Sorride alle telecamere Anthony Joshua, l’amatissimo campione britannico che dalle Olimpiadi di Londra in poi il mondo dello sport avrebbe voluto eleggere a simbolo del pugilato contemporaneo: bello, simpatico, impegnato nel sociale. Sorride come se l’incontro che deve affrontare il prossimo 19 dicembre contro l’influencer prestato al pugilato Jake Paul potesse valere effettivamente qualcosa.
Ma così in realtà non è. Per chi ama questo sport è chiaro che il match milionario ha il sapore di una pensione anticipata, il riconoscimento pubblico che le sue ambizioni, insieme a tutte quelle della boxe britannica, negli ultimi anni si sono dissolte irrimediabilmente sotto i pugni di quello che è senza dubbio uno dei più grandi underdog della storia dello sport, ovvero l’ucraino Oleksandr Usyk, l’unico capace nell’era moderna di riunire intorno alla propria vita tutte le cinture dei pesi massimi, lasciando le superstar amatissime dalle televisioni a sorridere vacuamente mentre le loro carriere viravano fuori dalla sfera sportiva per indirizzarsi verso lo show.
Ma com’è possibile che, negli ultimi decenni (ovvero quelli della globalizzazione degli sport da combattimento), a vincere non siano i super tecnologici atleti americani, i pugili di sua Maestà con il pedigree centenario, o gli spettacolari latini guidati dal rampante Messico, bensì gli scalcagnati figli di un impero caduto, allenati in fredde palestre di periferia, provenienti da Paesi che neanche sappiamo mettere sulla mappa? Ci poniamo questa domanda proprio nei giorni in cui il kazako Gennady Gennadyevich Golovkin, per tutti GGG, entra nella Hall of Fame della Boxe, e lo fa non da caso isolato, perché oggi più che mai in ogni categoria di peso pare ci sia in agguato un suo possibile erede proveniente dalle montagne del Caucaso, dalle steppe siberiane o dai deserti dell’Asia centrale.
Se l’URSS è morta, almeno questo spettro si aggira ancora per l’Europa, un filo mai spezzato che rimbalza avanti e indietro tra le ex Repubbliche sovietiche, così come rimbalzano all’infinito i piedi dei loro atleti avanti e indietro sul ring. Un’impronta genetica che continua a emergere a trentacinque anni dalla dissoluzione, nel gioco di gambe ripetuto fino allo sfinimento, nella durezza quasi dogmatica con cui i pugili dell’Est mantengono la distanza, nell’ostinata riluttanza al chiacchiericcio mediatico.
Il paradosso è tutto qui: l’Unione Sovietica è morta, ma la sua scuola domina ancora, come se il ring fosse uno degli ultimi libri di filosofia e le sue lezioni – disciplina, sacrificio, gerarchia – continuino nonostante tutto a funzionare. Ma è davvero così? E cosa resta, nell’immaginario russo e post-sovietico, di quel modo di muoversi e pensare sul ring? Per rispondere, serve andare alle radici del fenomeno. E soprattutto interrogare chi queste radici le studia, le vive e le insegna ogni giorno.
Che cos’è il pugilato sovietico?
Per capire cos’è oggi questo stile, dobbiamo spendere qualche parola introduttiva sulla sua storia. La boxe sovietica nasce come progetto politico prima che sportivo: uno strumento con cui lo Stato poteva dimostrare che la disciplina socialista era superiore all’individualismo occidentale. Da questo principio scaturisce un metodo definibile quasi come modello educativo, che passa dalla ripetizione ossessiva e dalla codificazione di ogni gesto.
Nei centri sportivi statali, sparsi in tutte le Repubbliche e negli Stati-satellite, si insegnava a combattere mettendo da parte la potenza, e portando al centro dell’addestramento il controllo: gioco di gambe indipendente, continuo, che non si piantava mai a terra, e una mobilità costante che permettesse di mantenere una distanza calcolata al millimetro, sufficiente per colpire senza essere colpiti.
E poi gli schemi: ogni combinazione di colpi viene ripetuta fino alla saturazione, fino a che non diventano sequenze mnemoniche automatiche, parte di una coreografia funzionale senza sbavature. La scuola sovietica non prevedeva improvvisazioni, scintille creative, colpi che nascono dal caos: era costruita sul principio dello zero spreco e zero estetica. Il respirare, il bilanciamento, la postura — tutto era studiato in modo militare. Il colpo come un elemento geometrico: lineare, pulito, diretto, efficace senza teatralità.
