È arrivato quel periodo dell’anno. Quello di Mariah, certo. Ma soprattutto, questo è un tempo sacrificale. Sull’altare delle tavole imbandite a festa, va in scena l’estrema unzione del candito, perché se è vero che ci si può e si deve ingollare qualsiasi cosa in un ciclo temporale continuo, durante i banchetti delle feste è anche accettato che si possa rifiutare di mandare giù questa pepita che tanti estraggono dalla fetta di panettone senza alcuna vergogna, per lasciarla lì, esanime, tra le molliche e la cera della candela del centro tavola.
Eppure il candito – che è comunque il soggetto perfetto di @panettonepezzodimerda e per una frase tipo: CANDITO SEI FINITO VATTI A FARE UN GIRO AL FIUME HAI CAPITO CHE QUI NON TI VOGLIAMO? – non ha sempre avuto questo destino infausto e infelice. Anzi, la sua storia è antichissima e per certi versi nobilissima, dato che si intreccia a quella del secondo suo ingrediente più importante, lo zucchero. E comunque gli ingredienti dei canditi sono solo due.
Concediamoci dunque un momento-Superquark: la domesticazione delle piante che davano zucchero, le saccharum officinarum o canna da zucchero, iniziò addirittura nell’8000 a.c. in Nuova Guinea. Da qui, circa 2000 anni dopo, la pianta dovrebbe essere arrivata in Indonesia, poi nelle Filippine e nel subcontinente indiano, dove molto più tardi iniziò la sua vera produzione.
In Occidente la notizia dell’esistenza dello zucchero è data da uno dei comandanti di Alessandro Magno, tale Nearco, che nel 327 a.c. scrisse, proprio dalla Valle dell’Indo, di aver visto «un giunco che stilla miele senza bisogno di api». Ma come si otteneva lo zucchero da questo pianta? La canna da zucchero veniva pressata, se ne estraeva il succo che si lasciava bollire e poi freddare e solidificare, da questo composto si ottenevano i granellini grezzi, scuri, che in sanscrito si chiamavano sakkara. Da qui la parola: saccarosio. La diffusione di questo processo giunge poi più vicina a noi, arrivando in Medio Oriente, in Egitto e nel bacino del Mediterraneo, da dove inizia la commercializzazione di questo prodotto in tutta Europa a partire dall’anno 1000.
Fatto questo mini sunto sull’inizio della diffusione dello zucchero (che è in realtà ancora molto lunga, non abbiamo parlato per esempio della vicenda del colonialismo, della tratta degli schiavi o tratta atlantica, della coltivazione della barbabietola da zucchero, ecc.), quand’è che a qualcuno viene in mente di usare questo “miele senza api” per farci i canditi? Si ritiene che già in Mesopotamia e in Cina fosse in uso conservare piante e radici con lo zucchero. I romani, addirittura, braccine corte e stomaco forte, con questa tecnica ci conservavano il pesce. Ma è con la dominazione araba dell’Africa del Nord e di parte dell’Europa che il candito vero e proprio irrompe sulla scena e si diffonde come una qualsiasi altra spezia esotica, preziosa, orientale.

Il fungo porcino candito di LAFRUTTA. Foto cortesia
Se guardiamo infatti anche in questo caso alla sua etimologia, come per lo zucchero, ne abbiamo la prova, perché candito viene proprio da una parola araba, quandat, che a sua volta deriva da khandakah (zucchero in arabo). In Italia, il candito arabo e la sua tecnica sbarcano ovviamente in Sicilia. Lì si sviluppa il metodo italiano, che ancora oggi è qualcosa di identificativo della pasticceria tradizionale dell’isola; vedere alla voce cassata e non solo. «Personalmente li odio, ma perché non mangio frutta. Però la frutta candita in Sicilia si fa a prescindere dall’utilizzo in altre preparazioni. In Sicilia, tutto ciò che è già dolce, sappiamo che può esserlo ancora di più. Ecco perché continuiamo a fare canditi. In generale comunque sono una cosa che divide». Ipse dixit, cioè l’amica siciliana.

