Lungarotti, ovvero quella volta che l’Umbria conquistò l’America | Rolling Stone Italia
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Lungarotti, ovvero quella volta che l’Umbria conquistò l’America

Le storie bisogna saperle soprattutto raccontare. Da Lungarotti, cantina del Centro Italia che ha cambiato tanto nella nostra enologia, lo fanno rimanendo sulla terra e stando attenti alle generazioni che passano

Lungarotti

Lungarotti Winery Torgiano, Rubesco Riserva Vigna Monticchio

Foto: press

C’è una storia curiosa riguardo ai vini italiani negli Stati Uniti. Sembra che, fino agli anni Settanta, li chiamassero candle holder wine: erano i rossi nel fiasco impagliato, buoni solo per la bottiglia panciuta da usare come pittoresco portacandela sulle tavole delle trattorie italiane “broccoline”. A far cambiare la percezione dei vini nostrani al di là dell’Oceano fu un manipolo di produttori che attraversarono l’Atlantico con il loro bastimento carico di bottiglie.

Un po’ visionari, un po’ pionieri, tra loro ci furono Franco Biondi Santi, re del Brunello di Montalcino, i vicini di casa Frescobaldi, Piero Antinori, “inventore” dei Super Tuscan. E Giorgio Lungarotti, il signore di Torgiano, terra di una delle due DOCG dell’Umbria, insieme al Sagrantino di Montefalco: «Papà viaggiava accompagnato da mia sorella Teresa, perché lui non parlava inglese», ricorda la figlia Chiara Lungarotti, amministratore delegato dell’azienda di famiglia.

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Chiara Lungarotti. Foto: press

È solo un aneddoto del passato, ma a suo modo rivelatore. Ci dice che dietro all’impresa vitivinicola italiana ci sono e ci sono stati uomini, donne, progetti e intuizioni. Dismesse le tovaglie a quadretti dell’iconografia vintage, all’estero sono ancora i ristoranti italiani («bellissimi e fichissimi», dice Chiara) la miglior vetrina per le nostre etichette. Nonostante dazi e controdazi, ricorsi e sentenze, le etichette di pregio destinate al cosiddetto settore Ho.Re.Ca (hotellerie, restaurant, café) promettono di dare battaglia.

In gioco ci sono le nostre esportazioni e, insieme, un importante ritorno di immagine: «Fuori dall’Italia siamo un’azienda molto ancorata al territorio inteso non solo come Stivale, ma proprio come Umbria». La regione, e in particolare Torgiano, sono meta di un turismo che arriva in cerca di vigne e cantine per poi scoprire un polo culturale che rappresenta un unicum a livello nazionale.

Risale al 1974 l’apertura del Museo del vino e al 2000 quella del Museo dell’olio, entrambe creature di Maria Grazia Marchetti Lungarotti, moglie di Giorgio (scomparso nel 1999) e oggi, insieme alla figlia Teresa Severini, a capo della Fondazione che promuove l’economia agricola italiana, con ovvio focus su vino e olio, e la tutela del patrimonio dei “mestieri d’arte” umbri.

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«Chi viene a Torgiano è spinto da un interesse enologico, ma facciamo rete anche con le botteghe e i laboratori artigianali di tutta la regione», conferma Chiara Lungarotti. Dalle ceramiche di Deruta alle terrecotte locali, dalle vetrerie artistiche alle manifatture del cachemire fino al meraviglioso atelier di Giuditta Brozzetti, che nella duecentesca (ex) chiesa di San Francesco delle Donne tesse a mano su antichi telai le preziose tovaglie perugine dai disegni antichi, come quelli raffigurati sulla tavola dell’Ultima Cena di Leonardo.

L’attenzione al contesto in cui è inserita l’azienda fa da contraltare al concetto di sostenibilità ambientale che caratterizza l’attività di Lungarotti. «Hanno un’attenzione totale, un’idea agronomica molto forte», ci dice Valentina Bruno, sommelier della vineria milanese Non. «Ci tengono al loro territorio, per questo producono naturalmente bene». Bruno è grande fan della cantina umbra, conosciuta sin da quando, giovanissima, stappava le sue prime bottiglie alle dipendenze di Carlo Cioni, eclettico oste toscano ad Artimino: «Quando sapevamo che arrivava Giorgio (Lungarotti, nda), era una festa e si imbandiva la tavola nella maniera migliore. Perché eravamo sicuri che con lui arrivava anche qualcosa di buono da bere».