Questa mentalità deriva da un tratto profondo della cultura sovietica, quello che voleva lo sport come scienza e disciplina di Stato. Ed è per questo che la boxe e gli scacchi, sotto il socialismo reale, finirono per assomigliarsi più di quanto si creda. La famosa “scuola sovietica degli scacchi”, che ha dominato il mondo per quasi mezzo secolo, funzionava secondo gli stessi principi: centralizzazione, metodicità, studio sistematico, visione d’insieme. Le aperture venivano memorizzate come combinazioni; le posizioni analizzate fino allo sfinimento; il gioco rapido diventava un mezzo per educare il calcolo intuitivo. Il giovane scacchista, come il giovane pugile, veniva allenato a prevedere, anticipare, occupare lo spazio e sottrarsi al margine dell’errore.
Oggi il Kasparov del ring è senza dubbio Dmitry Yuryevich Bivol, nato a Tokmok, in Kirghizistan, nel 1990, da padre moldavo e madre coreana, ma cresciuto a San Pietroburgo. Tre volte campione nazionale russo, passa al professionismo a 24 anni. Bivol si muove come se il ring fosse una lavagna, e ogni colpo una linea tracciata a righello. Il suo gioco di gambe è indipendente, continuo, mantiene una distanza chirurgica, e porta combinazioni ripetute allo sfinimento, sempre le stesse, sempre identiche, eppure sempre efficaci perché eseguite con una precisione quasi disumana. Una superiorità stilistica che gli ha permesso di battere la superstar della boxe del ventunesimo secolo, il messicano Canelo Álvarez, e di arrivare a essere eletto campione undisputed della sua categoria contro un altro grande della sua stessa scuola, ovvero il russo Beterbiev.
Il pugilato sovietico non può essere mainstream
Niccolò Pavesi è una delle voci più riconoscibili della boxe italiana contemporanea, non solo per il suo ruolo di commentatore per DAZN, e come voce narrante di TAF – The Art of Fighting, promotion italiana che più di tutte sta contribuendo a riaccendere i riflettori su questo sport in Italia, ma anche per la sua penna tagliente, che trova libero sfogo sui social, dando parola in modo brillante a verità su questo sport che a molti non piace sentire. Quando si esprime sul pugilato sovietico lo fa come se stesse maneggiando un fenomeno tanto tecnico quanto antropologico, con risvolti economici non trascurabili.
«Innegabilmente negli ultimi decenni i pugili migliori non sono quelli dei mercati occidentali, e chi organizza gli incontri li deve “importare” se vuol far vedere qualità vera. Ma purtroppo il talento non basta. Il pugilato moderno è diventato spettacolo, racconto, esposizione continua di sé. E qui entra in gioco il primo grande problema dell’eredità sovietica: l’incapacità – o il rifiuto – di comunicare di molti di questi atleti».
Una grande verità culturale, dai crudeli risvolti economici, quella sottolineata da Pavesi. «Tanti di loro sono poco vendibili. Il pubblico vorrebbe atleti che riescano a comunicare le proprie vittorie e non solo, anche le vite private sui social, in TV… Questo tipo di show con gli atleti dell’Est difficilmente riesce, molti di loro per esempio non sono interessati a imparare l’inglese. È un limite di mentalità. Vivono per il loro sport e ci dedicano ore e ore, ma pare che non abbiano compreso che non riuscire a spiccicare una parola in conferenza stampa è altrettanto deleterio per le loro carriere di una cattiva preparazione atletica, se vogliono calcare certi palcoscenici».
Foto: Mike Tamasco
Anche chi ci prova, e caratterialmente sarebbe portato alla simpatia, come Usyk, si scontra in modo evidente con questi limiti linguistici. È diventato un meme la sua risposta alla domanda di un giornalista a Berlino che gli chiede: «How do you feel, Alex?». E lui risponde stentatamente: «I’m feel». Poi lo rafforza: «I’m very feel». Risultato: l’espressione è risultata simpatica e ora la si trova sulle magliette.
Ma se questa è una storia a lieto fino, è altrettanto sintomo del problema di comunicazione tra mondi di cui Pavesi parla. E comunque questi sono gli esempi positivi, perché poi c’è chi, come Beterbiev, con la stampa praticamente non ci parla: «Questi pugili sono tutti figli della loro cultura. Quando Beterbiev combatteva per la nazionale russa gli era vietato di parlare con i giornalisti. Vietato. Tu cresci così: sei un soldato. Non un generale. I generali erano i dirigenti della federazione. Tu devi allenarti al massimo e vincere. Tutto il resto è inutile, un orpello».