Il finocchio candito di LAFRUTTA. Foto cortesia
Chi non soffre di questa sindrome di indecisione come sempre è nel mezzo, in questo caso anche geograficamente. A Viterbo, nel Lazio, c’è il canditore Massimiliano Biaggioli di LAFRUTTA, che del candito “paura non ne ha”. Anzi, lui i canditi li venera, a tal punto da farne il centro del suo piccolo ma coerente progetto di business. La storia di Mammo, così è soprannominato Biaggioli, è avvincente forse quasi quanto quella del candito, o dello zucchero, perché è un intreccio di fasi e soprattutto professioni che lo hanno portato a fare l’operatore nel settore dell’informatica, poi il barista, poi il tour operator, poi l’insegnante di snowboard e infine l’impiegato in una società di moda a Londra. Lì dove ha capito che – colpo di scena – la frutta era il suo mondo. «Lì ho scoperto i lamponi, un frutto, ho pensato, che poteva essere coltivato benissimo anche da noi in Italia. Così mi sono ripromesso che una volta tornato mi sarei dedicato alla loro coltivazione. E così è stato, partendo proprio da pezzetto di terra che ho sotto casa, a Bagnaia, uno dei tanti piccoli borghi della Tuscia».

Massimiliano “Mammo” Biaggioli. Foto cortesia
Dal giardino di casa a produzioni molto più importanti, la storia dei lamponi è il volano di Mammo per i canditi, che in realtà nel suo cuore e nella sua memoria hanno sempre avuto un posto speciale. «Da bambino vedevo questi simil-gioielli e mi piacevano da matti». Così, anche con il senso pratico che lo contraddistingue nel mettersi sempre all’opera nelle cose, inizia a entrare nel mondo della trasformazione della frutta, abbandonando quello dell’agricoltura e della coltivazione dei lamponi.

Una fava di cioccolato candita di LAFRUTTA. Foto cortesia

La carciofina candita di LAFRUTTA. Foto cortesia
Ogni giorno, in un laboratorio che è più un centro gastronomico-sperimentale, fa prove su prove candendo l’inimmaginabile. È così che è nata la sezione dei Canditi Arditi di LAFRUTTA. Una fascia specifica di alimenti, soprattutto ortaggi, che sta provando a trasformare, in qualcosa di nuovo da utilizzare non solo in pasticceria ma, con moderazione, in cucina. Per citarne solo alcuni: c’è il cavolfiore, buono e croccantino, il porro, fibroso e delicato; la carciofina, i peperoni, il radicchio, il cavolo nero, i funghi porcini, la pigna, l’aglio, candito con tutta la sua buccia e la carota, che proprio a Viterbo veniva candita intorno al 1800 nella preparazione della Carota viola in bagno aromatico. Una ricetta che le suore di clausura della zona e i nobili facevano per tenere in conserva e mangiare abbinata al salame cotto viterbese, coppa di testa e carni o bolliti. Diciamo una parente della più antica mostarda.

La nocciola candita di LAFRUTTA. Foto cortesia

Il cedro candito di LAFRUTTA. Foto cortesia
Mammo per candire ha affinato una sua tecnica, che non è l’araba, e nemmeno la siciliana, ma una versione rivista che è a metà appunto tra la italiana-siciliana e la francese (certo, anche i cugini d’Oltralpe avevano la loro versione). E qui si apre un dilemma: diranno, i cugini, che il candito è forse una loro invenzione? O comunque la migliore versione che si possa trovare del candito? Può darsi, ma la cosa non ci tocca più di tanto perché noi abbiamo Mammo, e soprattutto la cassata siciliana. Basta non fargli sapere che i canditi vi sono stati aggiunti solo alla fine del XIX secolo.