Il buono, prima ancora che della cantina, è figlio del modo di condurre la vigna. In 200 ettari tra Torgiano e Montefalco (questi ultimi a conduzione bio) l’azienda pratica una viticoltura che valorizza le varietà autoctone, intervallate da quelle internazionali: da un lato Sagrantino, Sangiovese, Trebbiano e Grechetto, dall’altro Cabernet Sauvignon, Merlot, Chardonnay e Pinot Grigio, introdotti in Umbria da Lungarotti sin dagli anni Sessanta.

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Si lavora tra i filari con grande rispetto della biodiversità: «La concentrazione di organismi viventi è fondamentale per l’attivazione del suolo e per fare in modo che la pianta, con le radici, possa trovare in profondità elementi unici. Questo determina la peculiarità delle uve che si portano in cantina e l’identità data dal loro patrimonio aromatico e organolettico». Chiara Lungarotti, laurea in agronomia con specializzazione in viticoltura, si dilunga con entusiasmo sugli aspetti più tecnici dell’allevamento della vigna, parla di agricoltura rigenerativa e di sovescio (la semina di colture destinate ad arricchire la terra), di forme di concimazione bio e non. I terreni di Torgiano sono certificati Viva, programma del Ministero dell’Ambiente che analizza l’impronta climatica e idrica, la gestione agronomica e la sostenibilità sociale ed economica. «C’è una innegabile ricaduta sul territorio, penso ai musei che portano visitatori e alle tante attività correlate per far vivere il borgo durante i mesi invernali. E ci sono precisi impegni dell’azienda nei confronti dei collaboratori e della cosiddetta “work life balance” (l’alternanza tra vita lavorativa e vita privata, ndr), che diventa elemento di attrazione per le giovani competenze».

Ci scommette, Lungarotti, sulle nuove generazioni: sia come risorse che come consumatori. Per Teresa Severini, è indispensabile «conquistare l’attenzione dei giovani per farne futuri appassionati di vino consapevoli». Nascono da qui proposte “pop” che affiancano le bottiglie più iconiche con uno spirito contemporaneo. Pometo è una linea («fantastica», secondo Valentina Bruno) di quattro vini Igt: Grechetto, Trespo, Pinot grigio e Sangiovese, pronta beva senza pensieri. In etichetta, un gatto stilizzato dalla coda che diventa tralcio: disegnato Andrzej Kot, artista e designer polacco, l’originale è su uno degli ex libris della collezione esposta al Museo del vino.

Ultimo nato, il Progetto 1962 prende il nome dalla prima annata delle due etichette simbolo, Rubesco e Torre di Giano, ripensate con uno stile snello che racconti la storia dell’azienda in chiave attuale. Le schede tecniche illustrano uve, produzione, note gustative e match non solo gastronomici, suggerendo di assaporare i vini davanti a un film cult dell’epoca come Il sorpasso di Dino Risi, o con il sottofondo di una colonna sonora sixties tra il surf di Catherine Spaak e gli occhi verdi (dell’amore) di Renato dei Profeti.

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Così, ieri e oggi si ritrovano nel calice e ogni bottiglia racchiude una storia o, volendo usare un termine abusato, una narrazione. Che al giorno d’oggi diventa valore aggiunto, arricchendo di contenuti la degustazione. Chi assaggia il Rubesco Vigna Monticchio assapora il racconto di una vita in vigna e in cantina e lo ritrova nel bicchiere, rendendo l’esperienza completa e appagante.

«Quando voglio festeggiare qualcosa, mi verso un Monticchio», ci ha raccontato Valentina Bruno. Mentre Chiara Lungarotti ne sottolinea l’intima “umbritudine”: «Lo stappi, aspetti qualche minuto e lui si apre con generosità. Proprio come noi umbri: in partenza siamo riservati, ma quando ci sciogliamo diventiamo accoglienti e calorosi».

In un tempo in cui i messaggi sono veicolati soprattutto tramite immagini e video, c’è difficoltà a comunicare il vino. Per dirla con la poetessa, un calice è un calice è un calice: fotogenico il giusto, sicuramente meno di un croissant tridimensionale o di un frittino con il crunch sonoro. Di contro, il lessico del settore è respingente per il comune mortale che fatica a capire concetti come naso e palato, crosta di pane e pipì di gatto. Una bella storia è più facile, immediata, riconoscibile. Tramandabile ed esportabile. Dall’Umbria agli States, l’importante è saperla raccontare.

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