Quando a Usyk, il 19 luglio 2025, subito dopo la vittoria contro Dubois, un giornalista internazionale chiese in un inglese agile, ma con il cervello goffo di mitologia hollywoodiana, quale fosse stata la sua motivazione, l’ucraino rispose con quella che forse è la sua più bella frase, e che potrebbe essere il riassunto di questo articolo: «Motivation is temporary… When I wake up early for training, I never have motivation. I only have discipline». Nessuna motivazione, solo disciplina.
Il punto è che questo rigore militare non ha mai lasciato davvero il ring. È diventato un marchio culturale che sopravvive, trentacinque anni dopo, anche in altri sport come la lotta o il sambo, che infatti continuano a sfornare altrettanti grandissimi campioni di MMA. Come la stirpe dei Daghestani, che continua da anni a mandare giù dalle montagne atleti allevati combattendo contro gli orsi, che finiscono inesorabilmente per uscire titolati dal Madison Square Garden. Da qui la riflessione si allarga a un dato spesso ignorato: la sproporzione tra la qualità dei dilettanti ex sovietici e il numero irrisorio di quelli che passano al professionismo. Pavesi ci ha lavorato sopra come un archeologo dello sport.
«Ci sono decine di medagliati olimpici ex sovietici che non sono mai passati a pro. E tu dici: ma com’è possibile? Semplice: il promoter non li vuole. Se ho già un Gervonta Davis che vende tantissimo, perché devo prendere un uzbeko che non parla inglese e rischiare che me lo batta? Non lo faccio. Punto. Tutti questi atleti kazaki, armeni, uzbeki, russi, ucraini sono penalizzati dal fatto che nel mondo del fighting lo spettacolo oggi conta quanto la tecnica. Perché un promoter dovrebbe rischiare di far battere uno dei suoi da uno sconosciuto che parla poco e vende meno?».
L’ultima domanda che mi sento di fare a Pavesi non ha, ovviamente, risposta: questo stile sopravvivrà o il tempo lo dissolverà? «A oggi i migliori maestri sono ancora quelli ex sovietici. Ma hanno 60-70 anni. Bisogna capire se hanno formato a loro volta dei nuovi maestri o soltanto degli ottimi pugili. Paradossalmente se la Russia si chiude in se stessa, allora continueranno a tenere vivo questo stile. Se gli allenatori invece emigrano, tutto cambierà. Per ora la combinazione tra disciplina soldatesca e allenatori pazzeschi li tiene al vertice. Domani è un’incognita».
È un passaggio sospeso dunque, quasi una nota a margine. Ma è proprio sui margini che si tiene la storia della boxe sovietica.
Un russo in Italia
L’appuntamento che ci siamo dati è davanti a uno dei monumenti meno conosciuti di Firenze, ovvero alla Chiesa Ortodossa Russa della Natività di Cristo. In una città come questa, intrisa di Medioevo e Rinascimento, è facile smettere di interessarsi a tutto quello che è successivo alla scoperta dell’America, ma al contempo è un errore. A partire dall’Ottocento Firenze divenne uno dei centri italiani più frequentati dalla nobiltà e dall’alta borghesia russa, attratte dal clima, dal prestigio culturale e dall’atmosfera cosmopolita che permetteva alla diaspora intellettuale dell’Impero di vivere, studiare e sostenere iniziative artistiche e in parte anche di trasformare la città in quella che è adesso, in modi alle volte insospettabili.
È un lascito russo, per esempio, l’Ospedale Pediatrico Meyer, fondato nel 1891 grazie al testamento del barone Meyer, banchiere nato a San Pietroburgo il quale, dopo la morte della moglie Anna, finanziò un ospedale interamente dedicato ai bambini, gesto che trasformò il suo lutto privato in una delle opere filantropiche più durature della città. Ma forse la famiglia più importante furono i Demidoff, dinastia di industriali e mecenati strettamente legata alla corte imperiale, che qui stabilirono dimora da quando Anatolij Nikolaevič Demidoff acquistò la Villa di San Donato, trasformandola in uno dei complessi più impressionanti dell’epoca. Fu la stessa famiglia a costruire la prima chiesa russa d’Italia tra il 1899 e il 1903, quella dove oggi io e Valeri ci siamo dati appuntamento.
Valeri è nato in Russia, cioè, in Unione Sovietica, anche se si è trasferito in Italia quando aveva 12 anni. Qui da noi, dopo un passato da boxeur, da alcuni anni si dedica all’insegnamento del pugilato. in maniera estremamente trasversale lo si può trovare impegnato a fare lezione privatamente in hotel a cinque stelle, o con manager di multinazionali, ma pure negli ambienti familiari legati alla Fiorentina o a formare ragazzini in palestra.
