice.

Sì, agli chef la sfida piace. A volte pure troppo: «Stiamo parlando di un prodotto difficile. Ci sono colleghi che amano complicarsi la vita mettendoci accanto mille e più ingredienti per dimostrare la loro bravura», osserva Canzian. «L’abilità, invece, sta nello scegliere bene la materia prima. Fatto quello, è sufficiente rispettarla. Il caviale è uno che non le manda a dire, non si fa mettere i piedi in testa da nessuno». Sebbene in tanti ci provino pensando, a torto, che ne basti una manciatina per rendere wow la qualunque. «Non amo gli eccessi, caviale e foie gras, caviale sull’astice… L’enfatizzazione dello sfarzo risulta indigesta».

Quest’anno, per la tradizionale cena di gala successiva all’assegnazione degli Oscar, il “cuoco di corte” (da 31 anni) Wolfgang Puck ha presentato 70 “bites”, finger food e affini destinati ad allietare l’after party delle star. Due erano guarniti da caviale. Il primo, facile facile: mini crocchette, crème fraîche, fiorellini carini ed erba cipollina. Per il secondo si è impegnato un po’ di più rivisitando un suo celebre cavallo di battaglia, la pizza al salmone affumicato, che prevedeva una cucchiaiata di caviale a spicchio. Per l’occasione, l’ha rimpicciolita e ne ha fatto tartine. A forma di Oscar. Come dite? ‘Na cafonata? Già.

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