‘Wild Swimming’, se solo gli altri parlano di noi | Rolling Stone Italia
non è un paese per monadi

‘Wild Swimming’, se solo gli altri parlano di noi

L'esordio narrativo di Giorgia Tolfo, uscito quest'anno per Bompiani, ci riporta allo stadio-zero della lettura (e della scrittura): quando, infestati dal passato, non siamo più noi stessi, e improvvisamente ci comprendiamo

Giorgia Tolfo

Giorgia Tolfo

Foto: Robin Christian

Il nuoto in acque selvatiche richiede un certo grado di smemoratezza. Non ci si può ricordare troppo di se stessi, mai cogitare, puro corpo meccanico. È un modo assurdo, per l’essere umano, di procedere nell’esistenza. Innaturale, controintuitivo.

Il nuoto in acque selvatiche (è una brutta traduzione di wild swimming, ci arriviamo), diciamo allora, richiederebbe l’incapacità – o la sospensione dell’abilità – di guardarsi a due passi di distanza. Di percepirsi scissi dal proprio habitat: per noi bipedi significa sempre il landscape culturale. Quello che sappiamo dell’altro che poi diventa nostro. Quello che gli altri, di rimando, sanno di noi.

Tra i contemporanei è stata Annie Ernaux a (ri)fare letteratura dell’esperienza del singolo. Gioie e dolori concretissimi, ben oltre l’etichetta romantica che comunque diede il via a questo connubio. La sua è autobiografia che non diventa autofiction ma correlativo oggettivo per il lettore: ci si ritrova direttamente, attraverso il filtro di una figura retorica (scegliete voi quale), o compiendo tutto il giro e assorbendo prima il commento su uno stato di cose sociale e culturale.

Giorgia Tolfo lo sa. È nata a Marostica, in Veneto, nel 1984, così dice la nota biografica a corredo di Wild Swimming, il suo esordio narrativo uscito quest’anno per Bompiani. È traduttrice, autrice e ricercatrice. Il curriculum si perde un punto importante: Tolfo è evidentemente, per mestiere e costrizione interiore, una lettrice.

Una che, nel testo, ripercorre i capitoli della propria esistenza come quelli di un libro. Le geografie si mischiano: vado a vivere fuori dall’Italia, a Londra, perché lo voglio, o perché lì sono state scritte parole che mi hanno parlato, che mi hanno centrato e consolato e, alla fine di tutto, creato? «Forse cercavo, immergendomi in acqua e nuotando al di sotto della superficie, di poter sbucare nei miei posti amati, quelli in cui in quell’istante fisicamente non ero, ma che continuavano ad abitarmi».

Anche qui siamo nell’autobiografia, verrebbe da dire, ma forse non è corretto. Lo scritto di Tolfo ha qualcosa del diario e tanto della confessione. Meno tormentata di quella di un mangiatore d’oppio, eppure ai raggi X, scandaglio di una profondità interiore intuita e ristretta nelle prime pagine, poi liberata come le bracciate di questo atto – persino impudico – di nuoto selvatico, ovvero in specchi d’acqua non regolamentati. Pensate un laghetto in un parco, la polla alla base di un ghiacciaio, ma perché no anche un fiume magari dimesso. Qualcosa che libera e mette in discussione, l’accento è sull’esperienza “extra” cioè al di fuori: delle regole, del percepito. Se non effettuato con convinzione spassionata diventa un atto risibile, così scrive Tolfo. Fuori posto.

La linea di trama, volendone rintracciare una – ma io riposo sempre con lo scrittore messicano Álvaro Enrigue, quando dichiara che la trama non dev’essere una superstizione, ma una concessione al lettore – è quella del romanzo di formazione (se di romanzo si può parlare nel caso di Wild Swimming). Dalla provincia veneta, la protagonista cioè Giorgia Tolfo autrice e narratrice (e traduttrice, e lettrice) finisce nel Regno Unito e cerca di comprare casa. Nel frattempo bazzica le dating app. È interessata alle donne. Lei è degli anni Ottanta e mica nata in città, quindi col cavolo, che non conta niente. Significa, assai, ma senza chiamare in causa quegli altri libertini, quelli della scoperta e del tormento.

Giorgia si innamora, qualche volta. Altre si invaghisce o si infatua e vuole segnare la differenza. “Un giorno da uova e uno da latte”, cioè un po’ così e un po’ cosà, usando un’espressione inserita nel testo proprio da lei. È una narratrice inaffidabile, come tutti quelli che scrivono secondo un solo punto di vista. «Guarda che perdo sempre il filo, seguo una direzione e poi mi distraggo. Procedo per associazioni, apro parentesi, mi faccio condurre dalle divagazioni. Non sono affidabile». D’altronde, se la Storia è scritta dai vincitori, le storie si scrivono a posteriori. Quando, cioè, si sa come vanno a finire e riusciamo a osservarle dipanarsi davanti a noi, filo di noi stessi.

Così si sceglie che cosa inserire nel testo. Si capisce da che cosa è composto, quel testo. Per Tolfo è pure questione di mestiere. Tradurre è comprendere un testo e ripercorrerlo. Rintracciarne l’intentio dicendi, nozione di Linguistica Generale che sta semplicemente a indicare non le cose che galleggiano, ma quelle che si ancorano al fondo. Quello che davvero vogliamo trasmettere, dove davvero vogliamo arrivare.

«Il mio amico ha detto che forse nei testi di Hall e Glissant avevo trovato la traduzione della mia esperienza. Non la stessa esperienza, ma una sua approssimazione». E se tutta l’esperienza fosse traduzione? In fondo, è estetica doppiamente: nell’attimo della percezione presente, quella carne del mondo che rende la stessa visione di una stessa montagna diversa per osservanti diversi, in momenti sincroni o diversi (o almeno, così argomentava il filosofo Maurice Merleau-Ponty); e nel processo, totalizzante, del ricordo. Il che avviene al futuro. Comunque, a prescindere dal tempo della narrazione (la nostra), è una questione testuale. Di fatti che si intrecciano, di snodi. Che cosa inseriamo nel nostro testo? O siamo inseriti in un testo preesistente? È possibile nuotare in acque selvatiche, esperire e comprendere la propria esperienza in uno stato di verginità?

«Guardarsi attorno significa essere sempre haunted. A volte lo si è dal passato dei luoghi, altro dal nostro passato in quei luoghi». Questa è la hauntology di Mark Fisher e Jacques Derrida, teoria che spiega come tutto, a un livello ctonio di realtà, si leghi insieme. Come il presente sia infestato (questa la traduzione) dal passato, come questo generi la nostalgia per il fantasma di un futuro che non è mai stato, o che non sarà mai.

«Volevo allo stesso tempo controllare e non controllare la mia vita, viverla e non viverla, volevo che qualcuno la risolvesse perché io non ero in grado di fare – letteralmente – un passo». Scrivere è tra-scrivere: «Nel momento in cui viene trascritta, la realtà diventa finzione». Wild Swimming è una storia di crescita, di traumi e di strategie di superamento, di dolori e prese di coscienza, di chi siamo stati e chi inevitabilmente saremo. È un libro che, certamente, incoraggia ad andare in terapia per districare la matassa. Però è anche, e mi sembra in maniera più preziosa, un vademecum per la lettura, Legge di Lavoisier: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Che poi vuole dire, come nell’hauntology, che tutto quello che c’è, è già stato in un’altra forma.

Ah, questa scrittura, potessimo dedicarci al wild swimming in santa pace. Solo gli altri parlano di noi. Cogitiamo, ergo siamo. Forse era solo il numero a essere sbagliato. Le monadi non vanno forte, in natura.