In pochi minuti di macchina ci spostiamo all’ASD Fight Club Xboxing, per salire insieme sopra un ring e provare a capire che cosa vuol dire tutto quello di cui fino a ora abbiamo parlato solo in teoria.
«Il pugilato, nell’ex Unione Sovietica, è sempre stato uno sport amatissimo, radicato fin dall’infanzia dentro un modello antropologico molto preciso in cui l’uomo deve essere forte, la colonna della famiglia, capace di proteggerla e di difendere la patria. L’accento nell’URSS era posto sull’orgoglio e sul senso di appartenenza, e questo non lasciava spazio all’idea di mostrare debolezze, né fisiche né mentali. Molti dimenticano che il pugilato, oltre alla forza, è una questione di testa», mi racconta mentre si allaccia i guanti dopo aver finito il riscaldamento.
«Certo, anche qui i pugili sono figure note al pubblico, ma in Unione Sovietica erano star: le medaglie olimpiche per tutti noi avevano un valore enorme, non solo per l’atleta e la sua famiglia, perché rappresentavano davanti all’Occidente la dimostrazione di poter essere i migliori quando si trattava di giocare ad armi pari».
Ma oltre alla filosofia, cosa sia realmente per lui la scuola sovietica me lo mostra muovendosi veloce e coordinato, senza esitazioni: «Secondo me ci sono tre elementi basilari: Indipendenza di gambe, respiro costante, senza andare mai in affanno, e indipendenza dei colpi. Per tutto ciò è importante avere un ottimo controllo del corpo. Equilibrio, coordinazione, spostamento avanti e indietro, senza dare punti di riferimento all’avversario. Questo rende fondamentale non avere mai i piedi piantati per terra, ma rimanere sempre morbidi sulle punte.
Questo movimento deve essere automatico, le gambe sanno già quello che devono fare in ogni momento, permettendo di spostare l’attenzione sulla parte superiore, dove nel frattempo porti le combinazioni, con schemi ripetuti all’infinito durante i duri allenamenti, provando a prevedere le mosse dell’avversario. Mentre lui sta ancora pensando alla tua probabile mossa, tu sei già entrato e uscito». Un po’ come gli scacchi, appunto.
Quando si arriva al tema della mentalità, le sue parole si allineano sorprendentemente a quelle di Pavesi, anche se arrivano da un’altra esperienza. «La mentalità sin da quando siamo piccoli è quella di vincere. Non esiste partecipare e basta. Mi ricordo che, quando sono arrivato in Italia, sentivo i professori di educazione fisica a scuola dire che “l’importante non è vincere, ma partecipare”. Questa cosa mi sconvolgeva. Da noi la mentalità era quella di dover essere sempre i primi. Il secondo posto equivaleva a essere sconfitti, motivo per cui la preparazione alle Olimpiadi non riguardava solo gli atleti ma tutto il Paese, che era come se lavorasse in concerto per loro, perché tutti potessero dire: siamo i migliori».
Infine, gli chiedo cosa cerchi di trasmettere ai suoi allievi in Italia: «Nella vita, come nella boxe, una delle lezioni fondamentali della scuola sovietica è non offrire mai un bersaglio fisso: l’avversario non deve capire dove sei e dove sarai un istante dopo. Un momento ti trova di fronte, quello successivo altrove, e mentre ti sposti fai partire i colpi, senza permettere all’altro di adattarsi. Più sei tu a dettare il movimento, meno ti esponi e maggiori diventano le possibilità di avere la meglio».
E ancora una volta trovo nelle sue parole quel sogno del miglioramento che trascende il singolo individuo, ma va ad abbracciare l’umanità, e che forse era lo scopo ultimo dell’educazione sovietica, in ogni ambito della vita. Un sogno forse ingenuo, come se si fosse potuto far evolvere l’uomo in maniera lamarckiana, e Darwin non fosse mai esistito. E anche se noi occidentali moderni sappiamo perfettamente che non è così, ogni volta che un pugile in pantaloncini Nike tocca il pavimento non posso non pensare a quello che scriveva uno dei più grandi poeti russi del Novecento, Osip Mandel’štam: «E mi piace quando Lamarck si degna di andare su tutte le furie, e tutta questa pedagogica noia svizzera va in mille pezzi. È la Marsigliese che irrompe nella nozione di “natura”! I maschi dei ruminanti danno di cozzo con la fronte. Non hanno ancora le corna. Ma la sensazione interiore prodotta dall’ira dirige verso l’escrescenza frontale i fluidi che favoriscono la formazione della sostanza cornea e ossea».
