Tommaso Labranca aveva capito tutto, ma tutti non abbiamo capito lui | Rolling Stone Italia
Labrancoteque

Tommaso Labranca aveva capito tutto, ma tutti non abbiamo capito lui

La “mafietta editoriale” lo considerava solo un “esperto di cazzate” mentre lui, nel disinteresse generale, ci raccontava con lucidità un’epoca mentre quell’epoca scorreva di fronte ai nostri occhi

Tommaso Labranca aveva capito tutto, ma tutti non abbiamo capito lui

Su YouTube, in un video un po’ sfocato, appare nella trasmissione Glob di Enrico Bertolino che gli chiede: «Usando il linguaggio di Facebook, qual è la tua situazione, complicata o serena?». E lui: «Serena, perché non ci sono più». «Sei mancato su Facebook?» si stupisce il conduttore. «Non ci sono proprio più io, non solo il profilo». Era il 2009 e Tommaso Labranca, con più di 20 anni di anticipo, aveva capito tutto.

Infatti, già allora si era accorto della natura profonda dei social dopo «averci passato 24 ore al giorno, anche 25 perché non dormivo». Aveva capito la solitudine che sono in grado di amplificare, nonostante l’apparente “mission” di riunirci in una globale rete amicale: «Il momento più brutto è stata la Vigilia di Natale, non c’era nessuno. Solo io».

Probabilmente oggi, che anche alla Vigilia di Natale sulle piattaforme si trova sempre qualcuno, riuscirebbe a sentirsi comunque solo nella folla. Forse più di ieri. Ma sempre in quella breve partecipazione televisiva c’è tutto lo stile labranchiano, quando subito dopo tira fuori una citazione spiazzante, colta e nello stesso tempo illuminante: «C’è una poesia di Marino Moretti del 1910 dove diceva “ah i miei genitori che si scrivevano le lettere d’amore mentre noi non lo facciamo più..”. Per cui le lettere non le scriveva più nessuno da tempo, neanche su Facebook». Oggi può sembrare un ragionamento comprensibile, vent’anni fa in piena sbornia social no. Così come la chiusa del suo discorso, che alla provocazione (««il linguaggio si è asciugato, ma è giusto perché in realtà non abbiamo nulla da dirci. Meglio non dirlo con poche parole che non dirlo con tante. Anzi, è proprio meglio non parlare») segue l’analisi profetica quanto Bertolino lo sollecita su cosa sia la solitudine nell’epoca di Facebook: «Cercare di avere più amici possibile fingendo una grande vita sociale che non hai». Nel 2009, ricordiamolo, chapeau!

Come spesso accade, in Italia Labranca venne sottovalutato, emarginato, deriso, fino alla sua morte prematura, a soli 54 anni, nel 2016. Troppo intelligente e libero, persino asociale (o meglio “isolazionista”, dal libro scritto per Castelvecchi che più amava tra i suoi), quindi non assimilabile, omologabile, da poter far confluire in correnti di pensiero, né tantomeno politiche.

Eppure Labranca, meglio di chiunque altro, ci ha illustrato – con largo anticipo partendo dal teorizzare il trash – cosa ci avrebbero riservato gli anni ‘20 di questo millennio attraverso una miriade di avventure giornalistiche, televisive, editoriali, musicali, artistiche, tutte al limite del situazionismo per la loro breve e apparente effimera durata, ma che “unendo i puntini” formano ora un vero studio di un’epoca mentre quell’epoca scorre di fronte ai nostri occhi.

E se merita quindi di essere riscoperto, non c’è niente di meglio che partire da una novità editoriale che prende il nome di Labrancoteque (Gog edizioni): «Una egozine autoprodotta artigianalmente, una sorta di diario/confessione in Pdf, circolato a suo tempo quasi clandestinamente e che ora vede la luce in versione cartacea, dove attraverso aneddoti, interviste, ritagli di giornale, piccole note, riflessioni alte e basse, riusciamo a scoprire tutte le sue ossessioni, tutto il suo percorso intellettuale, i suoi drammi esistenziali, i rancori covati ma anche i suoi grandi amori e le sue passioni», si legge nella presentazione.

Un volume di oltre 300 pagine che, sfogliato frettolosamente (come accade in libreria), potrebbe depistare, un po’ come il suo autore: talmente colorato, curato nella grafica e ricco di immagini e fotomontaggi che si stagliano in spazi ampi e fuori da ogni standard contemporaneo, che i testi sembrano radi e a corredo di questo florilegio di creatività editoriale. Non è così. Perché – e questo è il vero valore aggiunto donato al materiale labranchiano – quando ci si mette a sfogliare la rivista con calma ci accorgiamo che i testi sono numerosi, ricchissimi, terribilmente attuali (benché scritti molti anni prima) e definitivamente rivelatori del “carosello umano” che ha popolato gli ultimi decenni italiani fra intellettuali fintamente engagé, esperti di marketing in vacca, situazionisti dello spettacolo, coatti e neoproletari, tenuti tutti insieme da quella «mafietta editoriale con i suoi ducetti» che non lo ha mai accolto e, anzi, lo considerava soltanto un «esperto di cazzate».

Così, nella Labrancoteque si può godere di mirabili analisi antropologiche, anche partendo da argomenti squisitamente musicali. Come nella recensione del disco dei Daft Punk considerato «un ottimo sottofondo per spolverare la libreria». O nella retrospettiva sulla discomusic nata come «espressione degli apolitici». Passando alla cena con Paola e Chiara nel periodo in cui si ritirarono dalle scene e quella frase che alla fine gli disse il poeta Aldo Nove: «All’inizio eravamo intellettuali da una parte, cantanti dall’altra… ma dopo siamo diventati tutti gli stessi disperati». Fino alla descrizione impietosa di un volo low cost verso Londra pieno di «aspiranti designer italofobi, intimiditi frequentatori dei GREST oratoriali alla loro prima avventura volante, fan appesantite degli One Direction stoltamente convinte di scoparsi a breve una nazione di maschi graziosi come i loro idoli, legioni di gay “quarantenni ma giovanili” in look Mengoni (capello bananato e occhiale avvolgente) che appena possono volano lassù da amici pakistani con laundrette e già al gate hanno assunto quell’aria di sufficienza e disprezzo verso la madrepatria tipicamente arbasiniano».

Ma c’è tanto altro in questa rivista, che va centellinata per non rischiare la depressione per quello che Labranca aveva capito sui rischi dalla società dei consumi a quella dell’infotainment, come dimostra nell’ultima intervista riportata nel volume, quando gli chiedono «quali sono le notizie o i fenomeni mediatici che ti irritano maggiormente?» e lui, in un “post”, contiene un mondo ancora in corso: «Le ondate di calore. I delitti irrisolti tra buzzurri tatuati delle zone depresse. Le eccitazioni legate a Internet (impazza sulla Rete, YouTube esplode, il Popolo della Rete si esalta). Le manifestazioni con spettacolino cromatico al seguito (calzini azzurri, sciarpa bianca, popolo viola). Gli innamoramenti per il guru di turno (Grillo, papa Francesco, Berlusconi, Santoro). Quasi tutte le notizie di politica interna divise tra chi vede la luce e chi non vede più nemmeno la lampadina». Sono sette anni che è scomparso Tommaso Labranca, ma sembrano passate poche ore.